lunedì 25 novembre 2013

Assaggi di lettura: Neve a primavera di Sara Jio


Salve carissimi lettori,
qui a Bookcret si batte un po' la fiacca per via di vari impegni, impossibili da rimandare o da evitare. Pertanto oggi, giorno in cui avrei dovuto pubblicare la mia recensione di Neve a primavera di Sara Jio ma, che non sono riuscita a terminare in tempo, vi propongo la lettura del primo capitolo. Intanto vi do appuntamento a domani per la pubblicazione della recensione vera e propria. Mi scuso con tutte quelle che la aspettavano con ansia e vi auguro un buon proseguimento di serata.


I CAPITOLO


VERA RAY


Seattle, 1º maggio 1933

Uno spiffero gelido s'infilò attraverso le assi del pavimento, facendomi
rabbrividire, e mi strinsi addosso il maglione di lana grigio. Gli rimaneva un unico bottone ma, a cinque centesimi l'uno, il solo pensiero di rimpiazzare quelli che mancavano mi sembrava un lusso inutile. E poi, ormai era primavera. In teoria, almeno. Lanciai un'occhiata alla finestra di quella piccola stanza al secondo piano, ascoltando il fischio cupo, furioso del vento. I rami del vecchio ciliegio sbatterono contro la facciata con una forza tale da farmi sobbalzare: il vetro non avrebbe retto a un altro colpo. Non mi potevo permettere di farlo riparare, non quel mese. In quel preciso istante, qualcosa d'inaspettato catturò la mia attenzione, facendomi dimenticare per un attimo le preoccupazioni: il cielo era un mulinare di germogli rosa pallido. Sorrisi. Proprio come la neve, pensai con un sospiro. «Mamma?» squittì la vocina di Daniel, da sotto le coperte. Scostai la trapunta blu, piena di rattoppi, scoprendo il suo viso bellissimo, incorniciato di boccoli biondi e morbidi come quelli di un angioletto. Ormai aveva tre anni, guance rosee e paffute e occhi di un azzurro così intenso da togliere il fiato, ma quando dormiva aveva la stessa espressione del giorno in cui era venuto al mondo. A volte, all'alba, entravo in punta di piedi nella sua stanza e lo guardavo, stretto al suo orsetto di pezza, che aveva un orecchio strappato e il fiocco di velluto blu ormai logoro, ma lui non se ne separava mai. «Che c'è, tesoro?» gli chiesi, mentre m'inginocchiavo accanto al letto in legno di pino, lanciando un'altra occhiata fuori, preoccupata per il tempaccio che infuriava. Che razza di madre sono, a lasciarlo qui tutto solo in una notte del genere? mi chiesi, sospirando. Del resto, che alternative avevo? Caroline faceva l'ultimo turno e io non potevo portarmelo di nuovo in albergo, non dopo quello che era successo il finesettimana precedente. Estella lo aveva trovato a dormire nella suite del nono piano e lo aveva scacciato dal piumino caldo come se fosse stato un topo sorpreso col muso in un barattolo di farina. Daniel si era spaventato a morte e io per poco non avevo perso il posto. Feci un respiro profondo. No, sarebbe stato benissimo lì a casa, il mio piccolo angelo, al caldo e al sicuro nel suo lettino. Avrei chiuso la porta a chiave. I muri erano sottili, ma la porta, quella sì, era robusta. Mogano massiccio, con una bella serratura in ottone. Trasalimmo entrambi quando sentimmo bussare, di sotto. Un martellare incalzante, ostinato, violento. Daniel fece una smorfia. «È di nuovo lui, mamma? È l'uomo cattivo?» mi chiese, la voce ridotta a un sussurro. Gli posai un bacio sulla fronte, cercando di nascondere la paura che mi schiacciava il petto. «Stai tranquillo, amore mio. Forse è solo zia Caroline. Tu stai qui, vado a vedere», gli dissi, prima di alzarmi. Scesi le scale e per un attimo rimasi paralizzata in soggiorno, chiedendomi che cosa fare. I colpi alla porta continuavano, ancora più forti e rabbiosi. Sapevo chi era, e che cosa voleva. Guardai la mia borsetta: non c'era che un dollaro, dentro, al massimo due. Ero in ritardo con l'affitto di tre settimane; finora avevo tenuto a bada Mr Garrison accampando scuse, ma adesso... E la mia paga se n'era andata per fare la spesa e per comprare un paio di scarpe nuove a Daniel. Non poteva più andarsene in giro con quelle ciabattine minuscole, poveretto.
Toc, toc, toc...
I colpi sembravano riecheggiare il battito del mio cuore, da quanto era forte. Non avevo scampo, intrappolata fra quei muri che sembravano una gabbia di ferro, o una rete coperta di ruggine. Che cosa potevo fare? mi chiesi, terrorizzata. D'istinto, abbassai lo sguardo sul polso. Quel bracciale d'oro, sul quale erano incastonati tre deliziosi zaffiri, era un regalo del padre di Daniel. Quella notte ormai lontana, all'Olympic Hotel, ero stata un'ospite, non una cameriera in divisa nera e grembiule bianco. E, quando, dopo aver aperto l'astuccio blu, lui mi aveva agganciato il bracciale al polso, per la prima volta mi ero sentita degna d'indossare un gioiello del genere. Non avevo mai visto niente di così bello. Allora mi sembrava persino sciocco pensare che avrei potuto... Strinsi forte le palpebre, mentre i colpi continuavano. Stavo per sganciare il fermaglio, ma mi bloccai, scuotendo la testa. No, non potevo darlo a lui, non potevo arrendermi così. Avrei trovato un'altra soluzione, mi dissi, nascondendo il bracciale sotto il polsino del vestito. Con un respiro profondo, mi avvicinai lentamente alla porta e feci scattare la serratura. I cardini cigolarono e mi ritrovai di fronte Mr Garrison, fermo nel corridoio. Non era difficile capire perché Daniel ne avesse così paura: era un uomo alto e corpulento, col volto severo quasi del tutto coperto da una barba grigia e incolta, che lasciava a stento intravedere le guance rubizze e butterate e gli occhi scuri, dallo sguardo ostile. Nel fiato rancido si avvertiva la traccia resinosa del gin fatto in casa, a indicare che era appena uscito dal locale al piano di sotto. Eravamo ancora sotto il regime austero del Proibizionismo, ma la polizia di solito chiudeva un occhio, in quella zona della città. «Buonasera, Mr Garrison», dissi, con tutta la dolcezza che riuscii a radunare. Lui fece un passo in avanti, piazzando sulla soglia il grosso stivale dalla punta rinforzata. «Si risparmi i convenevoli. Dove sono i miei soldi?» «Ecco... Le posso spiegare... So che sono in ritardo con l'affitto, ma è stato un mese davvero difficile per noi, e...» iniziai, con voce tremante. «Questa storia l'ho già sentita la scorsa settimana», ribatté lui, asciutto. Mi spinse da un lato e andò a curiosare in cucina, dove addentò la sottile fetta di pane che avevo tolto dal forno poco prima. La mia cena. Aprì la ghiacciaia e aggrottò la fronte, quando vide che non c'era nemmeno un panetto di burro. «Glielo chiedo un'altra volta: dove sono i miei soldi?» incalzò, con la bocca piena. Strinsi la mano sul bracciale, mentre fissavo il muro scrostato dietro di lui, con lo zoccolo coperto di graffi. E adesso che cosa gli dico? Che cosa posso fare? Lui scoppiò in una risata gutturale.
«Come immaginavo. Ladra e anche bugiarda.»
«Mr Garrison, io...» Mi trapassò con uno sguardo lascivo, avvicinandosi tanto che sentii di nuovo il suo fiato pesante, e la barba che mi solleticava il mento. Mi afferrò il polso con un gesto brutale, mentre il bracciale scivolava sotto la manica. «Lo sapevo, che saremmo arrivati a questo punto.» Con l'altra mano – altrettanto rude e grassa – prese a frugarmi sotto il maglione, scoprendo il corsetto, e sganciò un bottone con l'indice. «Fortunatamente per lei, sono un uomo generoso, e le permetterò di pagarmi in un altro modo.» Feci un passo indietro, e in quel momento sentii dei rumori sulle scale.
«Mamma?»
«Daniel, amore, torna a letto. Arrivo subito», dissi, cercando di non perdere la
calma.
«Mamma...» ripeté lui, la voce incrinata dal pianto.
«Tesoro, è tutto a posto, credimi. Ti prego, torna a letto», lo implorai, sperando che non si accorgesse del terrore che provavo. Non potevo lasciare che assistesse a quella scena o, peggio ancora, che Mr Garrison gli facesse del male.
«Mamma, ho paura», ribatté Daniel, la voce soffocata dall'orsetto di pezza che
teneva stretto davanti alla faccia. Mr Garrison si schiarì la gola, rassettandosi il soprabito. «Be', visto che non è capace di tenerlo a bada, sarò costretto a tornare. E stia tranquilla che lo farò», ringhiò, rivolgendo a Daniel un'occhiata torva, neanche avesse davanti un insetto fastidioso. Si voltò di nuovo verso di me, fissandomi come se fossi un pezzo di carne che soffriggeva in padella. «Tornerò a prendere quello che mi spetta», aggiunse, prima di uscire.
«Sì, Mr Garrison», risposi, annuendo debolmente. Con le mani che tremavano, richiusi la porta dietro di lui, mentre l'eco dei suoi passi si allontanava lungo il corridoio. Feci un respiro profondo, cercando di calmarmi, e mi asciugai la lacrima che mi rigava la guancia prima di girarmi verso Daniel e correre da lui. Quando lo raggiunsi lo abbracciai forte, cullandolo tra le braccia.
«Tesoro... Hai avuto paura, amore mio? Ma non devi averne, c'è la mamma, qui con te. Non ce
n'è motivo.»
«Ma quello è un uomo cattivo. Ti ha fatto male, mammina?» chiese, piagnucolando.
«No, piccolo mio, la mamma non glielo permetterebbe mai», dissi, mentre mi sganciavo il bracciale dal polso, raccogliendolo nel palmo della mano. Daniel alzò lo sguardo verso di me, confuso. Guardai quegli occhi grandi e innocenti, rimpiangendo di non potergli dare una vita diversa. Né a lui, né a me stessa.
«La mamma adora questo bracciale, amore mio. Voglio solo metterlo al sicuro.»
Lui sembrò rifletterci per qualche istante. «Hai paura di perderlo?»
«Esatto.» Mi rialzai, prendendo Daniel per mano. «Ti va di aiutare la mamma? Lo mettiamo nel nostro posto segreto?»
Daniel annuì e ci avvicinammo al sottoscala. Una mattina, giocando, Daniel aveva trovato uno scomparto segreto, non più grande di una cappelliera, e avevamo deciso che ne avremmo fatto il nostro nascondiglio. Lui ci teneva la sua stravagante collezione di tesori: la penna blu di una sialia trovata in strada, una latta di sardine che aveva riempito di sassolini e altre cianfrusaglie, tra le quali un segnalibro, un nichelino nuovo di zecca e una conchiglia schiarita dal sole, che era diventata di un bianco abbagliante. Io invece ci avevo messo il suo certificato di nascita e altri documenti, e ora ci infilai anche il bracciale. 
«Ecco fatto», dissi, mentre chiudevo lo sportellino, meravigliandomi ancora una volta del modo in cui rimaneva mimetizzato tra i pannelli che rivestivano il muro. Non riuscivo a immaginare come Daniel lo avesse scoperto.
«Mamma, mi canti una canzone?» mi chiese lui, appoggiandomi la testa sul petto. Annuii, mentre gli ravviavo i capelli sulla fronte; era incredibile quanto assomigliasse al padre. Se solo Charles fosse qui... mi dissi, ma un attimo dopo allontanai quel pensiero, iniziando a cantare: «Hushaby, don't you cry, go to sleepy, little Daniel. When you wake, you shall take all the pretty little horses». La filastrocca riuscì a calmare entrambi. Al quarto verso, gli occhi di Daniel si fecero pesanti. Lo presi in braccio e lo riportai in camera sua, infilandolo di nuovo
sotto la trapunta. Il suo volto s'incupì quando si accorse che indossavo la divisa nera e la crestina bianca. «Non andare, mammina.»
«È solo per poco, amore mio.» Gli accarezzai il mento e gli posai un bacio sulle guance morbide e fresche. Daniel affondò il viso nell'orsacchiotto di pezza, strofinandosi contro il bottone che gli faceva da naso; un gesto che ripeteva sempre.
«Non voglio...» iniziò a dire, mentre la sua mente di bambino si affannava a cercare le parole più adatte.
«Ho tanta paura, quando vai via.»
A fatica, ricacciai indietro le lacrime. «Lo so, tesoro, ma devo andare, proprio perché ti voglio bene. Un giorno lo capirai.»
«Mamma, Eva dice che la notte vengono i fantasmi», insistette lui, lanciando un'occhiata alla finestra.
Fuori, la bufera ormai infuriava. Sgranai gli occhi. Eva, la figlia di Caroline, aveva un'immaginazione davvero
fervida, per essere una bambina di nemmeno quattro anni.
«Che cosa ti ha detto, questa volta?» Daniel esitava, come se stesse valutando l'opportunità di rispondere. «Ecco... Quando giochiamo, certe volte c'è qualcuno che ci guarda. È un fantasma?»
«Di chi parli, tesoro?»
«Della signora.»
Mi chinai, guardandolo dritto negli occhi. «Quale signora, Daniel?» Lui arricciò il naso. «Quella del parco. Non mi piace il suo cappello, mamma, ha tante piume. Ha ucciso un uccellino? A me piacciono gli uccellini.»
«No, tesoro», gli risposi, ripromettendomi di parlare con Caroline a proposito delle storie che s'inventava sua figlia. Avevo il sospetto che gli incubi di cui Daniel soffriva negli ultimi tempi fossero causati proprio da quelle. «Tesoro, che cosa ti ha detto la mamma, sul fatto di parlare con gli sconosciuti?»
«Ma io non ci ho parlato!»
«Bravo bambino.» Gli passai una mano tra i capelli. Lui annuì, e con un sospiro abbandonò la testa sul cuscino. Gli infilai l'orsacchiotto sotto il gomito.
«Guarda, vedi che non sei solo? C'è Max, qui con te», gli dissi, incapace di nascondere il tremito nella voce.
Daniel si strinse l'orsetto contro il viso e sorrise. «Max.»
Mi alzai. «'Notte, tesoro.»
«'Notte, mamma.»
Stavo per chiudere la porta, cercando di non far rumore, quando la sua voce ovattata gridò: «Aspetta!»
«Che c'è, amore?» gli chiesi, sporgendomi di nuovo nella stanza.
«Bacino a Max.»
Tornai dentro e mi chinai sul letto, mentre Daniel mi premeva l'orsetto sulle labbra. «Ti voglio bene, Max. Ti voglio bene, Daniel. Non immagini nemmeno quanto», sussurrai, mentre uscivo. Scesi le scale in punta di piedi, misi un altro ceppo di legna nel camino e, recitando una preghiera silenziosa, uscii dalla porta, chiudendola a chiave. Era solo un turno, e sarei tornata prima dell'alba. Mi voltai a guardare l'uscio, dietro di
me, e scossi la testa, allontanando i miei cupi pensieri. Non avevo scelta. E lui era al sicuro, lì. Sano e salvo.


Ilaria di
Bookcret, quello che i libri non dicono