venerdì 26 luglio 2013
Recensione: "Venuto al mondo" di Margaret Mazzantini
navigando in internet, mesi fa, ho trovato commenti positivi e entusiasti sul libro di Margaret Mazzantini, "Venuto al mondo", tanto che ho deciso di comprarlo, per pura curiosità di verificare se i commenti affibiati fossero meritati, e dopo una lettura frenetica e compulsiva, devo dire che il libro li merita tutti.
Un romanzo di vita, di guerra e di amore che non può non essere leggere almeno una volta nella vita.
Titolo: Venuto al mondo
Autore: Margaret Mazzantini
Editore: Mondadori
N. pagine: 531
Recensione eseguita da Ilaria
Trama:Una mattina Gemma sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico, fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una guerra che mentre uccide procrea. L'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti noi, perché questo è un romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra. La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi, perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa. L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa vicenda di non eroi scaraventati dalla storia in un destino che sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Un romanzo-mondo, di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematico come una parabola.
Recensione:
Sono riuscita a leggere questo libro in un giorno nonostante le numerose pagine di cui è composto. 531 pagine! Dopo un'intera giornata di lettura trovo solo ora il tempo di consigliarvi la lettura di questo straordinario, incredibile libro.
Sono stata colpita positivamente dalla scrittura dell'autrice unica, semplice e fluida, fatta di metafore bellissime e descrizioni dettagliatissime.
I protagonisti sono ragazzi/uomini comuni che il lettore impara ad amare sin dalle prime pagine. Vive con loro catastrofi e vicissitudine. Viene catapultato al centro di una guerra logorante che non lascia alcuna traccia dietro di sé, se non morte e distruzione. Una storia commovente e tenera quella di Gemma e Diego, sposi senza poter aver figli. Il loro viaggio verso la vita, la fertilità, l'adozione. Pietro, il loro piccolo figlio, nato dal dolore, dalla crudeltà; l'ancora di salvezza a un passato di brutture. Un libro che narra di un'amicizia forte, duratura, di un amore necessario e spesso indulgente il tutto in un ambientazione tetra e cruda. Un romanzo che fa pensare, riflettere. Una lotta continua contro la natura malevola e la malvagità dell'uomo. Due realtà a confronto: quella dell'Italia e quella di Sarajevo. Una la vita l'altra la morte, una la salvezza l'altra la speranza. Una maternità cercata, sofferta e infine ottenuta. Un amore vissuto e infine perduto.
Il lettore viene coinvolto nella narrazione fin dalle prime pagine. Il libro coinvolge, stupisce e infine lascia completamente svuotati. Nonostante le descrizioni crude e spietate il libro non può non piacere, non può non coinvolgere il lettore trasportandolo verso realtà diverse ed esperienze sorprendenti.
Una scrittura fluida e descrizioni ricchissime di dettagli catturano fin da subito la benevolenza del pubblico. I personaggi umili e vicini al lettore suscitano immediatamente la sua simpatia e approvazione, facendolo gioire e soffrire con i protagonisti. Una storia bellissima quella inventata da Margaret, il tutto scritto in modo impeccabile.
Consiglio calorosamente la lettura di questo capolavoro, nonostante le numerose pagine di cui è composto. Visto il mio entusiasmo e l'apprezzamento suscitatomi da questa autrice appena scoperta leggerò altri sui racconti proponendovi più avanti le mie recensioni e i miei giudizi.
Vi informo, se ancora non lo sapeste, che dal romanzo è stato tratto un film del 2012, diretto da Sergio Castellito. Il lungometraggio conta un meraviglioso cast, i cui protagonisti sono gli attori Penélope Cruz e Emile Hirsch.
Non ho ancora avuto la possibilità di vedere il film, ma chi l'ha visto è rimasto piacevolmente sorpreso dalla splendida interpretazione e dalla fedeltà del film al racconto di Margaret.
"Un giorno mi hai detto che mi avresti amata anche vecchia, che mi avresti leccata anche decrepita. Me lo hai detto e io ti ho creduto. E poco importa se il tempo non ci ha lasciato sperimentare. Da qualche parte siamo invecchiati insieme, da qualche parte continuiamo a rotolarci e a ridere".
mercoledì 24 luglio 2013
Libri in uscita: Luglio 2013
"Mai più noi due" di Delinsky Barbara
25 Luglio 2013
Ora che le loro figlie sono partite per il college, Emily, Kay e Celeste sentono che, a quarant'anni, è finalmente tempo di iniziare una nuova vita e di ritrovare la libertà perduta. Grandi amiche fin dai tempi del liceo, hanno passato gli ultimi anni ligie al ruolo di madri attente e premurose e troppe volte hanno messo da parte la loro femminilità. Ma se il matrimonio di Emily un tempo poteva dirsi perfetto, adesso sembra non esserlo più, come cominciano a farle sospettare le continue assenze del marito e la forte attrazione che la lega al suo nuovo vicino di casa. Kay invece è combattuta tra la dedizione al lavoro e le bizzarre richieste del marito, il quale sta cercando in tutti i modi di ritrovare con lei un po' della perduta intimità. Infine Celeste, che se l'è sempre cavata da sola coraggiosamente senza il padre di sua figlia, sente venir meno le difese quando compare nella sua vita un affascinante architetto. Mentre avanzano in territori nuovi e inesplorati, le tre amiche sono costrette a ridefinire sogni, desideri e aspettative, e per la prima volta realizzano che per dare davvero una svolta alla propria vita, dovranno prima di tutto imparare ad amare se stesse.
"I racconti di Nenè" di Camilleri Andrea
4 Luglio 2013
Le storie di Andrea Camilleri sono straordinarie non solo per quello che raccontano, ma anche per lo sguardo insieme ironico e affettuoso che lo scrittore riserva ai suoi personaggi. Ed è per questo che finiamo per amarli: ci sembra di conoscerli, di aver fatto con loro un tratto di strada. Questi nuovi racconti - tra i più intimi e sentiti del romanziere siciliano - ci riservano una sorpresa in più, perché i personaggi si chiamano Leonardo Sciascia e Luigi Pirandello, Eduardo De Filippo e Renato Rascel, Samuel Beckett e George Patton. Ed è così che Camilleri ci porta per mano dentro storie vere, che appartengono alla sua vita e alla sua memoria, e che finalmente vedono la luce. L'avvento del fascismo e lo sbarco degli alleati, il separatismo e la mafia, le amicizie e la famiglia, gli incontri con i grandi maestri e, su tutto, lei: l'amata Sicilia. Un libro che ci fa sedere vicino al creatore di Montalbano. Che prende la parola, si mette a raccontare e ci incanta.
"Il soffio del drago" di Lars Bill Lundholm
5 Luglio 2013
In un porticciolo dell'isola di Söder, a Stoccolma, una donna fa un'agghiacciante scoperta: dalle acque del canale emerge un cadavere che la fissa con occhi vitrei. Ha i capelli rossi, uno strano tatuaggio a forma di drago sul braccio sinistro e una gamba bloccata da una grossa catena. Chi è? E perché l'assassino ha voluto abbandonare il corpo proprio lì, in una delle aree più trendy e frequentate della città? Tocca al commissario Axel Hake risolvere il mistero. Appassionato scommettitore di cavalli, testardo, imprevedibile e non particolarmente amato dai suoi superiori che l'accusano di avere un problema a relazionarsi con l'autorità, Hake ha ben pochi dati su cui lavorare. Dal momento che l'acqua ha reso il volto del morto grottescamente irriconoscibile e non ci sono documenti d'identità, l'unico elemento utile è l'insolito tatuaggio. Come se non bastasse, alle difficoltà delle ricerche si aggiungono quelle della vita privata del commissario, diviso tra le esigenze dell'irrequieta compagna, della figlioletta di sei anni e della sorella Julia, sempre pronta ad accogliere in casa uomini sbagliati. Le indagini portano il commissario e la sua squadra, il corpulento Lidman e Tobisson, maniaco della corsa e della sana alimentazione, a battere palmo a palmo la zona di Södermalm e a entrare in contatto con persone di ogni tipo. Finché Hake non si ritrova faccia a faccia con l'assassino...
"La mia vita e altri difetti" di Sarah Kuttner
17 Luglio 2013
Una sensazione di paura che cresce, un attacco di panico, una crisi depressiva. Questa storia riguarda ciascuno di noi. Karoline: una trentenne decisamente al passo con i tempi. Brillante, simpatica, bel lavoro, fidanzata, tanti amici. Un unico difetto, forse, quello di essere un po’ troppo emotiva. O impegnativa, come dice lei. La presenza del suo ragazzo non è mai abbastanza, un moscerino diventa subito un elefante, e mentre la maggior parte della gente riesce a contare fino a dieci prima di parlare, Karoline arriva a malapena al due. Finché un giorno, facendo acquisti in un negozio, viene colta inspiegabilmente dalla paura: una paura mai provata prima, inesorabile, una sensazione così totalizzante da spazzare via ogni certezza, un tornado che la travolge e la scuote per una buona mezz’ora. È il primo attacco di panico della sua vita. Che cosa le sta succedendo e perché? Cos’è quell’improvviso e paralizzante terrore di morire che a tratti le impedisce di uscire di casa? Difficile parlarne con gli altri: Karoline si accorge che quello che sta attraversando è una specie di tabù, anche se comune a tante persone. E la strada per uscirne è una sola: trovare finalmente la forza di guardarsi dentro. Un romanzo coraggioso, intenso e molto ironico. Una storia sempre più riconoscibile, che sembra dirci qualcosa di importante sulle nostre vite.
"L'amore della mia vita" di Amy Bratley
16 Luglio 2013
Per un uomo che scappa ce n'è sempre un altro in arrivo. Al settimo mese di gravidanza, Mel sta per iniziare un corso di accompagnamento al parto, insieme ad altre future madri. Ma proprio qualche minuto prima di entrare in aula per la lezione, il suo compagno, di punto in bianco, la lascia. Sconvolta, Mel si prepara ad affrontare il parto e la maternità nella più disperata solitudine. E invece, proprio tra il gruppo di partecipanti al corso pre-parto, scoprirà nuove, inaspettate amicizie: Katy, una ricca donna in carriera con un marito da sogno, che pensa di poter controllare tutto, ma non sa ancora che la natura può prendere strade impreviste; l’esuberante Lexi, che sembra cavarsela molto bene da sola, fino a quando l’unico uomo che abbia mai amato riappare improvvisamente nella sua vita; Rebecca, la più giovane del gruppo, forte, indipendente e determinata ad andare avanti nonostante le difficoltà; e infine Erin, che nasconde una tragedia avvenuta in passato… Cinque vite diverse, ma ugualmente complicate: cinque future madri che scopriranno presto come una grande amicizia può cambiare radicalmente il destino.
"La casa tonda" di Louise Erdrich
3 Luglio 2013
La comunità di una riserva indiana nel North Dakota è scossa da un crimine di un'efferatezza inedita per quei luoghi. La moglie del giudice Coutts, Geraldine, che ha subìto l'aggressione, si è chiusa nel silenzio ed è caduta in una profonda depressione. Se è viva, lo deve alla propria presenza di spirito: ha approfittato di un momento di distrazione dell'assalitore ed è fuggita in automobile. Sembra che dopo averle usato violenza, l'uomo abbia tentato addirittura di bruciarla viva cospargendola di benzina. "Sembra", perché la faccenda presenta molti lati oscuri e perché la vittima si rifiuta di parlarne. Assistito dalle due polizie che operano all'interno della riserva, quella indiana e quella americana, Coutts inizia a indagare. Ma Coutts non è un giudice d'assalto, il suo lavoro si è sempre limitato a liti tra vicini, furtarelli, piccole truffe, ubriachezza, un po' di droga. Toccherà al figlio tredicenne Joe intervenire per cercare di far luce sul mistero.
"Ancora una volta il mare" di Natasa Dragnic
3 Luglio 2013
Tutto ha inizio a Monterchi. Davanti alla Madonna del Parto di Piero della Francesca, la diciannovenne Roberta Alessi viene avvicinata da un uomo, un poeta di qualche anno più grande di lei. È un incontro voluto dal destino, l'inizio di un'appassionata storia d'amore. Lui si chiama Alessandro Lang. È dolce, romantico, imprevedibile, anche se spesso scompare per lunghi periodi, prigioniero della sua poesia. La coppia sta insieme per anni finché, un giorno, vedendo Alessandro con Lucia, Roberta si convince che abbiano una relazione. Tra le sorelle si spalanca un abisso. Anni dopo, si ritrovano nella villa di famiglia all'Elba. Più forte delle incomprensioni, della rabbia e della gelosia, è il richiamo di casa, del mare. E l'amore per i genitori, ormai anziani. Ma l'armonia non dura molto, perché anche Nannina ha qualcosa da raccontare. Quale delle tre sorelle sposerà il poeta? E riusciranno le altre a perdonarla? Un affresco famigliare che parla di amore, passione, dolore e perdono.
"La traduttrice" di Rabih Alameddine
10 Luglio 2013
Aaliya Sobhi, 72 anni, di Beirut, vive nel suo grande appartamento, tra ricordi e insonnia, aspettando l'arrivo del nuovo anno. La donna vive sola. Libraia, la sua vera passione è stata per tutta la vita tradurre in arabo i grandi classici della letteratura, senza che queste traduzioni siano state mai pubblicate. Questo lungo periodo è stato segnato da una forte emozione per l'arrivo nel 1967 di Ahmed, un ragazzo pieno di entusiasmo, profugo palestinese, che aveva accettato di lavorare gratuitamente per lei. Ben presto però la passione politica aveva strappato Ahmed al suo amore per la cultura e, in breve tempo, era diventato uno dei grandi torturatori del Libano. Aaliya lo incontra anni dopo per chiedergli un'arma con cui difendersi, durante la guerra, in caso di attacco. In cambio, Ahmed le chiede una notte di sesso. Un romanzo sulla passione, passione per i libri e passione per l'amore.
"Regalami una favola" di Hester Browne
4 Luglio 2013
Amy ha ventiquattro anni e ormai ha capito di essere più brava con le piante che con i ragazzi. Con i fiori è tutto più facile: sa perfettamente che mix di colori scegliere per dare nuova vita a un giardino o quali specie creino un'atmosfera magica anche su un terrazzo di città. Ma far colpo su qualcuno è molto più complicato. Ogni volta che parla con un uomo il viso di Amy assume la sfumatura dei gerani rossi in primavera e la sua bocca farfuglia frasi insensate. Il suo sogno di vivere un amore da favola sembra essere davvero irrealizzabile. Ma durante una festa, in cui come al solito se ne sta in disparte senza parlare con nessuno, Amy incontra due occhi azzurri come petali di un fiordaliso. È amore a prima vista. Leo è il ragazzo che tutte sognano, e, anche se sembra quasi impossibile, ha scelto proprio lei. Con la scusa di farle ristrutturare il suo giardino al centro di Londra, la corteggia con il romanticismo e la passione di un vero gentiluomo. Passano solo pochi mesi e Leo è pronto per farle la proposta che ogni donna aspetta: le chiede di sposarlo regalandole un anello di diamanti che brilla come un intero cielo stellato. Amy non riesce a credere che la sua favola d'amore si stia realizzando. Eppure la strada per la felicità è tutta in salita. Leo non è il semplice ragazzo che Amy crede: è un vero principe, erede al trono. Il suo mondo è fatto di ricevimenti sfarzosi e serate di gala. Per stare accanto a lui Amy deve decidere se è pronta a disegnare una nuova sé stessa rinunciando a quello che è sempre stata. Deve abbandonare i jeans per indossare abiti eleganti e la corona. E più di tutto, deve decidere se è pronta a essere sincera fino in fondo. Perché c'è qualcosa che minaccia il suo sogno. Un segreto che Amy non ha mai confessato a nessuno e che può portare Leo lontano da lei per sempre
lunedì 22 luglio 2013
Recensione: "Uno splendido disastro" di Jamie Mcguire
come state? Come procedono le vacanze? Le mie abbastanza bene nonostante abbia le idee molto confuse per la scelta dell'università.
Nel frattempo mi consolo con il sole, la piscina e una bella lettura da sotto l'ombrellone. Pertanto
quest'oggi vorrei parlarvi di un libro consigliatomi qualche mese fa dalla mia bibliotecaria di fiducia ma, a causa di impegni scolastici ho sempre rinviato la lettura. Oggi finalmemnte mi lascio alle spalle un intera giornata di lettura, ringraziando calorosamente Maria Grazia per avermi consigliato la lettura di "uno splendido disastro" di Jamie Mcguire.
Titolo: Uno splendido disastro
Autore: Jamie Mcguire
Casa Editrice: Garzanti
N. pagine: 335
Traduzione di: Adria Tissoni
Recensione eseguita da Ilaria
Trama:
Camicetta immacolata, coda di cavallo, gonna al ginocchio. Abby Abernathy sembra la classica ragazza perbene, timida e studiosa. Ma in realtà Abby è una ragazza in fuga. In fuga dal suo passato, dalla sua famiglia, da un padre in cui ha smesso di credere. E ora che è arrivata alla Eastern University insieme alla sua migliore amica per il primo anno di università ha tutta l'intenzione di dimenticare la sua vecchia vita e ricominciare da capo. Travis Maddox di notte guida troppo veloce sulla sua moto, ha una ragazza diversa per ogni festa e attacca briga con molta facilità. C'è una definizione per quelli come lui: Travis è il ragazzo sbagliato per eccellenza. Abby lo capisce subito appena i suoi occhi incontrano quelli castani di lui e sente uno strano nodo allo stomaco: Travis rappresenta tutto ciò da cui ha solennemente giurato di stare lontana. Eppure Abby è assolutamente determinata a non farsi affascinare. Ma quando, a causa di una scommessa fatta per gioco, i due si ritrovano a dover convivere sotto lo stesso tetto per trenta giorni, Travis dimostra un'inaspettata mistura di dolcezza e passionalità. Solo lui è in grado di leggere fino in fondo all'anima tormentata di Abby e capire cosa si nasconde dietro i suoi silenzi e le sue improvvise malinconie. Solo lui è in grado di dare una casa al cuore sempre in fuga della ragazza. Ma Abby ha troppa paura di affidargli la chiave per il suo ultimo e più profondo segreto.
Recensione:
Il libro appartiene a un nuovo genere letterario giunto in Italia da poco: il NEW ADULT.
Il NEW ADULT fiction è un genere nel quale i personaggi, hanno una un'età compresa tra i 18 e i 26 anni (al massimo 30), e si apprestano a cambiare vita, lasciando la famiglia e la casa in cui sono cresciuti, per andare al college, al servizio militare o intraprendere una carriera lavorativa in un'altra città. Ciò che caratterizza maggiormente questo genere, sono i contenuti trattati. Parliamo di problematiche con le quali i ragazzi di quell'età entrano in contatto tutti i giorni (direttamente o indirettamente). Identità, sessualità, razzismo, bullismo, abuso di alcool e droghe, violenza sessuale, litigi familiari, ecc.
Il NA ha i suoi sottogeneri che riprendono un pò quelli tipici dello YA e dell'adult. Contemporaneo, urban-fantasy, paranormal, distopico, sci-fi, ecc. ( Fonte: Blog Sognando tra le righe)
Come potete vedere la trama è piuttosto banale ma, ciò che rende speciale questo romanzo sono i due protagonisti. Entrambi hanno appena diciannove anni ma, nonostante questo si comportano da adulti, da qui naturalmente nasce il nome del nuovo genere letterario.
Abby non è mai stata bambina. La madre è un' alcolizzata e il padre è un famoso giocatore d'azzardo, ora squattrinato, che accusò la figlia, appena tredicenne, di avergli rubato il patrimonio; Travis ha perso la madre alla tenera età di tre anni, crescendo in una famiglia di soli maschi dove chi non sa guardarsi alla spalle è perduto. Tutti e due fingono di essere ragazzi normali con normali problemi, mentre in realtà Travis cambia compagna ogni notte per trovare sollievo alla grave solitudine che lo pervade, Abby mantiene le distanze con la maggior parte delle persone, timorosa di fare la stessa fine del padre. Travis appare ad Abby come l'unico il grado di riportarla alle vecchie abitudini e distruggere così tutti i suoi tentativi di essere una persona migliore.
L'autrice utilizza un linguaggio semplice e scorrevole. Predilige i dialoghi alla descrizini, di fatto quest'ultime sono ridotte all'osso. Non tutto ciò che viene narrato nel romanzo appare coerente ma, il libro prende molto il lettore. Il finale sembra un pò azzardato e sbrigativo. Le vicissitudini che avvengono ai due protagonisti aiutano il lettore a conoscerli meglio e ad avvicinarli l'uno all'altro. Il romanzo è semplice, non mediocre ma, neanche un capolavoro. Una lettura leggera e accattivante da sotto l'ombrellone. Adatta per questo clima umido e caldo.
Per tutte le ragazze che hanno amato il racconto vi è una splendida notizia:
in autunno dovrebbe uscire il seguito di "uno splendido disastro" intitolato in lingua originale "Walking Disaster". Lo stesso volume narrato dal punto di vista di Travis Maddox.
Estratto I Capitolo
«Tieni i soldi nel portafoglio Abby!» mi gridò America. Il suo sorriso brillava persino nella luce fioca.
«Stammi vicino! Quando inizierà, sarà peggio!» urlò Shepley per sovrastare il baccano. Guidandoci in quella marea di gente, America afferrò prima la sua mano e poi la mia.
Il gemito acuto di un megafono squarciò l’aria fumosa. Quel suono mi spaventò e sussultai, cercandone la fonte. Un ragazzo in piedi su una sedia di legno teneva un rotolo di banconote in una mano e il megafono nell’altra. Lo avvicinò di nuovo alle labbra.
«Benvenuti al bagno di sangue! Se state cercando Economia 101... siete nel posto sbagliato! Ma se cercate il Cerchio, questa è la Mecca! Io sono Adam, stabilisco le regole e do inizio all’incontro. Le scommesse si chiudono quando gli avversari scendono in campo. È proibito toccare i lottatori, prestare soccorso, cambiare la posta in gioco e invadere il ring. Se infrangete queste regole, vi faremo sputare l’anima, vi cacceremo a calci in culo e ci terremo i vostri soldi. Vale anche per voi, signore! Perciò, ragazzi, non usate le vostre troiette per imbrogliare!»
Shepley scosse la testa. «Gesù, Adam!» gridò, disapprovando la scelta di parole dell’amico.Il cuore mi batteva forte nel petto. Con il mio cardigan rosa di cachemire e gli orecchini di perle mi sentivo come un’educanda su una spiaggia di nudisti. Avevo promesso ad America che avrei affrontato qualsiasi cosa mi fossi trovata davanti, ma in quel momento provai l’impulso di aggrapparmi al suo braccio sottile come uno stecchino. Non mi avrebbe mai messa in pericolo, ma mi trovavo in un seminterrato con una cinquantina di studenti ubriachi, assetati di sangue e di soldi, e non ero del tutto certa che ne saremmo usciti illesi.
Da quando America aveva conosciuto Shepley all’orientamento matricole, lo accompagnava spesso agli incontri clandestini negli scantinati della Eastern University. Si tenevano sempre in luoghi diversi, che restavano segreti fino a un’ora prima dell’inizio. Di solito frequentavo ambienti più tranquilli, e l’esistenza del mondo sotterraneo della Eastern mi sorprese. Shepley invece lo conosceva ancora prima di iscriversi: Travis, suo compagno di stanza e cugino, combatteva da sette mesi. Correva voce che da matricola fosse stato il pugile più temibile che Adam avesse visto nei tre anni di vita del Cerchio. All’inizio del secondo anno Travis era ormai imbattibile, e con le vincite lui e Shepley pagavano agevolmente affitto e bollette.
Adam portò ancora il megafono alla bocca, mentre le urla crescevano a dismisura: «Stasera abbiamo un nuovo sfidante! L’astro della lotta Marek Young!».
Seguì un’ovazione e all’ingresso del ragazzo la folla si divise come il mar Rosso, creando un cerchio tra fischi e provocazioni. Marek saltellava, flettendo il collo con aria seria, concentrata. Il vociare del pubblico si placò fino a diventare un sordo boato, poi dalle grandi casse collocate all’altro capo del locale si riversò una musica assordante e io mi tappai le orecchie.
«Il prossimo contendente non ha bisogno di presentazioni ma, siccome mi fa una paura fottuta, lo presenterò lo stesso! Ragazzi, tremate, ragazze, attente alle mutandine! Ecco che arriva Travis “Mad Dog” Maddox!»
Il frastuono salì alle stelle non appena Travis comparve sulla soglia. Fece il suo ingresso a torso nudo, rilassato e impassibile. Avanzò con disinvoltura fino al centro del Cerchio, toccò con i pugni le nocche di Marek e i suoi muscoli sodi guizzarono sotto la pelle tatuata. Si protese in avanti e sussurrò qualcosa all’orecchio dell’avversario, che faticò a mantenere l’espressione severa. I due combattenti, vicinissimi, si guardarono negli occhi: lo sguardo di Marek era truce, mentre Travis sembrava vagamente divertito.
Arretrarono di qualche passo e Adam diede il segnale al megafono. Marek si mise in guardia e Travis attaccò. Quando la folla mi bloccò la visuale, mi alzai in punta di piedi e mi spostai di lato per riuscire a vedere qualcosa. Pian piano, mi feci strada nella calca urlante. Tra spallate e gomitate nei fianchi, fui scagliata di qua e di là come la pallina di un flipper, ma scorsi le teste dei due avversari e continuai.
Raggiunta la prima fila vidi le braccia robuste di Marek afferrare Travis, cercando di gettarlo a terra. Nel momento in cui si chinò, Travis gli diede una ginocchiata in faccia e attaccò prima che potesse riprendersi, bersagliandogli di pugni il volto insanguinato.
In quell’istante, venni strattonata all’indietro.
«Che diavolo combini Abby?» disse Shepley, con le dita strette saldamente attorno al mio braccio.
«Là dietro non vedevo nulla!» gridai.
Mi girai mentre Marek tirava un pugno poderoso. Travis si voltò e per un attimo pensai che lo avesse solo schivato, invece fece una rotazione completa su sé stesso e colpì con il gomito il centro esatto del naso dell’avversario. Il sangue mi schizzò addosso e m’imbrattò il viso e il cardigan. Marek crollò a terra con un tonfo e per un breve istante nella stanza calò un silenzio totale.
Adam gettò un panno scarlatto sul corpo inerte e la folla esplose in un boato. Il denaro passò di nuovo di mano in mano, e sui volti dei presenti comparvero espressioni diverse, alcune compiaciute, altre deluse.
Nel trambusto generale venni spintonata. Alle mie spalle America mi chiamò, ma ero ipnotizzata dalla striscia rossa sui miei vestiti, che andava dal petto alla vita.
All’improvviso la mia attenzione fu attirata da un paio di pesanti stivali neri. Alzai lo sguardo: jeans sporchi di sangue, addominali perfettamente scolpiti, un petto nudo tatuato madido di sudore e intensi occhi castani. La folla mi spinse in avanti e Travis mi afferrò appena prima che cadessi.
«Ehi! State lontani da lei!» gridò accigliato, allontanando a spallate chiunque mi si avvicinasse. Alla vista del mio cardigan la sua espressione corrucciata si distese in un sorriso. «Mi dispiace per il sangue, Pigeon», esclamò, pulendomi il viso con un asciugamano.
Adam gli diede uno schiaffetto sulla nuca. «Forza, Mad Dog! La grana ti aspetta!»
Travis non distolse lo sguardo da me. «È un vero peccato per la maglia, ti dona.» Un attimo dopo fu inghiottito dai fan e scomparve.
«Cosa credevi di fare, idiota?» urlò America tirandomi per un braccio.
Sorrisi. «Sono venuta a vedere un incontro, no?»
«Non dovresti neanche essere qui Abby», mi rimproverò Shepley.
«Neanche America.»
«Lei non ha cercato di entrare nel Cerchio!» ribatté cupo. «Andiamo.»
America mi sorrise e mi tolse le ultime tracce di sangue dalla faccia. «Sei una vera rompiscatole Abby. Dio, quanto ti voglio bene!» Mi cinse le spalle e insieme risalimmo le scale, uscendo nella notte.
America mi seguì allo studentato e sogghignò alla vista della mia compagna di stanza, Kara. Mi tolsi subito il cardigan insanguinato e lo gettai nella cesta dei panni sporchi.
«Che schifo. Dove sei stata?» chiese Kara dal letto.
Guardai America, che si strinse nelle spalle. «Sangue dal naso, a Abby capita spesso. Non lo sapevi?»
Lei inforcò gli occhiali e scosse la testa.«Be’, adesso lo sai.» Mi fece l’occhiolino e chiuse la porta dietro di sé. Meno di un minuto dopo, il mio cellulare vibrò. Come al solito, America mi aveva mandato un messaggio pochi secondi dopo avermi salutato.
Sto da shep a dom regina del ring
Gettai un’occhiata a Kara, che mi fissava come se da un momento all’altro mi dovesse sgorgare un torrente di sangue dal naso.
«Stava scherzando», esclamai.
Annuì con indifferenza e abbassò lo sguardo sul marasma di libri sparsi sul copriletto.
«Penso mi farò una doccia», dissi afferrando un asciugamano e la trousse da bagno.
«Avvertirò la stampa», rispose impassibile, tenendo la testa bassa.
L’indomani Shepley e America mi raggiunsero per pranzo. Avrei voluto mangiare da sola ma, man mano che gli studenti affluivano in mensa, le sedie attorno a me vennero occupate dai membri della confraternita di Shepley o dai giocatori di football. Alcuni erano stati all’incontro, ma nessuno accennò alla mia esperienza a distanza ravvicinata dal ring.
«Shep», chiamò qualcuno.
Lui rispose con un cenno. Voltandoci, America e io vedemmo Travis che si sedeva in fondo al tavolo. Era accompagnato da due voluttuose bionde tinte con la maglietta della Sigma Kappa. Una gli si sedette in grembo, l’altra al suo fianco e cominciò a palpargli la T-shirt.
«Sto per vomitare», bofonchiò America.
La bionda in braccio a Travis si girò. «Ti ho sentita, stronza.» America afferrò il suo panino e lo lanciò, mancando per un soffio il volto della ragazza. Prima che questa potesse ribattere, Travis abbassò le ginocchia, facendola cadere a terra.
«Ahia!» strillò lei.«America è mia amica. Trovati altre due ginocchia su cui sederti, Lex.»
«Travis!» frignò mentre si rimetteva in piedi.
Lui non rispose e si concentrò sul suo piatto. Lex allora guardò l’amica sbuffando, e un attimo dopo tutte e due si allontanarono tenendosi per mano.
Travis ammiccò ad America. Poi, come se niente fosse accaduto, addentò un altro boccone, si scambiò un’occhiata con Shepley e iniziò a parlare con un giocatore di football che gli sedeva di fronte. Fu allora che notai un piccolo taglio sul suo sopracciglio.
Anche se molti avevano già lasciato il tavolo, America, Shepley e io ci attardammo a discutere dei progetti per il fine settimana. Travis fece per andarsene, ma poi si fermò con noi. Lo ignorai il più a lungo possibile ma, quando alzai lo sguardo, notai che mi stava fissando.
«Come dici?» chiese a voce alta Shepley portando la mano all’orecchio.
«La conosci, Trav. È la migliore amica di America. L’altra sera era con noi», aggiunse.
Travis mi rivolse quello che immaginai fosse il sorriso più affascinante del suo repertorio. Con i capelli castani cortissimi e gli avambracci tatuati, emanava sesso e ribellione. Vedendo che tentava di sedurmi, alzai gli occhi al cielo.
«Da quando hai una migliore amica, Mare?» chiese.
«Dal terzo anno delle superiori», rispose lei sorridendomi. «Non ricordi, Travis? Le hai rovinato la maglia.»
Lui ghignò. «Ho rovinato parecchie maglie.»
«Disgustoso», borbottai.
Travis girò la sedia vuota al mio fianco e si sedette appoggiandovi sopra le braccia. «Pigeon, giusto?»
«No», ribattei secca. «Ho un nome.»
Il modo in cui lo guardavo sembrò divertirlo, il che servì solo a farmi infuriare di più.
«Be’? Qual è?» domandò.
Addentai l’ultimo pezzo di mela nel piatto, in silenzio.«Ti chiamerò Pigeon, allora», osservò con una scrollata di spalle.
Guardai America, poi mi girai verso Travis. «Sto cercando di pranzare.»
Lui raccolse prontamente la sfida. «Sono Travis. Travis Maddox.»
«So chi sei», risposi con un tono di sufficienza.
Inarcò il sopracciglio ferito. «Lo sai, eh?»
«Non montarti la testa. È difficile non notarti quando cinquanta ubriachi urlano il tuo nome.»
Si raddrizzò leggermente. «Lo fanno spesso.» Alzai di nuovo gli occhi al cielo e lui ridacchiò. «Hai un tic?»
«Un che?»
«Un tic. Continui a muovere gli occhi.» Lo guardai furiosa e lui esplose in un’altra risata. «Però sono occhi incredibili. Di che colore sono, grigi?» domandò avvicinandosi al mio viso.
Fissai il piatto, lasciando che i miei lunghi capelli color caramello creassero una barriera tra noi. Il modo in cui mi faceva sentire quand’era così vicino mi infastidiva. Non volevo essere come tutte le altre ragazze della Eastern, che arrossivano in sua presenza. Non volevo assolutamente lasciarmi condizionare.
«Non pensarci neanche, Travis. È come se fosse mia sorella», lo ammonì America.
«Tesoro», osservò Shepley, «gli ha appena detto di no. Adesso chi lo ferma più?»
«Non sei il suo tipo», ribatté lei, cercando di prendere tempo.
Travis si finse offeso. «Io sono il tipo di tutte!»
Lo guardai di sottecchi e sorrisi.
«Ah! Un sorriso. In fondo, non sono uno sporco bastardo», esclamò ammiccando. «È stato bello conoscerti, Pidge.» Girò attorno al tavolo e sussurrò qualcosa all’orecchio di America.
Shepley gli tirò una patatina fritta. «Stai alla larga dall’orecchio della mia ragazza, Trav!»
«Sono una persona socievole, lo sai!» Travis indietreggiò, sollevando le mani con aria innocente.
Alcune ragazze lo seguirono ridacchiando cercando di attirare la sua attenzione. Lui aprì loro la porta e quelle per poco non urlarono di gioia.
America scoppiò a ridere. «Sei nei guai, Abby.»
«Cosa ti ha detto?» domandai sospettosa.
«Vuole che la porti da noi, vero?» disse Shepley. America annuì e lui scosse la testa. «Sei una ragazza sveglia, Abby. Ti avverto: se ci caschi e finisci per perdere la testa, non prendertela con me e America, d’accordo?»
Sorrisi. «Non ci cascherò, Shep. Ti sembro forse una di quelle oche bionde?»
«Non succederà», lo rincuorò America toccandogli il braccio.
«Non è la prima volta, Mare. Sai quante volte mi ha incasinato la vita? Seduce e abbandona la “migliore amica” di turno, e d’un tratto frequentarmi diventa un conflitto di interesse, perché significa fraternizzare con il nemico! Abby, ti avverto», aggiunse rivolto a me. «Non ti azzardare a proibire a Mare di uscire con me solo perché ti sei lasciata abbindolare da Trav. Considerati avvisata.»
«Apprezzo il consiglio, ma è superfluo», risposi. Cercai di rassicurarlo con un sorriso, anche se sapevo che quel pessimismo nasceva da anni di scottature subite a causa di Travis.
America mi salutò allontanandosi con Shepley e io afferrai lo zaino, avviandomi in aula per la lezione pomeridiana. Socchiusi gli occhi alla luce intensa del sole. La Eastern era proprio come avevo sperato, con le sue classi piccole e tutti quei volti sconosciuti. Per me era un nuovo inizio. Potevo finalmente camminare senza essere circondata dai mormorii di chi conosceva, o pensava di conoscere, il mio passato. Mi confondevo in mezzo alle altre matricole studiose e un po’ ingenue. Niente occhiate di sottecchi, niente pettegolezzi, niente pietà né giudizi. Solo l’illusione che desideravo vedessero: una Abby Abernathy normale e vestita di cachemire.Posai lo zaino a terra e mi lasciai cadere sulla sedia, quindi mi chinai per prendere il laptop. Quando mi risollevai, vidi Travis che si era infilato nel banco accanto.
«Bene. Puoi prendere appunti per me», esordì. Masticò la penna che aveva in bocca e sfoderò di nuovo il suo sorriso più seducente.
Lo guardai indignata. «Tu non segui questo corso.»
«Certo che lo seguo. Di solito mi siedo lassù», rispose indicando con un cenno la fila più in alto. Un gruppetto di ragazze mi stava fissando e notai una sedia vuota in mezzo a loro.
Avviai il computer. «Non prenderò appunti per te.»
Lui si chinò avvicinandosi tanto da farmi sentire il suo respiro sulla guancia. «Scusami, ti ho offeso in qualche modo?»
Sospirai e scossi la testa.
«Allora qual è il problema?»
Tenni la voce bassa. «Non ho intenzione di venire a letto con te. Lascia perdere.»
Un sorriso si allargò sul suo volto. «Non ti ho chiesto di venire a letto con me.» Spostò pensieroso lo sguardo sul soffitto. «Giusto?»
«Non sono una delle tue ammiratrici», dissi osservando le ragazze alle nostre spalle. «I tatuaggi, il fascino infantile e la finta indifferenza non fanno colpo su di me, perciò puoi smetterla con le buffonate, okay?»
«Okay, Pigeon.» Di fronte alla mia scortesia restò fastidiosamente impassibile. «Perché stasera non vieni da noi con America?» Sogghignai alla richiesta, ma lui si avvicinò di più. «Non sto cercando di scoparti, voglio solo frequentarti.»
«Scoparmi? Ma come fai a portartele a letto se parli così?»
Lui scoppiò a ridere e scosse la testa. «Vieni e basta. Non flirterò nemmeno, lo giuro.»
«Ci penserò.»
In quel momento entrò il professor Chaney e Travis si concentrò sulla cattedra. Tuttavia, sul volto gli era rimasto un vago sorriso, che accentuava la fossetta che aveva sulla guancia sinistra. Più sorrideva, più avrei voluto detestarlo, eppure quel sorriso mi rendeva impossibile farlo.
«Chi mi sa dire quale presidente aveva una moglie strabica e bruttissima?» domandò Chaney.
«Mi raccomando, annotalo», sussurrò Travis. «Mi servirà per i colloqui di lavoro.»
«Sst», dissi, scrivendo ogni parola del professore.
Lui sorrise e si rilassò. Durante la lezione, tra uno sbadiglio e l’altro si appoggiò più volte alla mia spalla per guardare il monitor. Mi sforzavo di ignorarlo, ma la sua vicinanza e i muscoli possenti del suo braccio mi creavano non poche difficoltà. Continuò a giocherellare con il bracciale di pelle nera che aveva al polso finché Chaney non terminò la lezione.
A quel punto mi affrettai a raggiungere la porta e a percorrere il corridoio. Proprio quando credevo di essere a distanza di sicurezza, Travis mi si affiancò.
«Ci hai pensato?» chiese mettendosi gli occhiali da sole.
In quell’istante ci si parò davanti una brunetta minuta con gli occhi sgranati e l’aria speranzosa. «Ehi, Travis», esclamò con voce cantilenante, toccandosi i capelli.
Mi fermai, disgustata dal suo tono mellifluo, e poco dopo la superai. L’avevo già vista nell’area comune della Morgan Hall, lo studentato in cui vivevo. In quelle occasioni parlava normalmente e mi chiesi perché pensasse che Travis avrebbe trovato seducente quella voce infantile. Chiacchierò con un tono più alto di un’ottava ancora per un po’, dopodiché lui mi raggiunse.
Estrasse un accendino dalla tasca, si accese una sigaretta e soffiò uno sbuffo di fumo. «Dov’ero rimasto? Oh, sì... stavi pensando.»
Feci una smorfia. «Di che parli?»
«Hai deciso se verrai?»
«Se dico di sì, smetterai di seguirmi?»
Travis valutò la proposta e annuì. «Sì.»
«Allora verrò.»«Quando?»
Sospirai. «Stasera. Verrò stasera.»
Lui sorrise e si bloccò di colpo. «Grande. Allora ci vediamo, Pidge.»
Girai l’angolo e vidi America e Finch davanti allo studentato. Ci eravamo ritrovati allo stesso tavolo all’orientamento matricole e avevo capito subito che Finch sarebbe diventato parte del nostro ingranaggio ben collaudato. Non era molto alto ma, visto il mio metro e sessantatré, mi sovrastava. I suoi occhi spiccavano sul volto lungo e magro, e di solito un ciuffo dei capelli decolorati gli ricadeva sulla fronte.
«Travis Maddox? Gesù, Abby, da quando peschi in acque pericolose?» disse Finch con uno sguardo di disapprovazione.
America prese la gomma che stava masticando tra due dita e la tirò fino a formare una lunga striscia. «Respingerlo significa solo peggiorare le cose. Non è abituato ai rifiuti.»
«E cosa dovrei fare? Andare a letto con lui?»
America scrollò le spalle. «Risparmieresti tempo.»
«Gli ho detto che stasera sarei andata da lui.»
Finch e America si scambiarono un’occhiata.
«Che c’è? Ha promesso che avrebbe smesso di tormentarmi se avessi accettato. Tu vai da loro stasera, vero?»
«Be’, sì», rispose America. «Ci verrai davvero?»
Sorrisi ed entrai nell’edificio, chiedendomi se Travis avrebbe mantenuto la promessa di non flirtare con me. Non era un tipo difficile da capire: mi vedeva come una sfida o come una ragazza sufficientemente priva di fascino da poter essere una buona amica. Non sapevo quale delle due alternative mi turbasse di più.
Qualche ora più tardi, America bussò alla mia porta per accompagnarmi da Shepley e Travis.
«Gesù! Sembri una senzatetto!» sbottò quando mi vide.
«Bene», dissi, soddisfatta dall’effetto d’insieme. Avevo raccolto i capelli in uno chignon disordinato, mi ero struccata e alle lenti a contatto avevo preferito gli occhiali con la montatura nera rettangolare. Avanzai ciabattando nelle mie infradito, fiera di sfoggiare una T-shirt logora e un paio di pantaloni della tuta. Avevo pensato che apparire scialba sarebbe stato in ogni caso il piano migliore. Speravo di spegnere l’entusiasmo di Travis, e di porre termine finalmente a quell’assurda insistenza. E l’aspetto dimesso lo avrebbe scoraggiato anche nel caso in cui avesse voluto una semplice amica.
America abbassò il finestrino e sputò la gomma da masticare. «Sei davvero banale. Potevi completare il tuo look rotolandoti nel letame.»
«Non voglio far colpo su nessuno», risposi.
«Questo mi sembra ovvio.»
Lasciammo l’auto nel parcheggio del palazzo di Shepley e seguii America lungo le scale. Lui venne ad aprire e scoppiò a ridere quando feci il mio ingresso.
«Cosa ti è successo?»
«Non vuole far colpo su nessuno», spiegò America.
Andarono nella stanza di Shep. La porta si chiuse alle loro spalle e io restai sola con la sensazione di essere fuori posto. Mi sedetti nella poltrona reclinabile e mi sfilai le infradito.
L’estetica dell’appartamento era più gradevole della tipica casa da scapoli. Come prevedibile, le pareti erano tappezzate di manifesti di donne seminude e cartelli stradali rubati, ma la casa era pulita, i mobili erano nuovi e soprattutto non si sentiva puzzo di birra vecchia e di abiti sporchi.
«Era ora!» esclamò Travis buttandosi sul divano.
Sorrisi e mi sistemai gli occhiali sul naso, aspettando che manifestasse disgusto per il mio aspetto. «America doveva finire un saggio.»
«A proposito, hai già iniziato quello di storia?»
Non aveva battuto ciglio di fronte ai miei capelli in disordine, e la cosa mi indispettì. «E tu?»
«L’ho finito questo pomeriggio.»«Ma è per mercoledì», replicai sorpresa.
«L’ho buttato giù. Quanto potrà essere difficile scrivere un saggio di due pagine su Grant?»
«Io sono una che temporeggia», risposi alzando le spalle. «Probabilmente non lo inizierò prima del fine settimana.»
«Be’, se ti serve aiuto fammelo sapere.»
Pensavo scoppiasse a ridere o lasciasse comunque intendere che stava scherzando, invece aveva un’aria sincera.
«Mi aiuteresti davvero?» chiesi perplessa.
«Ho il massimo dei voti in storia», replicò, offeso dalla mia incredulità.
«Ha il massimo dei voti in tutte le materie. È un maledetto genio, lo odio», osservò Shepley conducendo per mano America in soggiorno.
Osservai dubbiosa Travis e lui si corrucciò.
«Cosa c’è? Pensi che un ragazzo coperto di tatuaggi che fa a pugni per vivere non possa avere buoni voti? Non sono al college solo perché non ho di meglio da fare.»
«Perché combatti, allora? Perché non hai provato con le borse di studio?» chiesi.
«L’ho fatto. Me ne hanno concessa una che copre metà delle tasse. Ma ci sono i libri, le bollette... in qualche modo li devo pagare. Dico sul serio, Pidge, se hai bisogno di aiuto, non hai che da chiedere.»
«Non mi serve il tuo aiuto. Sono in grado di scrivere un saggio.» Volevo chiudere la conversazione. Avrei dovuto chiuderla, ma quel nuovo lato del suo carattere aveva destato la mia curiosità. «Non puoi trovare qualcos’altro per mantenerti? Qualcosa di meno... sadico?»
Travis scrollò le spalle. «È un modo facile di far soldi. Non potrei guadagnare altrettanto lavorando in un negozio.»
«Essere presi a pugni in faccia non è “facile”.»
«Be’, ti preoccupi per me?» osservò ammiccando. Feci una smorfia e lui ridacchiò. «Non mi colpiscono tanto spesso. Se attaccano, li schivo. Non è così difficile.»Scoppiai a ridere. «Come se non ci avesse mai pensato nessuno.»
«Quando tiro un pugno, gli avversari incassano e cercano di restituirlo. Ma non ce la fanno quasi mai.»
Alzai gli occhi al cielo. «Chi sei, Karate Kid? Dove hai imparato a combattere?»
Shepley e America si scambiarono un’occhiata, dopodiché fissarono il pavimento. Non impiegai molto a capire di aver detto qualcosa di sbagliato.
Travis tuttavia non pareva scosso. «Avevo un padre alcolista dal pessimo carattere e quattro fratelli più grandi con il gene della coglionaggine.»
«Oh...» Mi sentii le orecchie in fiamme.
«Non essere in imbarazzo, Pidge. Papà ha smesso di bere e i miei fratelli sono cresciuti.»
«Non sono in imbarazzo.» Giocherellai nervosamente con una ciocca di capelli, poi decisi di sciogliere e rifare lo chignon nel tentativo di ignorare l’increscioso silenzio.
«Mi piace questo look naturale. Le ragazze non vengono da me così.»
«Io sono stata costretta a venire qui. Non ho mai voluto far colpo su di te», obiettai, seccata per il fallimento del mio piano.
Lui sfoderò un ghigno divertito, infantile, e io m’infuriai ancora di più, sperando però che la rabbia mascherasse il disagio. Non sapevo come si sentissero le ragazze accanto a lui, ma avevo visto come si comportavano. Dal canto mio, più che infatuata, mi sentivo nauseata e confusa, e i tentativi di Travis di farmi sorridere non facevano che turbarmi.
«Ma hai già fatto colpo. Di solito non devo supplicare una ragazza perché venga da me.»
«Non ne dubito», replicai con aria indignata.
Era un presuntuoso, e della peggior specie. Non era solo spudoratamente consapevole del proprio fascino, ma anche talmente abituato a vedere le donne cadere ai suoi piedi da ritenere la mia freddezza una piacevole novità anziché un insulto. Dovevo cambiare strategia.
America puntò il telecomando verso il televisore e lo accese. «Stasera danno un bel film. Qualcuno vuole scoprire che fine ha fatto Baby Jane?»
Travis si alzò. «Stavo per uscire a cena. Hai fame, Pidge?»
«Ho già mangiato», risposi con indifferenza.
«Non è vero», disse America prima di rendersi conto dell’errore. «Oh... ehm... certo, mi ero scordata che ti sei presa una... pizza... prima.»
Feci una smorfia di fronte a quel misero tentativo di rimediare alla gaffe e attesi la reazione di Travis.
Lui attraversò la stanza e aprì la porta. «Forza. Sarai affamata.»
«Dove vai?»
«Dove vuoi. Possiamo mangiarci una pizza.»
Diedi una rapida occhiata ai miei vestiti. «Non sono presentabile.»
Travis mi studiò per un istante e fece un gran sorriso. «Stai benissimo. Andiamo, muoio di fame.»
Mi alzai e salutai America, superando Travis per scendere le scale. Mi fermai nel parcheggio e lo guardai inorridita mentre si sedeva in sella a una moto nera opaca.
«Uh...» mormorai, piegando le dita nude dei piedi.
Travis mi lanciò uno sguardo impaziente. «Oh, sali. Andrò piano.»
«Che modello è?» chiesi, leggendo troppo tardi la scritta sul serbatoio.
«È una Harley Night Rod. È l’amore della mia vita, perciò non graffiare la vernice quando sali.»
«Ho le infradito!»
Lui mi fissò come se avessi parlato in una lingua straniera. «E io gli stivali. Monta, dai.»
S’infilò gli occhiali da sole e il motore ruggì quando lo accese. Salii in sella e cercai qualcosa a cui aggrapparmi, ma le mie dita scivolarono dalla pelle al fanale di plastica.
Travis mi prese le mani e se le mise attorno alla vita.
«Non hai niente per tenerti, solo me, Pidge. Non mollare la presa», disse spingendo la moto all’indietro con i piedi. Uscì in strada e con uno scatto del polso partì come un razzo. Le ciocche sciolte mi sferzavano il viso e mi chinai dietro di lui, sapendo che se avessi guardato al di sopra della sua spalla le lenti dei miei occhiali si sarebbe riempite di insetti.
Qualche minuto più tardi imboccò a tutta velocità il vialetto d’accesso del ristorante e, non appena si fermò, mi misi in salvo sul marciapiede.
«Sei uno squilibrato!»
Travis ridacchiò e mise la moto sul cavalletto prima di smontare. «Ho rispettato i limiti di velocità.»
«Sì, quelli di un’autostrada tedesca, che notoriamente non ne ha», replicai sciogliendo lo chignon e districando i nodi con le dita.
«Non lascerei mai che ti accadesse qualcosa, Pigeon», dichiarò aprendo la porta del locale. Un po’ frastornata, lo seguii a precipizio nel ristorante, che odorava di grasso ed erbe aromatiche. Camminai sulla moquette rossa disseminata di briciole finché Travis scelse un tavolo d’angolo, lontano dai gruppi di ragazzi e dalle famiglie e ordinò due birre. Scrutai la sala, osservando i genitori che cercavano di far mangiare i figli turbolenti, e cercando di evitare le occhiate inquisitorie degli studenti della Eastern.
«Certo, Travis», disse la cameriera annotando il nostro ordine. Quando tornò in cucina, sembrava vagamente euforica per la sua presenza.
Mi portai i capelli scompigliati dietro alle orecchie, d’un tratto imbarazzata per il mio aspetto. «Vieni spesso qui?» chiesi acida.
Lui appoggiò i gomiti sul tavolo e mi fissò con gli occhi castani. «Allora, qual è la tua storia, Pidge? Odi gli uomini in generale o solo me?»
«Solo te, credo», bofonchiai.
Scoppiò a ridere, divertito. «Non riesco a capirti. Sei la prima ragazza che mi respinge. Non ti agiti quando mi parli e non cerchi di attirare la mia attenzione.»
«Non è una tattica. Non mi piaci, ecco tutto.»«Non saresti qui se non ti piacessi.»
Abbandonai l’espressione accigliata e sospirai. «Non dico che tu sia una persona malvagia. Solo, non mi va di essere considerata una facile preda per il semplice fatto di avere una vagina.» Fissai i granelli di sale sul tavolo finché non udii un verso strozzato provenire dalla sua direzione.
Travis spalancò gli occhi e scoppiò in una fragorosa risata. «Oddio! Mi fai morire! Dobbiamo essere amici. Non accetterò un no come risposta.»
«Okay, ma questo non ti autorizza a cercare di infilarti nelle mie mutande ogni cinque secondi.»
«Non hai intenzione di venire a letto con me. Afferrato.»
Mi sfuggì un sorriso, e il suo sguardo si illuminò. «Hai la mia parola. Non mi azzarderò nemmeno a pensare alle tue mutande... a meno che non sia tu a chiedermelo.»
Appoggiai i gomiti sul tavolo. «E questo non accadrà, perciò possiamo essere amici.»
Un sorriso malizioso accentuò i suoi lineamenti mentre si protendeva verso di me. «Mai dire mai.»
«Allora, qual è la tua storia?» chiesi. «Sei sempre stato Travis “Mad Dog” Maddox o ti chiamano così da quando sei alla Eastern?» Per la prima volta, la sua sicurezza vacillò: sembrava un po’ imbarazzato.
«No. È stato Adam a inventare quel soprannome, dopo il primo incontro.»
Le sue risposte spicce cominciavano a irritarmi. «Tutto qui? Non hai intenzione di dirmi niente di te?»
«Cosa vuoi sapere?»
«Le solite cose. Da dove vieni, cosa vuoi fare da grande... cose così.»
«Sono nato e cresciuto qui e mi sto specializzando in diritto penale.»
Srotolò con un sospiro le posate avvolte nel tovagliolo, le dispose accanto al piatto e guardò al di sopra della sua spalla con la mascella contratta. Dai due tavoli della squadra di calcio della Eastern si levò una risata che parve infastidirlo.«Stai scherzando», osservai incredula.
«No, sono di queste parti», affermò distrattamente.
«Parlo della specializzazione. Non sembri un tipo da diritto penale.»
Travis corrugò la fronte, tornando a concentrarsi sulla nostra conversazione. «Perché?»
Scrutai i tatuaggi che gli coprivano il braccio. «Dico solo che sembra ti si addica più il crimine che la giustizia.»
«Non mi caccio nei guai... Papà era piuttosto severo.»
«E tua mamma?»
«È morta quand’ero piccolo», rispose in tono freddo.
«Mi... mi dispiace», dissi scuotendo la testa. La sua risposta mi aveva colto alla sprovvista.
Travis reagì con noncuranza. «Non me la ricordo. I miei fratelli sì, ma io avevo solo tre anni quando morì.»
«Quattro fratelli, eh? Come facevi a distinguerli?» chiesi ironica.
«A seconda di chi picchiava più forte, che guarda caso era sempre il fratello più grande. In ordine erano Thomas, i gemelli Taylor e Tyler e poi Trenton. Non dovevi mai restare da solo in una stanza con Taylor e Ty. Ho imparato da loro metà di quello che faccio nel Cerchio. Trenton è il più piccolo ma è veloce, nonché l’unico che adesso riesca a colpirmi.»
Scossi la testa, sbigottita al pensiero di cinque Travis che correvano in giro per casa. «Sono tutti tatuati?»
«Tutti tranne Thomas. È dirigente pubblicitario in California.»
«E tuo padre? Dov’è?»
«Vive da queste parti», rispose. Aveva di nuovo la mascella contratta, sempre più irritato dalla squadra di calcio.
«Perché ridono?» domandai indicando la tavolata rumorosa. Lui scosse la testa, era chiaro che non ne volesse parlare. Incrociai le braccia e mi dimenai sulla sedia. «Dimmelo.»
«Ridono di me perché innanzitutto ti ho portato a cena. Di solito
non è una... mia abitudine.»
«Innanzitutto?» Quando capii, Travis sussultò vedendo la mia espressione. Parlai senza riflettere. «E io che temevo ridessero di te perché ti fai vedere con una vestita così! Credono che verrò a letto con te», borbottai.
«Perché non dovrei farmi vedere con te?»
«Di cosa stavamo parlando?» chiesi, sforzandomi di controllare il calore che mi saliva alle guance.
«Di te», mentì. «Qual è la tua specializzazione?».
«Oh, ehm... cultura generale, per il momento. Sono ancora indecisa, ma propendo per ragioneria.»
«Tu però non sei di queste parti. Ti sei trasferita.»
«Sono di Wichita, come America.»
«E come sei finita qui dal Kansas?»
«Siamo state costrette a scappare.»
«Da cosa?»
«Dai miei genitori.»
«Oh. E America? Anche lei ha problemi con i genitori?»
«No, Mark e Pam sono fantastici. In pratica mi hanno allevato loro. Lei mi ha seguito, non voleva venissi qui da sola.»
Travis annuì. «E come mai avete scelto la Eastern?»
«Mi stai facendo il terzo grado?» Le domande stavano diventando troppo personali e iniziavo a sentirmi a disagio.
La squadra di calcio lasciò il tavolo, con un gran rumore di sedie. Dopo un’ultima battuta, i giocatori si avviarono lentamente alla porta. Non appena Travis si alzò affrettarono il passo, e gli ultimi del gruppo spinsero quelli davanti per darsi alla fuga prima che attraversasse la sala. Lui tornò a sedersi, controllando a stento rabbia e frustrazione.
Inarcai un sopracciglio.
«Stavi dicendo perché hai scelto la Eastern», riprese.
Mi strinsi nelle spalle. «È difficile da spiegare. Mi è sembrata la scelta più giusta da fare.»
Lui sorrise e aprì il menu. «So cosa intendi.»
mercoledì 17 luglio 2013
Club del libro #3
Carissime lettrici di Bookcret,
come state??? è da tantissimo tempo che non ci sentiamo :-(
Ci siete ancora???
Mi scuso per la lunga assenza ma, la maturità mi ha ridotto ad uno straccio.
E a voi come è andato l'anno?
Avete trovato il tempo di leggere??
Avete consigli da dare per il terzo incontro del Club del libro??? :D
Vi ricordate cos'è vero?
Meglio rinfrescarvi la memoria:
Assaggi di lettura: Lolita di Vladimir Nabokov
I capitolo:
PARTE PRIMA
1
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima
mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul
palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo,
semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un
calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla
linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Una sua simile l'aveva preceduta? Ah sì, certo che sì! E in verità non ci
sarebbe stata forse nessuna Lolita se un'estate, in un principato sul mare, io
non avessi amato una certa iniziale fanciulla. Oh, quando? Tanti anni
prima della nascita di Lolita quanti erano quelli che avevo io quell'estate.
Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.
Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i
serafini, i male informati, ingenui serafini dalle nobili ali. Guardate questo
intrico di spine.
2
Sono nato nel 1910, a Parigi. Mio padre era un uomo amabile e
indulgente, una macedonia di geni razziali: cittadino svizzero, aveva
antenati francesi ed austriaci, con un tocco di Danubio nelle vene. Tra un
momento farò girare alcune splendide cartoline di un azzurro smaltato. Era
proprietario di un lussuoso albergo sulla Costa Azzurra. Suo padre e i suoi
due nonni commerciavano rispettivamente in vino, gioielli e seterie. A
trent'anni aveva sposato una ragazza inglese, figlia di Jerome Dunn,
l'alpinista, e nipote di due parroci del Dorset, entrambi esperti di materie
astruse: la paleopedologia l'uno, le arpe eolie l'altro. La mia
fotogenicissima madre morì in un bizzarro incidente (picnic, fulmine)
quando avevo tre anni, e, se si eccettua un tiepido recesso nel passato più
tenebroso, nulla di lei persiste negli anfratti della memoria, sui quali, se
riuscite ancora a sopportare il mio stile (sono guardato a vista, mentre
scrivo), era tramontato il sole della mia infanzia: certo voi tutti conoscete
gli odorosi residui del giorno che restano sospesi con i moscerini su una
siepe in fiore, o vengono improvvisamente penetrati da un gitante, ai piedi
di un colle, nel crepuscolo estivo; un tepore di pelliccia, moscerini dorati.
La sorella maggiore di mia madre, Sybil, sposata e poi trascurata da un
cugino di papà, era nella mia ristretta cerchia familiare una sorta di
governante e istitutrice non retribuita. Qualcuno mi raccontò poi che era
innamorata di mio padre, e lui ne aveva spensieratamente approfittato in
un giorno di pioggia per dimenticarsene al primo raggio di sole. Io le ero
molto affezionato, nonostante il rigore – il fatale rigore – di certe sue
norme. Forse voleva fare di me, a tempo debito, un vedovo migliore di mio
padre. Zia Sybil aveva un colorito cereo, e occhi azzurrini bordati di rosa.
Scriveva poesie e nutriva poetiche superstizioni. Diceva di sapere che
sarebbe morta subito dopo il mio sedicesimo compleanno, e così accadde.
Suo marito, grande viaggiatore nel ramo dei profumi, trascorreva la
maggior parte del tempo in America, dove alla fine aprì un'azienda e
comprò qualche immobile.
Io crescevo, sano e felice, in un mondo luccicante di libri illustrati,
sabbia pulita, aranceti, cani amichevoli, panorami marini e visi sorridenti.
Intorno a me il magnifico Hôtel Mirana ruotava come una sorta di universo
personale, un cosmo patinato dentro quello turchino, più grande, che
sfolgorava tutt'intorno. Dagli sguatteri in grembiule ai magnati in completo
di flanella tutti mi trovavano simpatico, tutti mi vezzeggiavano. Le anziane
signore americane, appoggiandosi al bastone, s'inclinavano verso di me
come tante torri di Pisa. Le principesse russe decadute, che non avevano di
che pagare mio padre, mi regalavano dispendiosi bonbon. E lui, mon cher
petit papa, mi portava in barca e in bicicletta, mi insegnava il nuoto, i tuffi
e lo sci d'acqua, mi leggeva Don Chisciotte e I miserabili; io l'adoravo,
l'ammiravo ed ero felice per lui quando sentivo la servitù che
chiacchierava delle sue varie amiche, creature bellissime e gentili che mi
tenevano in gran conto, e tubando spargevano lacrime preziose sulla mia
allegra orfanità.
Frequentavo una scuola inglese a pochi chilometri da casa, dove giocavo
a pallamuro, prendevo voti eccellenti e andavo perfettamente d'accordo
con professori e compagni. Gli unici, distinti eventi sessuali di cui abbia
ricordo prima dei tredici anni (prima, cioè, di aver incontrato la mia
piccola Annabel) sono: una conversazione solenne, costumatissima e
puramente teorica sulle sorprese della pubertà, sostenuta nel roseto della
scuola con un ragazzo americano figlio di un'attrice allora assai famosa,
che nel mondo tridimensionale egli vedeva molto di rado; e qualche
interessante reazione, da parte del mio organismo, a certe fotografie, tutte
ombre e madreperla e infinite morbide fessure, del sontuoso La Beauté
humaine di Pichon, sgraffignato nella biblioteca dell'albergo da sotto una
montagna di «Graphics» dalle rilegature marmoree. Più tardi, con quella
sua incantevole bonomia, mio padre mi diede tutte le informazioni che
riteneva potessero essermi necessarie a proposito del sesso. Fu subito
prima di iscrivermi, nell'autunno del 1923, a un lycée di Lione (dove
avremmo trascorso tre inverni); ma ahimè, l'estate di quell'anno egli
viaggiava per l'Italia con Mme de R. e sua figlia, e io non avevo nessuno
con cui sfogarmi, nessuno a cui chiedere consiglio.
3
Anche Annabel, come chi scrive, aveva ascendenze miste: nel suo caso,
metà inglesi e metà olandesi. Oggi i suoi lineamenti mi appaiono molto più
confusi di qualche anno fa, prima che conoscessi Lolita. Ci sono due tipi di
memoria visiva: l'uno è quando ricrei con perizia, a occhi aperti,
un'immagine nel laboratorio della mente (e allora vedo Annabel in termini
generici come: «pelle color miele», «braccia esili», «capelli alla
maschietta», «lunghe ciglia», «bocca grande e lucente»); l'altro quando
evochi d'un tratto, a occhi chiusi, nel buio interno delle palpebre, la replica
oggettiva, esclusivamente ottica di un viso amato, un piccolo fantasma dal
colorito naturale (e così vedo Lolita).
Lasciate quindi che, nel descrivere Annabel, mi limiti compostamente a
dire che era una ragazzina adorabile, più giovane di me di qualche mese. I
suoi genitori, vecchi amici di mia zia e barbosi quanto lei, avevano
affittato una villa non lontano dall'Hôtel Mirana. Calvo e abbronzato il
signor Leigh, grassa e incipriata la signora Leigh (nata Vanessa van Ness);
ah, come li odiavo! In principio, Annabel e io parlammo di cose
inessenziali. Lei continuava a far scorrere tra le dita manciate di sabbia
fina. I nostri cervelli erano in sintonia con quelli dei ragazzini europei e
intelligenti dei nostri giorni e del nostro ambiente, e dubito che l'interesse
che dimostravamo per la pluralità dei mondi abitati, il tennis agonistico,
l'infinito, il solipsismo e così via potesse considerarsi individualmente
geniale. La morbidezza e la fragilità dei cuccioli ci procurava la medesima,
intensa sofferenza. Lei voleva fare l'infermiera in qualche affamato paese
asiatico; io volevo diventare una celebre spia.
Tutt'a un tratto ci innamorammo, pazzamente, goffamente,
spudoratamente, tormentosamente; e senza speranza, dovrei aggiungete,
perché l'unico modo di placare quella mutua frenesia di possesso sarebbe
stato assorbire, assimilare sino all'ultima particella lo spirito e la carne
dell'altro; e invece non potevamo neanche accoppiarci come due monelli di
periferia avrebbero senz'altro trovato il modo di fare. Dopo uno spericolato
tentativo di incontrarci di notte nel suo giardino (ma di questo parlerò più
avanti) godemmo di un'intimità limitata, fuori dal campo uditivo, ma non
visivo, dei bagnanti sulla parte affollata della plage. Là, a pochi passi dai
grandi, stavamo sdraiati tutta la mattina sulla rena soffice in un pietrificato
parossismo di desiderio, e approfittavamo di ogni benedetto lapsus dello
spazio e del tempo per toccarci: la sua mano, seminascosta dalla sabbia,
avanzava furtiva verso di me; le sottili dita abbronzate, come sonnambule,
si facevano sempre più vicine; e poi il suo ginocchio opalescente iniziava
un lungo, cauto tragitto; qualche volta un bastione occasionale, costruito
dai bambini più piccoli, ci forniva riparo sufficiente per sfiorarci le labbra
cosparse di salsedine. Quei contatti incompleti portavano i nostri giovani
corpi, sani e inesperti, a un tale stato di sovreccitazione che neppure
l'acqua fredda e azzurra, nella quale continuavamo ad abbrancarci, poteva
darci sollievo.
Fra alcuni tesori perduti nei vagabondaggi dell'età adulta c'era
un'istantanea scattata da mia zia: Annabel, i suoi genitori e un certo dottor
Cooper, un signore posato, anziano e claudicante che quella stessa estate
faceva la corte a mia zia, sedevano all'aperto al tavolino di un caffè.
Annabel non era riuscita bene, colta nell'atto di chinarsi sul suo chocolat
glacé, e gli unici tratti identificabili (a quanto posso ricordare di
quell'immagine), nel sole sfocato in cui sfumava la sua bellezza perduta,
erano le esili spalle nude e la scriminatura dei capelli; ma io, un po'
discosto dagli altri, spiccavo con una sorta di drammatico risalto: un
ragazzo imbronciato con le sopracciglia folte, una scura camicia sportiva e
calzoncini bianchi di buon taglio, le gambe incrociate, seduto di profilo, lo
sguardo altrove. La foto risaliva all'ultimo giorno di quella nostra estate
fatale, e ad appena qualche minuto prima del nostro secondo, estremo
tentativo di contrastare il destino. Col più futile dei pretesti (era la nostra
ultimissima occasione, e non ci importava di nient'altro) fuggimmo dal
caffè alla spiaggia, e lì, in un tratto solitario, all'ombra violetta di certe
rocce rosse che formavano una sorta di grotta, ci abbandonammo a un
rapido scambio di avide carezze a cui assistette soltanto un paio di occhiali
da sole perduto da qualcuno. Io ero in ginocchio, e sul punto di possedere
il mio tesoro, quando due bagnanti barbuti, il vecchio del mare e suo
fratello, emersero dai flutti lanciando una salva di scurrili incoraggiamenti.
Quattro mesi dopo Annabel morì di tifo a Corfù.
4
Continuo a sfogliare questi infelici ricordi e a domandarmi se proprio
allora, nello scintillio di quell'estate remota, abbia avuto origine la crepa
che percorre la mia vita; o se invece il mio smodato desiderio di quella
bambina fosse soltanto la prima manifestazione di un'innata peculiarità.
Quando cerco di analizzare le mie brame, i moventi, le azioni e così via,
mi lascio andare a una sorta di fantasia retrospettiva che nutre l’analisi con
infinite alternative; e così ogni via immaginabile si biforca e triforca senza
posa nella complessa, snervante prospettiva del mio passato. Eppure sono
convinto che in un certo modo magico e fatale Lolita cominciò con
Annabel.
So anche che lo choc della sua morte consolidò in me la frustrazione di
quell'estate da incubo, e per tutti i freddi anni della mia gioventù ne fece
un ostacolo permanente a ogni successiva storia d'amore. In noi lo spirito e
la carne si erano fusi con una perfezione che deve risultare
incomprensibile ai rozzi, prosaici giovanotti di oggi, coi loro cervelli fatti
in serie. Molto dopo la morte di Annabel sentivo i suoi pensieri scorrere tra
i miei. Molto prima di incontrarci avevamo fatto gli stessi sogni.
Raffrontammo le nostre storie. Trovammo strane affinità. Nello stesso
giugno dello stesso anno (il 1919) un canarino smarrito era entrato
sbattendo le ali nelle nostre rispettive case, che si trovavano in due paesi
lontanissimi. Oh, Lolita, mi avessi amato tu così!
Ho serbato per la conclusione della mia «fase Annabel» il resoconto di
quel primo tentativo fallito. Una sera lei era riuscita a eludere l'accanita
vigilanza dei suoi. Ci appollaiammo su un muretto diroccato alle spalle
della loro villa, in un trepidante boschetto di mimose dalle foglie sottili.
Attraverso l'oscurità e i teneri alberelli scorgevamo gli arabeschi delle
finestre illuminate, che ora, grazie agli inchiostri variopinti di una memoria
sensibile, mi appaiono come tante carte da gioco – presumibilmente perché
il nemico era assorto in una partita a bridge. Mentre le baciavo l'angolo
delle labbra dischiuse e il lobo ardente dell'orecchio, Annabel era percorsa
da un fremito. Sopra di noi, tra le sagome delle lunghe foglie sottili,
baluginava pallido un ammasso di stelle; quel cielo vibrante pareva nudo
com'era lei sotto il vestitino leggero. Vedevo il suo volto nel cielo,
stranamente nitido, quasi emettesse un proprio fievole bagliore. Le sue
gambe, quelle gambe adorabili e vivaci, erano leggermente discoste, e
quando con la mano trovai quel che cercavo un'espressione sognante e
arcana, metà piacere, metà sofferenza, pervase i suoi tratti infantili. Era
seduta appena più in alto di me, e non appena quell'estasi solitaria la
induceva a baciarmi, la sua testa ricadeva con un moto morbido e languido
che era quasi doloroso, e le ginocchia nude mi catturavano il polso per poi
scostarsi di nuovo; e la sua bocca tremula, distorta dall'asprezza di chissà
quale occulta pozione, mi si accostava al viso prendendo fiato con un
sibilo. Dapprima cercava di dar sollievo al tormento d'amore strofinando
bruscamente le labbra aride contro le mie; poi il mio tesoro si ritraeva con
una scossa nervosa dei capelli, e di nuovo si faceva oscuramente vicina e
lasciava che mi cibassi della sua bocca dischiusa, mentre con una
generosità pronta a offrirle tutto, il mio cuore, la mia gola, le mie viscere,
le facevo tenere nel pugno maldestro lo scettro della mia passione.
Ricordo un profumo di talco credo l'avesse rubato alla cameriera
spagnola di sua madre, una fragranza di muschio, dolciastra e plebea. Si
mescolava al suo odore di biscotto, e i miei sensi furono d'un tratto colmi
fino all'orlo; un improvviso trambusto nel cespuglio vicino impedì loro di
traboccare... e mentre ci staccavamo l'uno dall'altra, prestando ascolto con
le vene dolenti al rumore causato probabilmente da un gatto in cerca di
preda, dalla casa giunse la voce di sua madre che la chiamava con voce
sempre più ansiosa, e il dottor Cooper uscì in giardino zoppicando
ponderosamente. Ma quel boschetto di mimose – la caligine delle stelle, il
fremito, la vampa, l'ambrosia e il dolore – è rimasto con me, e quella
bambina dalle membra di mare e la lingua ardente non ha mai cessato di
perseguitarmi; sinché finalmente, ventiquattro anni più tardi, non ho
spezzato il suo incantesimo incarnandola in un'altra.
Assaggi di lettura: Memorie di una geisha di Arthur Golden
I capitolo:
affacciata su un giardino, a parlare del più e del meno e a sorseggiare
una tazza di tè verde, e che il discorso cada su un fatto
avvenuto tanto tempo prima e che io vi dica: «Il pomeriggio in
cui incontrai quell'uomo... fu il più bello della mia vita, e anche
il più brutto». Sono convinta che mettereste giù la vostra tazza
e replichereste: «Be', com'è possibile? Era il più bello od il più
brutto? Una cosa esclude l'altra!» Di solito riderei di me stessa,
dichiarandomi d'accordo con voi, ma la verità è che il pomeriggio
in cui incontrai il signor Tanaka Ichiro fu al tempo stesso il
migliore ed il peggiore della mia vita. Mi era sembrato un uomo
così affascinante che persino il sentore di pesce che proveniva
dalle sue mani aveva un che di profumato. Ma, se non l'avessi
conosciuto, sono sicura che non avrei mai fatto la geisha.
Nulla, nella mia nascita e nel modo in cui sono stata allevata,
poteva lasciar presagire che sarei diventata una geisha di Kyoto.
Non sono neppure nata a Kyoto. Sono la figlia di un pescatore
che abitava in un villaggio chiamato Yoroido, sulle rive del mar
del Giappone. In tutta la mia esistenza sono ben poche le persone
alle quali ho parlato di Yoroido, o della casa in cui sono
nata, o di mio padre e di mia madre, o di mia sorella, di qualche
anno maggiore di me... e certamente non ho mai raccontato come
sono diventata geisha o che cosa voglia dire esserlo. Lascio
che la maggior parte della gente si immagini che anche mia madre
e mia nonna fossero geishe e che, non appena il periodo del
mio svezzamento si era concluso, già io venissi istruita nell'arte
della danza, o cose dî questo genere. Ricordo che un giorno di
molti anni fa, mentre stavo versando una tazza di saké a un uomo,
costui disse casualmente che la settimana prima era stato a
Yoroido. Be', mi sentii come un uccello che, dopo aver attraversato
a volo l'oceano, incontra una creatura che conosce il suo
nido. Ne fui così sconvolta che non riuscii a trattenermi dall'esclamare:
«Yoroido! E' lì che sono nata e cresciuta!»
Quel poveretto! Sul suo viso passarono le più straordinarie e
mutevoli espressioni. Fece del suo meglio per sorridere, ma più
che un sorriso era una smorfia perché non riusciva a cancellare
lo shock che gli si era dipinto in faccia.
«Yoroido?» disse. «Non può essere!»
Da tempo mi ero addestrata a sorridere in un certo modo,
quello che io chiamo il mio «sorriso no» perché ricorda una
maschera del teatro no dai lineamenti raggelati. Mi è molto utile
perché gli uomini lo possono interpretare a loro piacimento e
credo che possiate capire in quante occasioni io me ne sia servita.
Quel giorno decisi che sarebbe stato meglio ricorrervi ancora
una volta e, naturalmente, funzionò. L'uomo lasciò uscire di
colpo tutto il fiato che gli si era bloccato in gola e appoggiò sul
tavolo la tazza di saké che gli avevo servito, poi scoppiò in una
fragorosa risata che, ne sono sicura, era dettata più dal sollievo
che da qualunque altro sentimento.
«Che idea!» esclamò, ridendo di nuovo. «Proprio tu, cresciuta
in un buco fetido come Yoroido. Sarebbe come preparare
il tè in un secchio!» Quindi scoppiò in un'altra risata e
aggiunse: «E' per questo che sei tanto divertente, Sayuri-san. A
volte mi fai quasi sospettare che nei tuoi scherzi ci sia un fondo
di verità».
Non mi piace pensare a me stessa come a una tazza di tè preparata
in un secchio, ma ritengo che qualcosa di vero ci sia. Dopotutto
sono davvero nata e cresciuta a Yoroido e nessuno può
sostenere che sia un bel posto. E' difficile che qualcuno vada a
visitarlo e, per quanto riguarda le persone che ci vivono, non
hanno mai occasione di recarsi altrove. Probabilmente vi starete
chiedendo come mai a me sia capitato di lasciare il villaggio. E'
qui che comincia la mia storia.
In quel piccolo villaggio di pescatori che era Yoroido, vivevo in
una catapecchia che avevo ribattezzato «La casa ubriaca». Sorgeva
in cima ad una scogliera dove il vento dell'oceano soffiava in
continuazione. Quand'ero bambina ero convinta che il mare si
fosse preso un terribile raffreddore, perché tossicchiava sempre
ed in certi periodi emetteva uno spaventoso starnuto, che non
era altro che una tremenda folata di vento carica di gocce d'acqua.
Avevo deciso che la nostra minuscola dimora doveva essersi
offesa per quei continui spruzzi provenienti dall'oceano e, per
sfuggire loro, si era piegata su un fianco. Probabilmente sarebbe
crollata se mio padre non avesse ricavato un palo di legno da
un'imbarcazione da pesca finita sugli scogli e non avesse puntellato
con quello la grondaia, il che dava alla casa l'aspetto di un
vecchio sbronzo appoggiato a una stampella.
All'interno della casa ubriaca trascorrevo un'esistenza che
potrei definire altrettanto sbilenca, perché fin da piccolissima
assomigliavo molto a mia madre, e quasi per nulla a mio padre
o a mia sorella. Mia madre diceva che ciò dipendeva dal fatto
che eravamo uguali, lei e io... e in effetti tutt'e due avevamo gli
stessi occhi con una strana colorazione dell'iride, assolutamente
inconsueta in Giappone. Invece di essere di un marrone scuro
come quelli di tutti gli altri, gli occhi di mia madre erano di un
grigio trasparente, e i miei pure. Quando ero molto piccola,
avevo detto a mia madre di essere sicura che qualcuno le avesse
forato gli occhi e che da quel buco fosse uscito tutto il colore
scuro, immagine che lei aveva trovato molto divertente. A detta
delle indovine, le iridi di mia madre avevano un colore così pallido
perché nella sua personalità c'era troppa acqua, una tale
preponderanza di questo elemento da aver quasi reso insignificanti
gli altri quattro... ed era per questo, aggiungevano, che lei
aveva lineamenti tanto stridenti fra loro. La gente del villaggio
diceva spesso che sarebbe dovuta essere molto attraente, perché
lo erano stati i suoi genitori. Be', le pesche hanno un delizioso
sapore e così pure i funghi, ma, se vengono abbinati, il risultato
è tutt'altro che appetitoso: era questo il terribile scherzo che la
natura le aveva giocato. Lei aveva la piccola bocca corrucciata
di sua madre, ma aveva anche la mascella larga del padre, il che
dava l'impressione di un delicato dipinto racchiuso in una cornice
troppo pesante. Quanto ai suoi deliziosi occhi grigi, erano
circondati da ciglia troppo folte, che a suo padre stavano molto
bene, ma che nel suo caso servivano soltanto a farle apparire lo
sguardo perennemente spaventato.
Mia madre diceva sempre che aveva sposato mio padre perché,
se in lei c'era una preponderanza d'acqua, nella personalità
di lui c'era un'eccessiva presenza di legno. Chi conosceva mio
padre capiva subito a che cosa alludesse. L'acqua si sposta rapidamente
da un punto all'altro e trova sempre una crepa da cui
filtrare; il legno, invece, fa presa nella terra. Nel caso di mio padre
questo era un bene, perché era un pescatore e gli uomini
con una personalità lignea si trovano a loro agio sul mare. A dir
la verità, mio padre stava meglio sul mare che in qualunque altro
posto e non se ne allontanava mai molto. Sapeva di salmastro
anche dopo essersi lavato. Quando non era fuori a pesca,
sedeva sul pavimento nella nostra buia stanza di soggiorno a
rammendare le reti. Se una rete da pesca fosse stata una creatura
immersa nel sonno, non sarebbe stata certo la velocità con
cui mio padre lavorava a ridestarla. Lui faceva ogni cosa con la
stessa lentezza. Anche quando assumeva un'espressione
concentrata, avevi tutto il tempo di correre fuori e svuotare la vasca
prima che lui riuscisse a riplasmare i suoi lineamenti. Il suo volto
era cosparso di rughe, in ognuna delle quali lui aveva nascosto
questa o quella preoccupazione; perciò in realtà non era più
il suo viso, ma assomigliava piuttosto a un albero con nidi di
uccello su ogni ramo. Mio padre doveva lottare in continuazione
per tenerlo a bada e sembrava sempre spossato da quello
sforzo.
Quando avevo sei o sette anni, appresi qualcosa su mio padre
che fino a quel momento avevo ignorato. Un giorno gli
chiesi: «Papà, perché sei così vecchio?» Nel sentire quelle
parole lui inarcò le sopracciglia, che assunsero la forma di piccoli
ombrelli spioventi. Poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro, scosse
la testa e disse: «Non lo so». Quando mî girai verso mia madre,
vidi nei suoi occhi uno sguardo che stava a significare che
mi avrebbe risposto lei in un altro momento. Il giorno seguente,
senza dire una parola, mia madre mi condusse giù per la collina,
in direzione del villaggio, poi prendemmo un sentiero fra i boschi
che portava al cimitero. Mi accompagnò fino a tre tombe
appartate, con tre pietre tombali bianche, molto più alte di me.
Erano coperte da cima a fondo da ideogrammi scuri dall'aria
severa, ma io non avevo frequentato la scuola del nostro villaggio
abbastanza a lungo da sapere dove un carattere finisse e ne
cominciasse un altro. Mia madre li indicò e disse: «Natsu, moglie
di Sakamoto Minoru». Sakamoto Minoru era il nome di
mio padre. «Morta all'età di ventiquattro anni, nel diciannovesimo
anno di Meiji.» Poi passò alla pietra tombale successiva:
«Jinichiro, figlio di Sakamoto Minoru, morto all'età di sei anni,
nel diciannovesimo anno di Meiji» e a quella ancora accanto,
che era identîca in tutto alla precedente a parte il nome, Masao,
e l'età, tre anni. Ci misi un po' a capire che mio padre era già
stato sposato, tanto tempo prima, e che la sua intera famiglia
era morta. In séguito tornai a visitare quelle tombe e, mentre le
guardavo, mi resi conto che la tristezza è un sentimento molto
gravoso. Il peso del mio corpo infatti era diventato il doppio di
quanto fosse un attimo prima, come se quelle tombe mi stessero
tirando giù, verso di loro.
Con tutta quell'acqua e tutto quel legno, i miei genitori avrebbero
dovuto raggiungere un buon equilibrio e procreare figli
con una giusta disposizione degli elementi. Sono sicura che per
loro fu una sorpresa trovarsi alla fine in una situazione identica
a prima. Infatti non soltanto io assomigliavo a mia madre ed avevo
persino ereditato i suoi strani occhi, ma mia sorella Satsu era
praticamente uguale a mio padre. Mia sorella aveva sei anni più
di me e naturalmente, data la differenza d'età, era in grado di
fare cose che a me erano vietate. Tuttavia Satsu aveva la straordinaria
capacità di compiere ogni gesto in modo tale da dare
l'impressione che tutto avvenisse per puro caso. Per esempio, se
le si chiedeva di versare in una ciotola la zuppa che bolliva in
una pentola sulla stufa, lei lo faceva, ma sembrava che il cibo
fosse finito nella ciotola per un semplice scherzo del caso. Una
volta Satsu arrivò persino a tagliarsi con un pesce, e non intendo
dire con questo che si ferì con il coltello usato per togliere le
interiora: stava tornando dal villaggio e, mentre risaliva la collina
reggendo, avvolto in un foglio di carta, un pesce, questo scivolò
dall'involucro cadendole sulla gamba e una pinna le procurò
un taglio.
I miei genitori avrebbero voluto avere altri figli oltre a Satsu
e a me, soprattutto mio padre, il quale sperava nella nascita di
un maschio che lo aiutasse nella pesca. Ma, quando avevo sette
anni, mia madre si ammalò gravemente. Probabilmente si trattava
di cancro delle ossa, anche se ai tempi io non mi rendevo
conto di che cosa fosse. L'unico modo che lei aveva per contrastare
i dolori era dormire, cosa che cominciò a fare alla stessa
stregua di un gatto: cioè, più o meno sempre. Passavano i mesi e
lei non faceva che dormire, finché non arrivò il momento in cui
cominciò a svegliarsi a tratti e allora gemeva in continuazione.
Capivo che qualcosa in lei stava cambiando rapidamente, ma,
data l'estrema presenza di acqua nella sua personalità, non mi
sembrava che ci fosse di che preoccuparsi. A volte nell'arco di
pochi mesi dimagriva paurosamente, ma con la stessa rapidità
riacquistava peso. Però, quando avevo ormai nove anni, nel suo
volto le ossa erano diventate sporgenti e il deperimento fisico
era costante. Non mi rendevo conto che a causa della malattia
l'acqua stava defluendo da lei. Proprio come le alghe, che per
natura sono bagnate, ma che, una volta inaridite, si frantumano,
mia madre stava perdendo sempre più la propria essenza.
Un pomeriggio me ne stavo seduta sul pavimento corroso
della nostra buia stanza di soggiorno, intenta a cantare a un grillo
che avevo trovato quella mattina, quando una voce chiamò
dalla porta: «Ehi! Aprìte! Sono il dottor Miura!»
Il dottor Miura passava dal nostro villaggio una volta alla settimana
e, da quando mia madre si era ammalata, non mancava
mai di risalire la collina per venire a visitarla. Quel giorno mio
padre era a casa, perché stava per scoppiare un tremendo
temporale. Era seduto al suo solito posto, con le grandi mani simili
a ragni immerse in una rete da pesca. Ma ci mise qualche attimo
a rivolgere i suoi occhi verso di me e ad alzare un dito. Ciò
significava che voleva che andassi ad aprire la porta.
Il dottor Miura era un uomo molto importante... o almeno
così lo consideravamo al villaggio. Aveva studiato a Tokyo e, a
quanto si diceva, conosceva più ideogrammi cinesi di chiunque
altro. Era troppo altero per prestare attenzione a una creatura
come me. Dopo che ero andata ad aprirgli la porta, si sfilò le
scarpe e, passandomi accanto, entrò in casa.
«Salve, Sakamoto-san», disse a mio padre, «vorrei essere
nei tuoi panni, tutto il giorno al largo a pescare. Magnifico! E
nelle giornate burrascose ti riposi. Vedo che tua moglie è ancora
addormentata», continuò. «Peccato. Mi ero ripromesso di
visitarla.»
«Oh?» replicò mio padre.
«Non ripasserò di qui prima della settimana prossima, lo sai.
Non potresti svegliarla?»
Mio padre prese lentamente a districare le mani dalla rete,
ma alla fine si alzò.
«Chiyo-chan», mi disse, «prepara una tazza di tè per il
dottore.»
A quei tempi mi chiamavo Chiyo. Sarei stata conosciuta con
il mio nome da geisha, Sayuri, soltanto molti anni dopo.
Mio padre ed il medico entrarono nell'altra stanza, dove mia
madre giaceva addormentata. Cercai di origliare alla porta, ma
riuscii solamente a udire i gemiti di mia madre e non afferrai
neppure una parola di ciò che veniva detto. Mi misi a preparare
il tè e di lì a poco il medico tornò, soffregandosi le mani e con
un'espressione accigliata sul volto. Mio padre gli si avvicinò e si
sedettero.
«E' venuto il momento di dirti qualcosa, Sakamoto-san»,
cominciò il dottor Miura. «Devi parlare con una delle donne del
villaggio. Con la signora Sugi, magari. Chiedile di confezionare
un bell'abito nuovo per tua moglie.»
«Non ho il denaro, dottore», replicò mio padre.
«Ti capisco, ultimamente ci siamo impoveriti tutti, ma non
puoi negare una cosa del genere a tua moglie. Non deve morire
indossando quella veste cenciosa.»
«Dunque, sta per morire?»
«Ha davanti a sé, forse, solo qualche settimana di vita. Soffre
terribilmente. La morte sarà un sollievo per lei.»
Da quel momento non riuscii più ad ascoltare le loro voci,
perché udivo nelle mie orecchie un rumore simile a quello prodotto
dalle ali di un uccello in preda al panico. Forse, chissà,
era il mio cuore. Ma, se vi è mai capitato di vedere un uccello
intrappolato nella grande sala di un tempio, alla ricerca di una
via di fuga, be', proprio così stava reagendo la mia mente. Non
avevo mai pensato che a mia madre potesse accadere qualcosa
di diverso dal semplice star male. Non voglio dire che non avessi
mai preso in considerazione l'ipotesi della sua morte; l'avevo
fatto, ma allo stesso modo in cui mi chiedevo che cosa sarebbe
successo se la nostra casa fosse stata inghiottita da un terremoto.
Dopo un simile evento non ci sarebbe più stata vita.
«Ero sicuro che toccasse a me morire per primo», stava
dicendo mio padre.
«Tu sei vecchio, Sakamoto-san, ma la tua salute è buona. Potrai
campare altri quattro o cinque anni. Ti lascerò una scorta di
quelle pillole per tua moglie. Puoi dargliene due alla volta, se
VUOi.»
Parlarono ancora un po' delle pillole, poi il dottor Miura se
ne andò. Mio padre restò seduto, in silenzio, volgendomi la
schiena. Non indossava la camicia e gli vedevo la pelle floscia;
quanto più lo guardavo, tanto più cominciava a sembrarmi una
strana raccolta di forme e fibre. La colonna vertebrale era un
bastone nodoso; il cranio, coperto di chiazze scolorite, sarebbe
potuto essere un frutto ammaccato; le braccia erano stecchi avvolti
in cuoio vecchio, che pendevano da due bozzi. Se mia
madre moriva, come avrei potuto continuare a vivere in casa
con lui? Non volevo lasciarlo, ma, nel momento in cui mia madre
se ne fosse andata, la casa sarebbe stata deserta, che lui ci
fosse o no.
Alla fine mio padre pronunciò il mio nome, in un sussurro.
Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a lui.
«E' una cosa molto importante», disse.
Il suo volto era più spigoloso del solito e gli occhi gli roteavano
come se lui ne avesse perso il controllo. Pensai che stesse lottando
con se stesso per riuscire a dirmi che mia madre stava per
morire, invece le sue uniche parole furono: «Scendi al villaggio.
Portami un po' di incenso per l'altare».
Il nostro piccolo altare buddista si trovava su una vecchia
cassa accanto alla porta della cucina ed era l'unica cosa di valore
nella nostra casa ubriaca. Davanti alla rozza immagine di
Amida, il Buddha del Paradiso occidentale, erano disposte
minuscole tavolette funebri nere che portavano i nomi buddisti
dei nostri antenati defunti.
«Ma, padre... non c'era qualcos'altro?»
Fece un gesto con la mano e io capii che dovevo andare.
Il sentiero che partiva dalla nostra casa ubriaca seguiva la
sommità della scogliera prima di girare all'interno in direzione del
villaggio. Percorrerlo in una giornata come quella era un'impresa
difficile, ma ricordo che mi sentivo grata al vento turbinoso
perché distoglieva la mia mente da quei pensieri sconvolgenti. Il
mare era in tempesta, con onde che parevano pietre scheggiate,
tanto acuminate da essere taglienti. Mi pareva che il mondo intero
stesse provando le mie stesse sensazioni. La vita non era
dunque nulla più di un fortunale che imperversava costantemente
su ciò che un attimo prima esisteva, lasciandoselo alle
spalle marcio e irriconoscibile? Prima di allora non avevo mai
avuto un pensiero del genere. Per sfuggirgli, mi lanciai di corsa
giù per il sentiero finché sotto di me non scorsi il villaggio. Yoroido
era un minuscolo paese, proprio all'imbocco di
un'insenatura. Di solito il mare era punteggiato di barche da pesca, ma
quel giorno riuscii a vederne soltanto alcune dirette verso riva:
mi parvero, come sempre, insetti acquatici che si dibattessero
sulla superficie dell'acqua. La bufera stava aumentando d'intensità;
riuscivo a sentirne il rombo e le nuvole sopra di me erano
nere come il carbone. I pescatori nell'insenatura divennero sempre
più evanescenti sotto la cortina di pioggia, poi scomparvero
del tutto. Potei vedere la tempesta che risaliva il pendio venendo
verso di me. Le prime gocce che mi colpirono sembravano
uova di quaglia e nel giro di pochi secondi mi ritrovai fradicia
come se fossi caduta in mare.
Yoroido aveva un'unica strada, che portava direttamente
all'ingresso dell'edificio che ospitava la Compagnia nipponica di
prodotti ittici ed era fiancheggiata da costruzioni le cui stanze
sul davanti venivano usate come botteghe. La imboccai di corsa,
diretta verso la casa di Okada, dove avrei trovato l'incenso,
ma mi accadde qualcosa... uno di quei fatti banali dalle conseguenze
terribili, come inciampare e cadere sulle rotaie mentre
sta arrivando un treno. La terra battuta sotto i miei piedi era
scivolosa per via della pioggia e persi l'equilibrio. Caddi in
avanti, picchiando la faccia di lato. Il colpo, immagino, doveva
avermi stordita, perché ricordo soltanto che mi sentivo come
intorpidita, con l'impressione di avere in bocca qualcosa che
desideravo sputare. Udii alcune voci e mi accorsi che mi mettevano
supina, poi fui sollevata da terra e portata via. Compresi che mi
stavano portando nella sede della Compagnia nipponica dei
prodotti ittici perché avvertii tutt'attorno a me odore di pesce.
Sentii anche un suono schioccante quando tolsero da uno dei
tavoli di legno il pesce ammucchiato, facendolo cadere sul pavimento,
per distendermi sul ripiano viscido. Sapevo di essere
fradicia di pioggia, insanguinata, a piedi nudi e sporca, e di
indossare abiti da contadina. Ciò che ignoravo era che quel
momento avrebbe cambiato tutta la mia vita. Perché fu allora che
mi trovai a fissare il volto di Tanaka Ichiro.
Avevo visto il signor Tanaka nel nostro villaggio parecchie
volte prima di allora. Lui viveva in una città molto più grande, a
poca distanza da Yoroido, ma veniva ogni giorno perché la
Compagnia ittica apparteneva alla sua famiglia. Non indossava
abiti da lavoro come i pescatori, bensì un kimono, con ampi calzoni
che mi fecero tornare in mente le illustrazioni raffiguranti i
samurai che anche a voi sarà capitato di vedere. La sua pelle era
levigata e tesa come quella di un tamburo; gli zigomi sembravano
collinette luccicanti, simili alla pelle croccante di un pesce
grigliato. Quando mi trovavo in strada a trascinare un sacco di
fagioli assieme agli altri bambini, se vedevo per caso il signor
Tanaka uscire dalla sua azienda mi fermavo sempre per poterlo
osservare.
Rimasi distesa su quel tavolo scivoloso mentre il signor Tanaka
mi esaminava il labbro, tirandolo in basso con le sue dita e
inclinandomi la testa ora da un lato, ora dall'altro. All'improvviso
notò i miei occhi grigi, talmente fissi sul suo volto e affascinati
che non potei fingere di guardare altrove. Non mi rivolse
un sorrisetto beffardo, come per dirmi che ero una bambina
impudente, né distolse il proprio sguardo, quasi per lui fosse ininfluente
dove io guardassi o che cosa pensassi. Ci fissammo reciprocamente
per un lungo attimo... così lungo che fui scossa da
un brivido nonostante il caldo afoso che regnava in
quell'edificio.
«Ti conosco», disse alla fine. «Sei la figlia minore del
vecchio Sakamoto.»
Benché fossi ancora una bambina, capivo che il signor Tanaka
vedeva il mondo circostante come realmente era; nei suoi occhi
non c'era mai lo sguardo appannato che appariva in quelli
di mio padre. Avevo l'impressione che potesse scorgere la resina
che gocciolava come sangue dai tronchi dei pini e il cerchio
luminoso del sole nel cielo coperto di nuvole. Viveva nel mondo
visibile, anche se non sempre amava esserci. Ero convinta
che notasse gli alberi, il fango, i bambini per strada, ma non
avevo motivo per credere che si fosse mai accorto di me.
Forse fu per questo che, quando mi parlò, le lacrime mi sgorgarono
dagli occhi.
Il signor Tanaka mi fece mettere seduta. Pensai che stesse
per dirmi di andarmene, invece le sue parole furono: «Non
inghiottire quel sangue, bambina, se non vuoi che formi una pietra
nel tuo stomaco. Se fossi in te, lo sputerei sul pavimento».
«Il sangue di una bambina, signor Tanaka?» disse uno degli
uomini. «Qui, dove portiamo il pesce?»
Dovete sapere che i pescatori sono terribilmente superstiziosi.
Soprattutto non vogliono che le donne abbiano qualcosa a
che fare con la loro attività. A uno del nostro villaggio, il signor
Yamamura, era capitato di trovare una mattina la propria figlia
intenta a giocare sulla barca. L'aveva picchiata con un bastone,
poi aveva lavato l'imbarcazione con saké e lisciva, sfregando
con tanta forza da cancellare intere strisce di colore dal legno.
Ma non gli era ancora bastato: si era rivolto al sacerdote scintoista
e gli aveva chiesto di benedire la barca. E tutto questo perché
la figlia aveva semplicemente giocato lì dove venivano
raccolti i pesci. E ora il signor Tanaka mi stava suggerendo di
sputare il sangue sul pavimento di un locale in cui i pesci venivano
puliti.
«Se temete che il suo sputo possa far sparire le interiora dei
pesci», disse il signor Tanaka, «portateveli via. Io ne ho più
che a sufficienza.»
«Non si tratta delle interiora, signore.»
«Direi che il suo sangue sarà la cosa più pulita che sia mai
caduta su questo pavimento da quando tu o io siamo nati. Forza»,
mi esortò il signor Tanaka, «sputa.»
Me ne stavo seduta su quel tavolo viscido, incerta sul da farsi.
Pensavo che sarebbe stato terribile disobbedire al signor
Tanaka, ma non sono sicura che avrei trovato il coraggio di sputare
se uno degli uomini non si fosse chinato di fianco e non si
fosse premuto un dito contro una narice per soffiare il muco dal
naso e farlo cadere a terra. Dopo averlo visto, non riuscii a trattenere
più ciò che avevo in bocca e sputai il sangue proprio come
il signor Tanaka mi aveva detto di fare. Tutti gli uomini uscirono
dal locale, con un'espressione di disgusto in faccia; rimase
soltanto Sugi, l'assistente del signor Tanaka. Quest'ultimo gli
chiese di andare a cercare il dottor Miura.
«Non so dove trovarlo», replicò Sugi, più che altro, credo,
perché non aveva voglia di dare una mano.
Informai il signor Tanaka che il medico era stato a casa
nostra pochi minuti prima.
«Dove si trova la tua abitazione?» mi chiese il signor
Tanaka.
«E' quella piccola casa ubriaca in cima alla scogliera.»
«Che cosa intendi con... "casa ubriaca"?»
«La chiamo così perché pende di lato, come se avesse bevuto
troppo.»
Il signor Tanaka parve non capire il significato delle mie parole.
«Sugi, àvviati verso la casa ubriaca di Sakamoto e cerca il
dottor Miura. Non ti sarà difficile trovarlo, basta che ascolti le
grida dei pazienti che lui sta visitando.»
Immaginai che il signor Tanaka sarebbe tornato al proprio
lavoro non appena Sugi se ne fosse andato; invece restò accanto
al tavolo, a fissarmi. Sentii che il volto mi si stava imporporando.
Alla fine lui disse una cosa che mi parve molto intelligente.
«Hai una melanzana sulla faccia, piccola figlia di SakamotO.»
Si avvicinò a un cassetto e ne estrasse uno specchio perché
potessi guardarmi. Il mio labbro era gonfio e violaceo, come
aveva detto lui.
«Ma ciò che più mi interessa», continuò, «è sapere come
mai tu abbia quegli occhi straordinari e perché tu sia così diversa
da tuo padre.»
«Gli occhi sono quelli di mia madre», risposi. «Quanto a
mio padre, è talmente rugoso che non saprei dire quale sia in
realtà il suo aspetto.»
«Anche tu un giorno sarai rugosa.»
«Ma alcune delle sue rughe non dipendono dall'età», replicai.
«La parte posteriore della testa è vecchia quanto la fronte,
eppure è liscia come un uovo.»
«Questo non è un commento molto rispettoso nei confronti
di tuo padre», mi disse il signor Tanaka. «Però immagino che
sia vero.»
Poi aggiunse qualcos'altro che mi fece talmente arrossire che,
ne sono sicura, il mio labbro risultò al confronto quasi pallido.
«Ma come ha fatto un vecchio uomo rugoso con una testa
simile a un uovo a mettere al mondo una bambina bella come
te?»
Negli anni successivi sarei stata definita bella tante di quelle
volte che non saprei ricordarle tutte, anche se, com'è ovvio,
questo è un complimento che viene abitualmente rivolto alle
geishe, pure a quelle brutte. Ma quando il signor Tanaka me lo
disse, e a quei tempi non avevo la minima idea di che cosa fosse
una geisha, riuscii quasi a credere che fosse vero.
Dopo essere stata medicata al labbro dal dottor Miura e aver
comprato l'incenso come mio padre mi aveva chiesto di fare, mi
diressi verso casa in un tale stato di agitazione che, se fossi stata
un formicaio, non credo che dentro di me la frenesia sarebbe
stata maggiore. Avrei superato meglio quel momento se le mie
emozioni mi avessero tirato tutte nella stessa direzione, ma non
era così semplice. Venivo sbattuta di qua e di là come un foglio
di carta nel vento. In mezzo ai contrastanti pensieri relativi a
mia madre se ne annidava uno piacevole, nonostante il fastidio
che mi dava il labbro, e tentavo in tutti i modi di metterlo a fuoco.
Concerneva il signor Tanaka. Mi fermai sulla scogliera a fissare
il mare, con le onde che parevano ancora lame affilate benché
la bufera fosse ormai passata, e il cielo che aveva assunto la
tinta bruna del fango. Mi assicurai che nessuno mi stesse osservando,
poi mi strinsi l'incenso al petto e pronunciai il nome del
signor Tanaka nel vento che sibilava, più e più volte, finché non
mi sentii soddisfatta di aver udito la musica nascosta in ogni
sillaba. Lo so che può sembrare una sciocchezza... e non nego che
lo fosse. Ma io ero soltanto una bambina confusa.
Terminata la cena, mio padre scese al villaggio a vedere gli
altri pescatori giocare agli scacchi giapponesi e Satsu e io riordinammo
la cucina senza rivolgerci una sola parola. Io tentavo di
ricordare quali emozioni avesse suscitato in me il signor Tanaka,
ma nel silenzio gelido della casa ogni sensazione mi era sfuggita
di mente. Invece avvertivo un persistente ed agghiacciante
terrore al pensiero della malattia di mia madre. Mi ritrovai a
chiedermi quanto tempo ci restasse prima di doverla seppellire
nel cimitero del villaggio accanto agli altri familiari di mio
padre. Che ne sarebbe stato allora di me? Immaginai che, una volta
morta mia madre, Satsu ne avrebbe preso il posto. Fissai mia
sorella che stava strofinando la pentola di ferro in cui avevamo
cotto la minestra: sebbene ce l'avesse proprio davanti, e su di
essa tenesse puntato lo sguardo, capii che non la vedeva. Continuò
a strofinare a lungo, anche quando era perfettamente pulita.
Alla fine le dissi: «Satsu-san, non mi sento bene».
«Va' fuori e scalda l'acqua», mi rispose, mentre con una
mano bagnata si tirava indietro i capelli dagli occhi.
«Non voglio fare il bagno», replicai. «Satsu, la mamma sta
per morire...»
«Questa pentola è incrinata. Guarda!»
«Non è incrinata», dissi. «Quel segno c'è da un sacco di
tempo.»
«Ma come ha fatto l'acqua ad uscire?»
«L'hai rovesciata tu. Ti ho visto.»
Per un attimo capii che Satsu stava provando un'emozione
molto forte, che trasparì sul suo volto sotto forma di estremo
stupore, come le capitava spesso quando provava qualcosa. Ma
non mi disse altro. Tolse la pentola dalla stufa e si avviò verso la
porta per metterla fuori.