oggi mi rivolgo soprattutto a voi. Proponendovi la recensione di un
. A mio avviso uno dei suoi volumi più accattivante e ben riuscito.
Elizabeth Cameron, contessa di Havenhurst, è una delle più belle giovani donne d'Inghilterra. Ma la cascata di boccoli color dell'oro, gli occhi di smeraldo e il corpo flessuoso non devono trarre in inganno: sotto quell'aspetto fragile e delizioso si nascondono una tempra da combattente, orgoglio e coraggio smisurati. Nel possente abbraccio di Ian Thornton, Elizabeth avverte per la prima volta un turbamento sconosciuto. Anche Ian è un uomo di rara avvenenza, ma di grande msitero: non si sa nulla del suo passato nè delle origini della sua ricchezza... Dai salotti della Londra per bene alle selvagge highlands scozzesi, il tempestoso, drammatico, sensuale, dolce, intrigato rapporto di Elizabeth e Ian si arricchisce di colpi di scena, scandali, gelosie, malintesi, finchè i due innamorati non si arrenderanno alla voce del cuore.
Elizabeth Cameron, protagonista di questo romanzo è una bellissima ragazza dagli occhi verdi e i capelli del color del miele.
accogliere nella propria casa, per una settimana, la ragazza con una chaperon, affinché potessero
. Un uomo di quarantacinque anni, dedito ai piaceri della carne, desideroso di un erede legittimo. Il secondo è
Un grande stimatore della caccia e delle pesca. Il terzo e ultimo è
.
, rendendola una squattrinata e distruggendole ogni possibilità di matrimonio. Elizabeth però ha altri progetti per il proprio futuro e desiderosa di cavarsela da sola
. Ma sarà alquanto difficile, soprattutto a causa dell'ardente attrazzione che prova per uno dei tre. L'uomo di cui si innamorò alla tenera età di diciassette anni e che le rovinò la vita: Ian Thornton.
La vicenda si svolge sia a Londra, dove abita Elizabeth e in Scozzia dove risiede la casa di campagna di Ian. La narrazione ricopre un lasso di tempo di circa un anno. I protagonisti di questa vicenda sono al quanto orgogliosi e testardi. Elizabeth pur essendo una ragazza cresciuta con i servitore della sua adorata casa, lontana da tutti gli altri bambini è allegra e spensierata. Decisa e coraggiosa.
Desidera la completa libertà ed è disposta a tutto pur di ottenerla.
Perduta la sua fiducia è persa per sempre. Un uomo riflessivo, intelligente, affascinante e spavaldo. Quando si incontrarono per la prima volta Elizabeth aveva soltanto diciassette anni, ma questo non impedì ad Ian di sedurla e chiederla in sposa, ma il fratello, desideroso di placare i suoi debiti di gioco, propendeva per un matrimonio più proficuo per la sorella. La discussione si mutò in conflitto e infine in duello, allontanando i due giovani fino al giorno dell'arrivo di Elizabeth in Scozia.
Il linguaggio è semplice e facilmente comprensibile. La lettura procede spedita, senza intoppi.
Judith ha una dote straordinaria: far credere al lettore che tutto sti andando per il meglio quando a un certo punto cambia le carte in tavola, rendendo più avvincente e appassionante il romano.
I brevi incontri amorosi tra i due amanti sono dolci ed emozionanti. Una componente fondamentale in un romanzo di genere rosa. Un'altra grande capacità della scrittrice è quella di far calare il lettore nell'epoca in cui è ambientata la vicenda. Descrivendo in maniera accurata la vita mondana con i suoi pregi e difetti. Condannando le ingiustizie ed elogiando le virtù.
, nella forza delle passioni e nel saper perdonare in nome di quel sentimento potente e indissolubile.
Questo volume è il più riuscito di questa autrice poiché a distanza di tempo il lettore ricorda con affetto una vicenda che l'ha fatto fantasticare ed emozionare come non mai. Rievocando l'amore impossibile e travagliato della giovane Elizabeth Cameron e dell'orgoglioso Ian Thornton.
Quindici servitori con la tradizionale livrea azzurra e oro del conte di
Cameron partirono da Havenhurst all’alba dello stesso giorno. Tutti
recavano un identico messaggio urgente che lo zio di Lady Elizabeth, Mr
Julius Cameron, aveva incaricato di recapitare in quindici dimore sparse
per tutta l’Inghilterra.
I destinatari di questi messaggi avevano in comune una sola cosa: un
tempo avevano chiesto la mano di Lady Elizabeth.
Tutti e quindici i gentiluomini, nel leggere il messaggio, ebbero un
sussulto di fronte al contenuto; alcuni si mostrarono increduli, altri
divertiti, altri ancora perfidamente soddisfatti. Dodici di essi risposero
prontamente rifiutando l’assurda offerta di Julius Cameron, e si
affrettarono poi a cercare amici a cui raccontare l’incredibile, gustoso
pettegolezzo senza precedenti.
Tre dei destinatari reagirono diversamente.
Lord John Marchman era appena ritornato dal suo passatempo
quotidiano preferito, la caccia, quando arrivò il servitore di Havenhurst e
un domestico gli recò il messaggio. “Dannazione!” mormorò leggendolo.
Il messaggio diceva che Mr Julius Cameron desiderava vedere sua nipote,
Lady Elizabeth Cameron, sposata convenientemente al più presto. A
questo fine, Mr Cameron si diceva disposto a riprendere in esame la
domanda di matrimonio, un tempo respinta, di John. Conscio che era
passato un anno e mezzo dall’ultima volta che si erano frequentati, Julius
Cameron proponeva di mandare la nipote, debitamente accompagnata da
uno chaperon, a passare una settimana presso John, perché potessero
“rifare conoscenza”.
Incredulo, Lord Marchman passeggiava avanti e indietro, rileggendo da
cima a fondo il messaggio. “Dannazione!” ripetè. Passandosi una mano tra
i capelli rossicci, guardò sgomento la vicina parete, completamente
tappezzata da ciò che aveva di più caro, i trofei di caccia da lui collezionati
in Europa e in tutto il mondo. Un alce lo stava guardando con occhi di
vetro; più in là un cinghiale selvatico mostrava le zanne. Stendendo il
braccio, grattò affettuosamente l’alce alla base delle corna, con un gesto
che esprimeva gratitudine per la splendida giornata di caccia che gli aveva
procurato quel trofeo.
Un’ammaliante visione di Elizabeth Cameron gli balenò nella mente:
un viso incredibilmente bello dagli occhi verdi, la carnagione da cammeo e
le morbide labbra sorridenti. Un anno e mezzo prima, quando l’aveva
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conosciuta, l’aveva trovata la più bella fanciulla che avesse mai visto.
Dopo averla incontrata solo due volte, era stato talmente affascinato da
quella deliziosa e spontanea diciassettenne che si era precipitato dal
fratello a chiedere la sua mano, ma ne aveva ricevuto un freddo rifiuto.
Evidentemente lo zio di Elizabeth, che adesso era anche il suo tutore,
giudicava John con un metro diverso.
O forse la stessa bellissima Lady Elizabeth era la causa di questa
decisione; forse i loro due incontri nel parco avevano avuto un profondo
significato anche per lei.
Alzandosi, John si avvicinò alla terza parete, che ospitava una quantità
di canne da pesca, e ne scelse una. Quel pomeriggio le trote avrebbero
abboccato, pensò, mentre ricordava i magnifici capelli di Elizabeth, del
colore del miele. Al sole avevano mandato riflessi che gli ricordavano le
squame iridate di una bellissima trota che balza fuori dell’acqua.
L’analogia gli sembrò tanto perfetta e poetica che Lord Marchman si
fermò incantato, posando la canna da pesca. Avrebbe usato proprio questo
complimento per descrivere i capelli di Elizabeth, pensò, nell’accettare
l’offerta dello zio della ragazza e nell’accoglierla nella sua residenza il
mese dopo.
Sir Francis Belhaven, il quattordicesimo destinatario del messaggio di
Julius Cameron, lo lesse seduto in camera da letto, avvolto in una veste da
camera di raso, mentre la sua amante lo aspettava nuda sul letto in fondo
alla stanza.”Francis, caro,” mormorò carezzevolmente, raschiando con le
lunghe unghie il lenzuolo di raso, “cos’ha di tanto importante quel
messaggio da trattenerti laggiù?”
Lui alzò gli occhi aggrottando la fronte al rumore delle sue unghie.
“Non grattare le lenzuola, tesoro,” disse. “Mi sono costate trenta sterline.”
“Se ti importasse di me,” ribatté lei, attenta a non avere un tono
lamentoso, “non baderesti al prezzo del lenzuolo.” Francis Belhaven era
talmente tirchio che a volte Eloise si domandava se sposandolo ci avrebbe
guadagnato qualcosa di più di un paio di vestiti nuovi all’anno.
“Se ti importasse di me,” ribatté lui tranquillamente, “avresti più cura del
mio denaro.”
A quarantacinque anni Francis Belhaven non si era ancora sposato, ma
non gli era mai mancata la compagnia femminile. Le donne gli piacevano
moltissimo: i loro corpi, i loro visi, i loro corpi...
Ora, tuttavia, cominciava a desiderare un erede legittimo, e per questo
gli occorreva una moglie. Durante lo scorso anno aveva pensato spesso ai
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precisi requisiti della fortunata fanciulla che avrebbe finito per scegliere.
Voleva una moglie non solo giovane ma anche bella, e con abbastanza
denaro da non dover sperperare quello di lui.
Alzando gli occhi dal messaggio di Julius, guardò avidamente i seni di
Eloise e aggiunse mentalmente un altro requisito della sua futura moglie:
doveva saper capire i suoi appetiti sessuali e il suo bisogno di varietà in
materia. Guai se avesse stretto le labbra come una prugna secca quando si
fosse trovato preso da qualche piccola tresca senza importanza. All’età di
quarantacinque anni non aveva intenzione di farsi comandare da una
ragazzetta con pii concetti di moralità e di fedeltà coniugale.
L’immagine di Elizabeth Cameron si sovrappose a quella della sua
amante nuda. Che fiorente bellezza era quando l’aveva chiesta, quasi due
anni prima. Quei seni maturi, quel vitino sottile, quel viso... erano
indimenticabili. E la dote... adeguata. Da allora, correva voce che fosse
rimasta praticamente priva di mezzi dopo la misteriosa scomparsa del
fratello, ma lo zio affermava che avrebbe portato una dote cospicua, il che
dimostrava che le voci, come sempre, sbagliavano.
“Francis!”
Alzandosi, si avvicinò al letto e si sedette accanto a Eloise. Le pose una
mano carezzevole sul fianco, ma con l’altra afferrò il cordone del
campanello. “Un momento, cara,” disse, mentre un domestico si affrettava
a entrare nella stanza. Gli porse il biglietto e gli disse: “Dite al mio
segretario di mandare una risposta affermativa.”
L’ultimo invito fu trasmesso dalla casa di Londra di Ian Thornton a
Montmayne, la sua tenuta di campagna, dove comparve sul suo scrittoio in
mezzo a una montagna di corrispondenza d’affari e mondana in attesa
della sua attenzione. Ian aprì la missiva di Julius Cameron mentre dettava
rapidamente al suo nuovo segretario, e gli ci volle assai meno di Lord John
Marchman o di Sir Francis Belhaven per prendere una decisione.
La fissò non credendo ai propri occhi, mentre Peters, che era il suo
segretario da appena due settimane, mormorava una tacita preghiera di
ringraziamento per la pausa e continuava a scribacchiare più in fretta che
poteva, cercando furtivamente di riprendere il filo della dettatura del suo
padrone.
“Questa,” disse Ian asciutto, “mi è stata mandata o per sbaglio o per
scherzo. In entrambi i casi, è di pessimo gusto.” Il ricordo di Elizabeth
Cameron gli guizzò in mente: una piccola civetta superficiale e venale con
una faccia e un corpo che lo avevano stregato. Quando l’aveva conosciuta
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era fidanzata con un visconte. Evidentemente non l’aveva sposato; senza
dubbio lo aveva piantato a favore di qualcuno con prospettive ancora
migliori. La nobiltà inglese, come ben sapeva, si sposava solo per prestigio
o per denaro, per poi cercare altrove la soddisfazione dei sensi.
Evidentemente i parenti di Elizabeth Cameron stavano rimettendola sul
mercato matrimoniale. E dovevano essere molto ansiosi di sistemarla, se
erano disposti a rinunciare a un titolo per il denaro di Ian... Ma questa
congettura sembrava così improbabile che Ian la scartò. Quella lettera era
ovviamente uno stupido scherzo, perpetrato probabilmente da qualcuno
che ricordava i pettegolezzi sorti in quella partita di campagna; qualcuno
che pensava che il biglietto lo avrebbe divertito.
Cancellando dalla mente il burlone ed Elizabeth Cameron, Ian
contemplò l’affannato segretario che continuava a scribacchiare
freneticamente. “Non richiede alcuna risposta,” disse; e mentre parlava
gettò il messaggio al segretario attraverso la scrivania, ma il foglio scivolò
sulla superficie levigata e cadde a terra. Peters fece un goffo tentativo per
afferrarlo, ma nel gettarsi di fianco tutta la corrispondenza che teneva sulle
ginocchia gli scivolò sul pavimento. “Scusate, scusate tanto, signore,”
balbettò, balzando su e cercando di raccogliere dozzine di fogli
sparpagliati sul tappeto. “Sono molto spiacente, Mr Thornton,” aggiunse,
radunando contratti, inviti e lettere alla bell’e meglio.
Ma il suo padrone sembrò non udirlo. Stava già dando rapidamente
altre istruzioni e porgendo gli inviti corrispondenti attraverso la scrivania.
“Rifiutate i primi tre, accettate il quarto, rifiutate il quinto. A questo
mandate le mie condoglianze. A questo spiegate che andrò in Scozia, e
invitatelo a raggiungermi, unendo le indicazioni per arrivare al cottage.”
Stringendosi al petto le carte, Peters sollevò la testa oltre il piano della
scrivania. “Sissignore!” disse, cercando di apparire sicuro; ma era difficile,
stando in ginocchio, e ancor più difficile in quanto non era certo a quali
inviti o lettere corrispondessero le istruzioni di quel giorno.
Ian Thornton passò il resto del pomeriggio chiuso nello studio col
segretario, continuando a dettare al malcapitato ormai sopraffatto. Passò la
serata col conte di Melbourne, suo futuro suocero, parlando della stesura
del suo contratto di matrimonio con la figlia di quest’ultimo.
Peters passò parte della serata cercando di sapere dal maggiordomo
quali erano gli inviti che il suo padrone intendeva accettare o rifiutare.
Con l’aiuto del domestico, che all’occasione (cioè sovente) fungeva
anche da palafreniere, Lady Elizabeth Cameron, contessa di Havenhurst,
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smontò dalla vecchia giumenta. “Grazie, Charles,” disse, sorridendo
affettuosamente al vecchio servitore.
In quel momento la giovane contessa non assomigliava affatto
all’immagine convenzionale di una nobildonna, tanto meno di una dama
alla moda. Un fazzoletto azzurro legato sulla nuca le copriva i capelli; il
vestito era semplice, senza guarnizioni, e un po’ fuori moda, e sul braccio
portava un paniere di vimini che usava per fare la spesa al villaggio. Ma né
il vestito modesto, né il vecchio cavallo, né il paniere della spesa potevano
far apparire “qualunque” Elizabeth Cameron. Di sotto il fazzoletto i lucenti
capelli d’oro le sfuggivano in una massa disordinata sulle spalle fino alle
reni; lasciati sciolti, com’erano di solito, incorniciavano un volto di
perfetta bellezza. Gli zigomi un po’ alti erano finemente modellati, la pelle
lattea e splendente di salute, le labbra morbide e generose. Ma ciò che più
colpiva erano gli occhi: sotto le sopracciglia delicatamente arcuate, le
lunghe e folte ciglia frangiavano occhi di un verde vivo e stupefacente, né
nocciola né verde acqua, ma verde intenso; occhi straordinariamente
espressivi, che scintillavano come smeraldi quando era felice, e si
oscuravano quando era pensosa.
Il domestico sbirciò con aria speranzosa il contenuto del paniere,
avvolto nella carta, ma Elizabeth scosse la testa con un sorriso un po’
amaro. “Non ci sono pasticcini lì dentro, Charles. Erano davvero troppo
cari, e Mr Jenkins è stato poco trattabile. Gli ho detto che ne avrei
comprata una dozzina intera, ma non ha voluto ridurre il prezzo di un solo
penny, perciò mi sono rifiutata di comprarne anche uno solo: per principio.
Sai che la settimana scorsa,” raccontò ridendo, “quando mi ha vista entrare
nel negozio si è nascosto dietro il sacco della farina?”
“Che vigliacco!” disse Charles, sogghignando, perché tutti i negozianti
e i commercianti ben sapevano che Elizabeth Cameron tirava sul soldo, e
quando si trattava di contrattare il prezzo, cosa che faceva sempre,
raramente ne uscivano vincitori. In queste transazioni era la sua
intelligenza, non la sua bellezza, che contava, perché non solo era brava a
fare i conti a mente, ma era così dolcemente ragionevole, e così piena di
inventiva nell’esporre le sue ragioni per ottenere un prezzo migliore, che i
suoi avversari ne uscivano tanto stanchi e confusi da finire per darle
ragione.
Le sue preoccupazioni di denaro non si limitavano ai fornitori: a
Havenhurst praticava ogni sorta di economie, ma i suoi metodi
funzionavano. A diciannove anni, con sulle giovani spalle tutto il peso
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della proprietà avita e di diciotto dei novanta servitori originari, riusciva,
con un minimo di aiuto finanziario da parte dello zio riluttante, a fare una
cosa quasi impossibile: tenere Havenhurst lontano dal martello del
banditore d’aste, oltre a nutrire e vestire i servitori rimasti. L’unico “lusso”
che Elizabeth si permetteva era Miss Lucinda Throckmorton-Jones, che un
tempo era stata la sua istitutrice e ora era la sua dama di compagnia, con
uno stipendio ridottissimo. Benché Elizabeth si sentisse perfettamente in
grado di vivere a Havenhurst da sola, sapeva che, se l’avesse fatto, quel
poco di reputazione che le rimaneva sarebbe andato irrimediabilmente
perduto.
Elizabeth porse il paniere al domestico e disse allegramente: “Invece
dei pasticcini ho comprato delle fragole. Mr Thergood è più ragionevole di
Mr Jenkins; lui capisce che, quando si compra un multiplo di qualcosa, è
ovvio pagare meno per ciascuna unità.”
Charles si grattò la testa a questo concetto complicato, ma cercò di aver
l’aria di capire. “Ma certo,” assentì mentre si allontanava, “qualunque
stupido lo capirebbe.”
“È quel che dico io,” disse lei, poi si volse per salire di corsa i gradini
di casa, la mente già rivolta ai suoi registri. Bentner, l’anziano
maggiordomo, spalancò la porta d’ingresso, con i lineamenti grassocci
contratti dall’eccitazione. Con il tono di chi scoppia di gioia ma è troppo
dignitoso per dimostrarlo, annunziò: “C’è una visita, Miss Elizabeth!”
Da un anno e mezzo non c’erano state visite a Havenhurst; non fu
quindi sorprendente che Elizabeth provasse un piacere esagerato, seguito
da imbarazzo. Non poteva essere un altro creditore: li aveva pagati tutti,
spogliando Havenhurst di tutti gli oggetti di valore e di gran parte della
mobilia. “Chi è?” domandò, entrando nell’atrio e portando la mano al capo
per togliersi il fazzoletto.
Un largo sorriso apparve sulla faccia di Bentner. “È Alexandra
Lawrence. Voglio dire Townsende,” si corresse, ricordando che ora la
visitatrice era sposata.
Elizabeth rimase un attimo impietrita da una gioiosa incredulità, poi si
volse e con una corsa poco da signora si precipitò verso il salotto,
togliendosi il fazzoletto. Sulla soglia si fermò di botto, con il fazzoletto che
le pendeva dalla mano, gli occhi fissi sulla bellissima brunetta che se ne
stava in mezzo alla stanza, vestita con un elegante abito rosso da viaggio.
La brunetta si voltò, e le due fanciulle si guardarono, mentre un lento
sorriso spuntava sui loro volti e splendeva loro negli occhi. La voce di
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Elizabeth era un sussurro, pieno di ammirazione incredula e di pura gioia.
“Alex! sei proprio tu?”
La brunetta annuì, sempre più sorridente.
Rimasero ferme, incerte, mentre ciascuna osservava nell’altra i
cambiamenti avvenuti in un anno e mezzo, ognuna domandandosi con un
po’ di apprensione se il cambiamento era troppo profondo. Nella stanza
silenziosa i legami di un’amicizia e di un affetto che risalivano all’infanzia
cominciarono a rinsaldarsi, spingendole avanti con uno, due passi esitanti,
e all’improvviso si corsero incontro, gettandosi le braccia al collo e
stringendosi in un frenetico abbraccio, ridendo e piangendo di gioia.
“Oh, Alex, sei bellissima! E mi sei mancata tanto!” rise Elizabeth,
abbracciandola di nuovo. Per il mondo, “Alex” era Alexandra, duchessa di
Hawthorne, ma per Elizabeth era Alex, la sua più vecchia amica; l’amica
che era partita per un lungo viaggio di nozze, e perciò molto
probabilmente non sapeva ancora in che terribile pasticcio si trovava
Elizabeth.
Traendola verso un divano, Elizabeth si lanciò in un torrente di
domande. “Quando sei ritornata dal viaggio di nozze? Sei felice? Che cosa
ti conduce qui? Quanto ti puoi fermare?”
“Anche tu mi sei mancata,” rispose Alex ridendo, e cominciò a
rispondere con ordine alle domande di Elizabeth. “Siamo ritornati tre
settimane fa. Sono pazzamente felice. Sono venuta per vederti,
naturalmente, e posso fermarmi per qualche giorno, se mi vuoi.”
“Certo che ti voglio,” disse Elizabeth allegramente. “Non ho
assolutamente alcun impegno, eccetto oggi: viene a trovarmi lo zio.” In
realtà, quanto a impegni mondani l’agenda di Elizabeth era completamente
vuota per i prossimi dodici mesi, e le saltuarie visite di suo zio erano
peggio che non aver nulla da fare. Ma ora niente di tutto questo aveva più
importanza; Elizabeth era talmente felice di vedere la sua amica che non
riusciva a smettere di sorridere.
Come solevano fare da ragazzine, le due fanciulle si accoccolarono sul
divano, lasciando cadere le scarpe, e chiacchierarono per ore con la facile
intimità di due anime gemelle separate da anni, ma eternamente unite dai
ricordi d’infanzia, teneri, lieti o tristi. “Potrai mai dimenticare,” chiese
scherzosamente Elizabeth due ore più tardi, “quei meravigliosi tornei da
burla che facevamo a ogni compleanno della famiglia di Mary Ellen?”
“Mai!” esclamò Alex, sorridendo al ricordo.
“Tu mi disarcionavi a ogni incontro,” disse Elizabeth.
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“Sì, ma tu mi vincevi in tutte le gare di tiro, almeno finché i tuoi
genitori lo scoprirono e decisero che eri troppo grande, e troppo raffinata,
per unirti a noi.” Alex si fece seria. “Ci sei mancata molto, da allora.”
“Non quanto tu sei mancata a me. Sapevo sempre il giorno esatto in cui
avevano luogo i tornei, e mi aggiravo tutta malinconica, immaginando
quanto vi stavate divertendo. Poi anche Robert e io decidemmo di fare un
torneo, e vi facemmo partecipare tutti i servitori,” aggiunse ridendo,
mentre pensava al fratellastro e a se stessa in quei giorni lontani.
Dopo un attimo il sorriso di Alex svanì. “Ma dov’è Robert? Non ne hai
parlato affatto.”
“Be’...” esitò, sapendo che non poteva parlare della scomparsa del
fratellastro senza rivelare tutto ciò che l’aveva preceduta. D’altro canto,
c’era qualcosa nello sguardo pieno di simpatia di Alexandra che indusse
Elizabeth a domandarsi se l’amica non conoscesse già tutta la terribile
storia.
Con tono indifferente disse: “Robert è scomparso un anno e mezzo fa.
Credo che il motivo potesse essere... be’, i debiti. Non ne parliamo più,”
aggiunse in fretta.
“Va bene,” assentì Alex con un sorriso un po’ forzato. “Di che cosa
parliamo?”
“Di te,” disse prontamente Elizabeth.
Alex era maggiore di Elizabeth, e il tempo volò mentre parlava
dell’uomo che aveva sposato, e che ovviamente adorava. Elizabeth ascoltò
attentamente le descrizioni dei meravigliosi paesi di tutto il mondo che
avevano visitato durante il viaggio di nozze.
“Parlami di Londra,” disse Elizabeth quando Alex ebbe esaurito le
descrizioni di città straniere.
“Che cosa vuoi sapere?” chiese l’amica, facendosi seria.
Elizabeth si protese in avanti e aprì la bocca per fare le domande che
più le stavano a cuore, ma l’orgoglio le impedì di formularle. “Oh, niente
in particolare,” mentì. Vorrei sapere se i miei amici si burlano di me o mi
condannano; o, peggio, se mi compiangono, pensò. Vorrei sapere se tutti
sanno che sono senza un soldo. Soprattutto, vorrei sapere perché nessuno
di loro si è dato la pena di venirmi a trovare o anche solo di mandarmi un
messaggio.
Un anno e mezzo prima, al suo debutto in società, aveva ottenuto un
successo immediato, e le offerte di matrimonio avevano superato ogni
record. Ora, a diciannove anni, era estromessa da quella stessa società che
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un tempo l’aveva imitata, lodata e vezzeggiata. Elizabeth aveva infranto le
regole, e così facendo era diventata il centro di uno scandalo che si era
propagato nel bel mondo come un incendio.
Guardando un po’ dubbiosa Alexandra, Elizabeth si domandò se in
società si sapesse tutta la storia, o solo lo scandalo; si chiese se ne
parlassero ancora o se la storia fosse stata dimenticata. Alex era partita per
il suo lungo viaggio poco prima che tutto ciò accadesse: chissà se ne aveva
sentito parlare al suo ritorno?
Le domande le turbinavano nella mente, con un disperato bisogno di
essere espresse, ma non osava per due ragioni: anzitutto, le risposte
avrebbero potuto farla piangere, e non voleva assolutamente cedere alle
lacrime. Inoltre, per fare ad Alex le domande che le stavano a cuore,
avrebbe prima dovuto informare l’amica di tutto l’accaduto. Ed Elizabeth
si sentiva troppo sola e derelitta per correre il rischio che anche Alex,
sapendo, potesse abbandonarla.
“Che genere di cose vuoi sapere?” chiese Alex, con un sorriso
volutamente allegro e stereotipato stampato sulla faccia, un sorriso che
voleva nascondere la compassione e il dispiacere che provava per
l’orgogliosa amica.
“Qualunque cosa!” replicò Elizabeth prontamente.
“Ebbene, allora,” cominciò Alex, ansiosa di dissipare l’imbarazzo delle
domande penose e non formulate, “Lord Dusenberry si è fidanzato con
Cecilia Lacroix!”
“Che bello,” replicò Elizabeth con un dolce sorriso e un tono pieno di
gioia sincera. “È tanto ricco, e appartiene a una delle migliori famiglie.”
“È un incorreggibile farfallone e si prenderà un’amante un mese dopo i
voti nuziali,” ribatté Alex, con la schiettezza che aveva sempre
scandalizzato ma divertito Elizabeth.
“Speriamo che tu ti sbagli.”
“Non mi sbaglio. Ma se lo pensi, perché non scommettiamo?” continuò
Alex, così contenta di vedere gli occhi dell’amica riaccendersi di allegria
che parlò senza riflettere. “Diciamo trenta sterline?”
Improvvisamente, Elizabeth non poté più sopportare l’incertezza.
Doveva sapere se Alex era venuta da lei per un senso di lealtà, o perché la
credeva ancora la donna più desiderata di Londra. Piantando gli occhi in
quelli azzurri di Alex, Elizabeth disse con tranquilla dignità: “Non ho
trenta sterline, Alex.”
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Alex sostenne lo sguardo serio, tentando di trattenere le lacrime di
simpatia. “Lo so.” Elizabeth aveva imparato ad affrontare le continue
avversità, a nascondere la paura e a tenere la testa alta. Ora, di fronte a
tanta gentilezza e lealtà, quasi cedette alle odiate lacrime che la tragedia
non era riuscita a strapparle. Stentando a formulare le parole, con la gola
chiusa dalle lacrime, Elizabeth disse umilmente: “Grazie.”
“Non c’è di che ringraziarmi: ho sentito tutta quella sordida storia e non
ne ho creduta una parola. Inoltre, voglio che tu venga a stare da noi a
Londra durante la stagione.” Alex si protese a prenderle una mano. “Per la
tua dignità, devi affrontarli tutti. Ti aiuterò io; meglio ancora, convincerò
la nonna di mio marito a darti il suo autorevole appoggio. Credimi,”
terminò Alex con un sorriso affettuoso, “nessuno oserà ignorarti se avrai
alle spalle la duchessa madre di Hawthorne.”
“Ti prego, Alex, aspetta. Non sai che cosa stai dicendo! Anche se fossi
d’accordo, e non lo sono, lei non accetterebbe mai. Io non la conosco, ma
certo lei saprà tutto di me; quello che dice di me la gente, voglio dire.”
Alex sostenne il suo sguardo con fermezza. “Hai ragione su un punto:
ha sentito i pettegolezzi mentre io ero via. Però ne ho parlato con lei, ed è
disposta a vederti e poi a decidere in merito. Ma ti vorrà bene, come te ne
voglio io; e allora muoverà mari e monti per obbligare la buona società ad
accettarti.”
Elizabeth scosse il capo, inghiottendo un nodo alla gola, in parte di
gratitudine, in parte di umiliazione. “Ti sono molto grata, davvero, ma non
potrei sopportarlo.”
“Ormai ho preso la mia decisione,” la mise gentilmente in guardia
Alex. “Mio marito rispetta le mie opinioni, e sarà d’accordo con me, ne
sono certa. Quanto ai vestiti per la stagione mondana, ne ho tanti che non
ho mai messo: ti presterò... “
“No, assolutamente!” esclamò Elizabeth. “Ti prego, Alex,” implorò,
rendendosi conto di apparire ingrata. “Lasciami almeno un po’ di orgoglio!
E poi,” aggiunse con un dolce sorriso, “non sono poi tanto sfortunata
quanto credi: ho te, e ho Havenhurst.”