nonostante i tantissimi impegni e la scuola sono riuscita a leggere vari libri, compreso il romanzo di cui vorrei parlarvi oggi. Il libro , in questione, si intitola "
. Il racconto narra la difficilile esperienza di una famiglia divisa tra la laucemia di una figlia e il difficile adattamento dell'altra loro figlia.
Questo libro ha superato ogni mia aspettativa. All'inizio credevo già di aver intuito il finale della storia e, invece, mi sono dovuta ricredere su tutto.
e questo permette al lettore di conoscere i loro stati d'animo, segreti, paure ed emozioni.
: Kate, malata di leucemia, tiene duro ogni giorno per non arrendersi alla malattia che tenta di distruggerla per non ferire la madre; Sara la mamma di Kate, Anna e Jesse si cura di tutte e tre i suoi figli senza fare alcuna preferenza tra i tre, Brian il padre ,essendo un vigile del fuoco, salva dei civili ogni giorno e il suo lavoro è l'unica ancora di salvezza che conosce per estraniarsi dal dolore della possibile ,quasi certa, perdita della figlia; Jesse è un ragazzo abbandonato a sè stesso che fa uso di droga e appicca il fuoco a edifici abbandonati per sentirsi vivo, per sentirsi partecipe di qualcosa ; Anna è una ragazzina di tredici anni messa al mondo esclusivamente per salvare la sorella, costretta fin da piccola a sottoporsi a visite mediche e interventi chigurgici. Finchè a un certo punto trova la forza di dire "basta", si ribella e denuncia i genitori. A questo punto vengono introdotti all'interno della vicenda altri due personaggio Alexander Campbell e Julia. Il rispettivo avvocato e il tutore ad litem di Anna. Un uomo chiuso in se stesso, timoroso di qualsiasi legame affetivo e con una grave disturbo fisico. Una donna perdutamente innamorata fin dalle superiori di Campbell , estroversa, dolce e allo stesso tempo tenace e combattiva. Due persone, relativamente diverse, ma che insieme scopriranno il valore dell'amore vero e si ritroveranno dopo anni di sofferenza.
Un romanzo che scava dentro ogni personaggio e piano piano riesce a scavare anche dentro di noi alla ricerca di un ancora di salvezza, di un salvaggente perchè come leggerete o avrete letto le vite di Anna e Kate sono irreparabilmente legate e l'una non può vive se l'altra non muore.
Personaggi che chiedono supporto, aiuto e l'assunzione da ogni colpa. Il lettore vinto dalla vicenda non può far altro che compatire tutti quanti perchè come Sara e Brian nulla può contro l'inevitabile. Una storia ricca di timore, sofferenza, sacrificio e tanto tanto amore. Il legame che uniche le due sorelle è così forte e indissolubile da sfidare e andare oltre la morte. Una storia commovente e traggica in cui il fato la fa da padrone.
. Purtroppo non ho avuto la possibilità di vedere la pellicola, ma da quanto mi è stato detto
. Inoltre se lo avessi visto sarei rimasta anche un pò delusa dal finale scontato e superficiale del film.
Non vi consiglierò di leggerlo poichè sarebbe banale scriverlo, ma vi dico soltanto una cosa, grazie alla lettura di questo libro ho capito quanto sia importante e bella la vita. Mi sono resa realmente conto di quanto deve combattere e subire un bambino/a malato di leucemia e dopo molte riflessioni ho preso la decisione di oltre a donare il sangue, di donare anche il midollo osseo. Vi dirò, la cosa mi spaventa notevolmente ed ho paura di provare dolore, ma sapere che un bambino si è può salvare grazie a me, è il regalo di una vita proprio perchè il regalo è la vita stessa.
Su richiesta di alcuni lettori abbiamo deciso di introdurre in ogni recensione l'estratto del primo capitolo. Per permettere al lettore di capire se il libro gli possa piacere o meno.
Nel mio primo ricordo, ho tre anni e sto tentando di uccidere mia sorella. Talvolta l’immagine è così nitida che sento ancora la federa ruvida sotto la mia mano, la punta affilata del suo naso che preme contro il mio palmo. Non aveva la minima probabilità di scamparla, ovviamente, eppure non funzionò. Entrò mio padre per rimboccarci le coperte e la salvò. Mi ricondusse a letto. «Faremo come se non fosse mai accaduto», mi disse. Crescevamo, e sembrava che io non esistessi, se non in relazione a lei. La guardavo dormire nella nostra stanza, un’unica lunga ombra congiungeva i nostri letti, e pensavo a tutti i modi possibili. Veleno, sparso sui cereali della colazione. Un’onda anomala sulla spiaggia. Un fulmine improvviso. Ma alla fine non uccisi mia sorella. Lei fece tutto da sola. O, almeno, è quello che mi racconto.
Quand’ero piccola, il grande mistero, per me, non era come nascono i bambini, ma perché. Il meccanismo mi era chiaro, me l’aveva spiegato mio fratello Jesse, più grande di me, ma a quell’epoca ero convinta che avesse capito male, almeno in parte. I miei coetanei si affrettavano a cercare sul vocabolario di classe le parole pene e vagina non appena l’insegnante si voltava, ma io avevo in mente altri quesiti. Perché certe madri avevano un bambino solo, perché altre invece sembravano riprodursi sotto i miei occhi. E perché mai la ragazza nuova della scuola, Sedona, andava dicendo a tutti quelli che avevano voglia di ascoltarla che le avevano dato il nome del luogo in cui i suoi genitori erano in vacanza quando l’avevano concepita («Buon per lei che non fossero a Jersey City», commentava sempre mio padre). Ora che ho tredici anni queste distinzioni sono diventate ancora più complicate: l’alunna di ottava che era stata espulsa dalla scuola perché si era cacciata nei guai; una vicina di casa che si era fatta mettere incinta nella speranza che suo marito desistesse dal chiedere il divorzio. Credetemi, se gli alieni arrivassero sulla terra oggi e cercassero di capire perché nascono i bambini, giungerebbero alla conclusione che la maggior parte della gente mette al mondo un figlio per caso, o perché una certa sera ha bevuto troppo, o perché il controllo delle nascite non è sicuro al cento per cento, o per mille altre ragioni non proprio lodevoli. Io, invece, ero nata con uno scopo ben preciso. Non ero il risultato di una bottiglia di vino da poco o della luna piena o di un entusiasmo momentaneo. Ero nata perché uno scienziato era riuscito a mettere insieme gli ovuli di mia madre e lo sperma di mio padre per ottenere una certa combinazione di prezioso materiale genetico. In realtà, quando Jesse mi spiegò come nascono i bambini e io, ostinata miscredente, decisi di chiedere la verità ai miei genitori, ottenni più di quanto mi aspettassi. Mi fecero sedere e mi dissero tutte le solite cose, naturalmente, ma mi spiegarono anche che avevano voluto il mio piccolo embrione, quello e non uno qualsiasi, perché poteva salvare mia sorella Kate. «Ti abbiamo amato ancora di più», mi rassicurò mia madre, «perché sapevamo esattamente quello che volevamo.» Mi ritrovai a domandarmi, tuttavia, che cosa sarebbe accaduto se Kate fosse stata sana. Forse sarei rimasta a fluttuare nel cielo o da qualche altra parte, in attesa di agganciare un corpo con cui passare del tempo sulla terra. Sicuramente non avrei fatto parte di quella famiglia. A differenza degli altri esseri liberi, infatti, io non ero nata per caso. E se i vostri genitori vi hanno messo al mondo per una ragione, è meglio che quella ragione continui a esistere, perché se mai se ne andasse, voi fareste la stessa fine. Può darsi che i banchi dei pegni siano pieni di ciarpame, ma sono anche un terreno fertile per le storie, se vi incuriosiscono. Che cosa sarà mai accaduto per indurre una persona a dare in pegno il Prezioso Solitario Mai Portato Prima? E chi poteva avere un bisogno così terribile di denaro da vendere un orsacchiotto senza un occhio? Mentre mi avvicinavo al bancone, mi domandavo se qualcuno, vedendo il ciondolo che stavo per impegnare, si sarebbe posto le medesime domande. L’uomo alla cassa ha un naso a forma di cipolla e i suoi occhi sono così infossati che non riesco a capire come possa vederci abbastanza da continuare a fare il suo lavoro. «Ti serve qualcosa?» domanda. Non voltarmi e non uscire fingendo di essere entrata per sbaglio è il massimo che posso fare. L’unico pensiero che mi trattiene è che non sono la prima persona al mondo a stare lì di fronte al bancone con in mano qualcosa da cui non avrei mai pensato di separarmi. «Ho qualcosa da vendere», rispondo. «Devo indovinare cos’è?» «Oh.» Deglutendo, tiro fuori il ciondolo dalla tasca dei jeans. Il cuore cade sul banco di vetro in una pozza formata dalla sua stessa catenina. «È oro a 14 carati», butto lì. «Quasi mai portato.» Bugia. Me lo sono tolto per la prima volta questa mattina dopo sette anni. Me l’aveva regalato mio padre quando avevo sei anni, dopo il trapianto del midollo osseo, spiegando che il mio dono a mia sorella era stato talmente grande che ne meritavo uno anch’io. Vedendolo lì, sul bancone, sento il collo nudo, e rabbrividisco. Il proprietario si mette una lente sull’occhio. «Posso darti venti.» «Dollari?» «No, pesos. Quanto ti aspettavi?» «Vale cinque volte tanto!» azzardo. Il proprietario si stringe nelle spalle. «Non sono io che ho bisogno di denaro.» Prendo il ciondolo, rassegnata a concludere la trattativa, e intanto accade qualcosa di molto strano: la mia mano si chiude stretta, come l’attrezzatura per tagliare le lamiere. Divento rossa in volto per lo sforzo di schiudere le dita. Mi sembra che passi un’ora prima che io riesca a lasciar cadere il ciondolo nel palmo della mano del proprietario. Mi guarda, e i suoi occhi ora sono più indulgenti. «Digli che l’hai perso», suggerisce, fornendomi un consiglio gratis. Se il signor Webster avesse deciso di includere la parola freak1 nel suo dizionario, Anna Fitzgerald sarebbe stata la definizione migliore che avrebbe potuto darne. Non potrebbe essere più azzeccata: pelle e ossa, senz’ombra di seno, capelli color sporco, sulle guance lentiggini tipo «congiungi i puntini» che, lasciatemelo dire, non si schiariscono né con il succo di limone né con la protezione solare e neppure, sfortunatamente, con la carta vetrata. No, a quanto pare Dio doveva essere di un umore davvero terribile il giorno della mia nascita, perché inserì questa favolosa combinazione fisica in una cornice che non era certo da meno: la mia famiglia. I miei genitori cercavano di vivere normalmente, ma era una normalità per modo di dire. In realtà, io non sono mai stata bambina. Per la verità, neppure Kate e Jesse lo 1 In questa accezione: «scherzo di natura». (N.d.T.) sono mai stati. Posso immaginare che mio fratello abbia vissuto il suo momento d’oro da zero a quattro anni, prima che a Kate fosse diagnosticata la sua malattia, ma da quel momento in poi fummo sempre troppo occupati a guardarci le spalle mentre crescevamo a gran velocità. Tanti bambini credono di essere personaggi dei cartoni animati: se una tegola sta per cadere sulla loro testa, fanno sempre in tempo a spostarsi. Be’, io non ci ho mai creduto. Come avrei potuto, dal momento che la Morte sedeva a tavola con noi tutti i giorni? Kate ha la leucemia acuta promielocitica (LAP). In realtà non è proprio così: in questo momento non ce l’ha, ma la tiene in ibernazione sotto la pelle come un orso, finché deciderà di ruggire ancora. Le parole recidiva molecolare, granulociti e catetere portatile fanno parte del mio vocabolario, anche se non le troverò mai su nessun SAT.2 Sono un donatore allogenico, una sorella perfettamente compatibile. Quando Kate ha bisogno di leucociti o di cellule staminali o di midollo osseo per far credere al suo corpo di essere sano, sono io a procurarglieli. Quasi tutte le volte che Kate va in ospedale, io la seguo a ruota. Questo non significa niente, tranne che farete bene a non credere a quello che sentite dire sul mio conto, e tanto meno a quello che vi dirò io. Mentre salgo le scale, mia madre esce dalla sua stanza con indosso un altro abito da ballo. «Ah», esclama, voltandomi le spalle. «Cercavo proprio te.» Le chiudo la cerniera lampo e la guardo piroettare. Mia madre potrebbe essere bellissima, se fosse paracadutata nella vita di qualcun altro. Ha lunghi capelli scuri e un collo sottile da principessa, ma ha gli angoli della bocca rivolti verso il basso, come se avesse appena inghiottito una brutta notizia. Non dispone di molto tempo libero, dal momento che la sua agenda può cambiare radicalmente se mia sorella si fa male o se le esce sangue dal naso, ma spende tutto quello che ha su Bluefly.com, ordinando abiti da sera ridicolmente elaborati per andare in posti dove non andrà mai. «Che cosa ne pensi?» mi domanda. La gonna ha tutte le sfumature di un tramonto ed è fatta di un tessuto frusciarne che sottolinea ogni suo movimento. Il vestito è senza spalline, un abito da star che cammina scioltamente su un tappeto rosso... decisamente non il genere di vestito adatto a una casa di periferia in Upper Darby, Rhode Island. Mia madre si intreccia i capelli e se li sistema in una crocchia. Sul suo letto ci sono altri tre abiti: uno nero attillato, uno adorno di perline di vetro, e uno che appare incredibilmente piccolo. «Sembri...» Stanca. La parola mi affiora alle labbra, ma non esce. Mia madre rimane impassibile, e mi domando se l’ho detto senza volerlo. Alza una mano come per farmi star zitta, l’orecchio teso verso la porta aperta. «Hai sentito?» «Sentito cosa?» «Kate.» «Non ho sentito niente.» Ma lei non dà peso alle mie parole, perché quando si tratta di Kate non ascolta nessuno. Sale al piano di sopra e apre la porta della nostra stanza: mia sorella si agita istericamente sul letto, e ancora una volta il mondo crolla. Mio padre, che si diletta di 2 SAT: Sophomore Adtnission Test, test di ammissione per le matricole universitarie. (N.d.T.) astronomia, ha cercato di spiegarci che cosa sono i buchi neri e perché sono così pesanti da assorbire nel loro centro ogni cosa, anche la luce. In momenti come questo riconosco lo stesso genere di vuoto: a qualsiasi cosa mi aggrappi, verrò risucchiata ugualmente. «Kate!» Mia madre si inginocchia sul pavimento, con quella stupida gonna che sembra avvolgerla come una nuvola. «Kate, tesoro, cosa c’è?» Kate stringe un cuscino sullo stomaco, e le lacrime sgorgano di continuo dai suoi occhi. Ha i capelli chiari incollati al viso, umidi, e il suo respiro è carico di tensione. Rimango impietrita sulla porta della stanza, in attesa di istruzioni: Chiama papà. Chiama il 113. Chiama il dottor Chance. Mia madre si mette a scuotere Kate come per farne uscire una spiegazione più convincente. «Preston», singhiozza lei. «Lascia Serena sul serio.» In quel momento ci accorgiamo della TV. Sullo schermo, un ragazzo biondo, bellissimo, lancia uno sguardo di desiderio a una donna che piange forte quasi come mia sorella, poi si chiude la porta alle spalle. «Ma perché ti disperi?» domanda mia madre, sicura che debba esserci un altro motivo. «Oh mio Dio», fa Kate, singhiozzando. «Hai idea di quante ne abbiano passate insieme Serena e Preston? Ce l’hai?» L’agitazione dentro di me si placa, ora so che va tutto bene. Normale, in casa nostra, è come un lenzuolo troppo corto per un letto... a volte riuscite a coprirvi a sufficienza, a volte rimanete scoperti e avete freddo. Ma la cosa peggiore è che non sapete mai come andrà questa volta. Mi siedo ai piedi del letto di Kate. Pur avendo solo tredici anni, sono più alta di lei e certe volte la gente mi scambia erroneamente per la maggiore. Quest’estate, in periodi diversi, si è innamorata di Callahan, di Wyatt e di Liam, i protagonisti maschili di questa soap. Immagino che ora sia venuto il turno di Preston. «C’era stata la paura del rapimento», provo a suggerire. In effetti conosco la storia, perché Kate mi ha fatto registrare il programma durante le sue sedute di dialisi. «E quella volta, quando lei stava per sposare il suo gemello per sbaglio», aggiunge Kate. «E non dimenticare quando lui morì nell’incidente in barca. Anche se dopo due mesi è tornato...» dice mia madre unendosi alla conversazione, e mi viene in mente che anche lei ha l’abitudine di guardare questa soap, seduta vicino a Kate all’ospedale. Per la prima volta, Kate sembra accorgersi dell’abbigliamento di mia madre. «Che cosa ti sei messa?» «Oh, lo rispedirò al mittente.» Si alza in piedi e si mette davanti a me perché io possa abbassarle la cerniera. Per qualsiasi altra madre, questa compulsione all’acquisto per corrispondenza sarebbe un campanello d’allarme, il segnale che c’è bisogno di andare in terapia, mentre per mia madre probabilmente è un diversivo salutare. Mi domando se sia il fatto di infilarsi nei panni di qualcun altro a piacerle tanto, oppure se l’attragga la possibilità di rispedire al mittente una circostanza non adatta a lei. «Sei sicura di non avere male da nessuna parte?» Quando mia madre esce dalla stanza, Kate sembra affondare. È il solo modo per descriverla: in un istante il suo volto impallidisce, e lei sembra scomparire in mezzo ai cuscini. Quando è sofferente sembra che sbiadisca, e io temo, un giorno o l’altro, di svegliarmi e di non riuscire più a vederla. «Spostati», ordina Kate. «Copri l’immagine.» Vado a sedermi sul mio letto. «È solo il prossimamente.» «Be’, se muoio stanotte voglio sapere cosa mi perdo.» Mi sistemo i cuscini sotto la testa. Kate, come al solito, si è presa tutti quelli più cicciosi, che non sembrano come pietre sotto il collo. È sottinteso che è un suo diritto, perché ha tre anni più di me o perché è malata o perché la Luna è in Acquario... un motivo c’è sempre. Do un’occhiata al televisore, e avrei voglia di fare un po’ di zapping, ma so di non avere la minima chance. «Preston sembra fatto di plastica.» «E allora perché la notte scorsa sussurravi il suo nome nel cuscino?» «Sta’ zitta», ribatto. «Sta’ zitta tu.» Poi Kate mi sorride. «In ogni caso, probabilmente è gay. Che spreco... considerando che le sorelle Fitzgerald sono...» Sussultando, si interrompe a metà della frase, e io mi volto verso di lei. «Kate?» Si strofina la parte bassa della schiena. «Non è niente.» Sono i reni. «Vuoi che chiami la mamma?» «Per il momento no.» Tende una mano verso il mio letto, abbastanza vicino da permetterle di raggiungermi. Anch’io allungo la mano. Quando eravamo piccole fingevamo che le nostre mani formassero un ponte per vedere quante Barbie potevano starci sopra in equilibrio. Ultimamente, continuo ad avere incubi in cui finisco per essere fatta a pezzi, in tanti pezzi così piccoli che non rimane abbastanza, di me, per rimettermi insieme. Mio padre dice che un incendio si spegne da solo se non lo si alimenta aprendo una finestra. Probabilmente è quello che faccio io, mentre gli altri fanno di tutto per spegnerlo. Ma mio padre dice anche che quando le fiamme vi lambiscono i talloni, dovete spezzare un muro o due per riuscire a fuggire. Perciò, quando Kate si addormenta di un sonno indotto dalle sue medicine, prendo la piccola borsa di cuoio che tengo tra il mio materasso e la rete e vado in bagno a cercare un po’ di privacy. So che Kate ficca il naso nella roba altrui... ho messo un filo rosso tra i denti della cerniera per sapere chi viene a curiosare tra le mie cose senza il mio permesso, ma, benché il filo sia strappato, dentro non manca niente. Faccio scorrere l’acqua nella vasca così sembra che io sia lì per fare il bagno, e mi siedo sul pavimento a contare. Aggiungendo i venti dollari del banco dei pegni, ho 136,87 dollari. Non saranno certo sufficienti, ma dovrà pur esserci un modo per risolvere la situazione. Jesse non aveva 2900 dollari quando comprò la sua jeep di seconda mano, ma la banca gli fece una specie di prestito. Ovviamente i miei genitori avevano dovuto firmare certe carte, e dubito che avranno voglia di fare la stessa cosa per me, date le circostanze. Conto il denaro una seconda volta, non si sa mai, magari la banconote si sono miracolosamente moltiplicate, ma la matematica non è un’opinione e il totale rimane il medesimo. Mi metto a leggere i ritagli di giornale. Campbell Alexander. Secondo me è un nome stupido. Suona come il nome di un cocktail troppo costoso, o come il titolo di un film su commissione. Ma il suo curriculum è di tutto rispetto. Per raggiungere la stanza di mio fratello bisogna uscire di casa, ed è proprio questo che gli piace. Jesse si trasferì nella soffitta sopra il garage quando compì sedici anni: una sistemazione ideale, dal momento che non voleva che i miei genitori vedessero che cosa faceva e i miei genitori, da parte loro, preferivano non vedere. L’ingresso dalle scale è bloccato da quattro completi da neve, un piccolo muro di scatole di cartone e un banco di quercia inclinato su un lato. A volte penso che Jesse innalzi questi ostacoli anche per se stesso, soltanto per il gusto di mettersi alla prova. Striscio sopra quel caos e salgo le scale, che vibrano con la musica proveniente dallo stereo di Jesse. Passano quasi cinque minuti prima che mi senta bussare. «Cosa c’è?» domanda in tono brusco, aprendo la porta di schianto. «Posso entrare?» Ci pensa su due volte, poi fa un passo indietro per lasciarmi passare. La stanza è un mare di vestiti sporchi, di riviste e confezioni vuote di takeaway cinesi. Puzza come la linguetta sudata di un pattino da hockey. L’unico angolo in ordine è il ripiano su cui Jesse tiene la sua collezione speciale: una mascotte argentata della Jaguar, un simbolo della Mercedes, un cavallo della Mustang, tutti stemmi che mi diceva di aver trovato in giro, ma io non ero certo così tonta da credergli. Non fraintendetemi: non è che ai miei genitori non importi di Jesse o degli eventuali guai in cui potrebbe andare a cacciarsi. Semplicemente non hanno il tempo di pensarci, perché questo problema si colloca più in basso di altri sul palo totemico. Jesse mi ignora, e ritorna a qualcosa che stava facendo nel punto più lontano di quella confusione. La mia attenzione è attratta da una pentola di terracotta, scomparsa dalla cucina alcuni mesi fa, che ora si trova sopra il televisore di Jesse con un tubo di rame avvolto intorno al bordo che scende in un bricco di plastica per il latte pieno di ghiaccio e che termina in un barattolo di vetro da marmellata. Jesse potrà anche essere un delinquente borderline, ma è geniale. Faccio per toccare quello strano congegno, ma Jesse si volta. «Ehi!» Si slancia sopra il divano in tempo per allontanare la mia mano. «Rischi di rovinare la serpentina di condensa.» «È quello che penso?» Sulla sua faccia compare un ghigno sarcastico. «Dipende da quello che pensi.» Allontana con una spinta il barattolo, e il liquido gocciola sul tappeto. «Assaggia.» Per essere un distillatore tenuto insieme con lo sputo, produce un whisky di contrabbando potente. Immediatamente nella mia pancia e nelle mie gambe si scatena l’inferno. Cado all’indietro sul divano. Per quasi un minuto rimango senza voce. Poi ansimo: «Disgustoso». Jesse ride e ne beve anche lui un sorso, ma per lui è più facile mandarlo giù. «E allora, che cosa vuoi da me?» «Come fai a sapere che voglio qualcosa?» «Perché nessuno viene fin quassù per una visita di cortesia», replica sedendosi su un bracciolo del divano. «E se si trattasse di Kate, me l’avresti già detto.» «E invece si tratta proprio di Kate. In un certo senso.» Ficco in mano a mio fratello i ritagli di giornale: spiegheranno la situazione molto meglio di quanto io possa fare. Li scorre, poi mi guarda dritto negli occhi. I suoi sono di un grigio argento così chiaro che a volte, quando ti fissa, rischi di dimenticare completamente quello che volevi dire. «Non provare a cambiare il sistema, Anna», mi dice amaramente. «Ciascuno di noi ha il proprio copione già scritto. Kate recita la parte della Martire. Io sono la Causa Persa. E tu, tu sei la Custode della Pace.» Crede di conoscermi, ma anch’io conosco lui... e davanti alla possibilità di uno scontro, Jesse è come un drogato, non può farne a meno. Lo guardo dritto in faccia: «Scommettiamo che non è così?» Jesse acconsente ad aspettarmi nel parcheggio. Per quel che ricordo, è una delle rare volte in cui accetta di fare quello che gli chiedo. Mi avvio verso il palazzo, che ha due doccioni che sembrano fare la guardia all’entrata. Studio del signor Campbell Alexander, terzo piano. Le pareti sono rivestite di legno color castagna, e il tappeto orientale sul pavimento è talmente folto che le mie scarpe da ginnastica vi affondano di un paio di centimetri. La segretaria indossa un paio di décolleté così lucide che mi ci specchio dentro. Guardo di sfuggita i miei pantaloni sfrangiati e le scarpe da bambino che la settimana scorsa ho pitturato con gli evidenziatori Magic in un momento di noia. La segretaria ha una pelle perfetta, sopracciglia perfette e labbra lucide che usa per urlare improperi a qualcuno al telefono. «Non puoi aspettarti che io lo dica davanti a un giudice. Solo perché tu non vuoi sentir strepitare Kleman, non significa che io debba... no, sul serio, quell’aumento era per gli straordinari che faccio e per tutta la merda con cui devo vedermela quotidianamente, è un dato di fatto che mentre noi...» Poiché tiene il telefono staccato dall’orecchio, sento il rumore della chiamata che si interrompe. «Bastardo», mormora, poi sembra rendersi conto che sono lì a pochi metri da lei. «Posso aiutarla?» Mi squadra dalla testa ai piedi, come per avere una prima impressione, e ha tutta l’aria di non trovarmi all’altezza della situazione. Sollevo il mento e fingo di essere molto più distaccata di quanto non mi senta. «Ho un appuntamento con il signor Alexander. Alle quattro.» «La sua voce», osserva. «Al telefono non sembrava così...» Giovane? Sorride infastidita. «Di solito non trattiamo casi riguardanti minorenni. Se vuole posso darle il nome di un praticante che...» Inspiro profondamente. «Credo che si sbagli», la interrompo. «Che si trattasse di Smith vs. Whately, di Edmunds vs. l’ospedale per le donne e i bambini, di Jerome vs. la diocesi di Providence, le parti in causa erano sempre sotto i diciotto anni. E tutti e tre i casi erano affidati al signor Alexander. Soltanto un anno fa.» La segretaria mi guarda attonita. Poi un sorriso le compare lentamente sul volto, come se avesse deciso, dopo tutto, di compiacermi. «A proposito, vuole aspettare nel suo studio?» mi dice, alzandosi per farmi strada. Anche se trascorressi ogni minuto della mia vita a leggere, non credo che riuscirei a venire a capo dell’incredibile numero di parole che tappezzano da cima a fondo le pareti dello studio legale di Campbell Alexander. La matematica non è un’opinione: se su ogni pagina ci sono 400 parole, e se ciascun libro di legge include 400 pagine, e ce ne sono venti per scaffale e sei scaffali per ogni libreria... bene, ci sono diciannove milioni di parole, e questa è soltanto una parte della stanza. Rimango sola nello studio abbastanza a lungo da poter osservare che la sua scrivania è così ordinata che ci si potrebbe giocare a subbuteo; che non c’è una sola foto di una moglie o di un figlio e neppure di lui; e che sebbene nella stanza non ci sia niente fuori posto, c’è una tazza piena d’acqua sul pavimento. Mi sorprendo a fare ipotesi: è una piscina per un esercito di formiche. È una specie di umidificatore primitivo. È un miraggio. Proprio quando sono sul punto di optare per quest’ultima ipotesi e allungo la mano per toccare la tazza e vedere se è vera, la porta si apre di scatto. Quasi cado dalla sedia e mi trovo faccia a faccia con il pastore tedesco che entra, mi trafigge con un’occhiata e poi si avvia verso la tazza e incomincia a bere. Entra anche Campbell Alexander. Ha i capelli neri ed è alto almeno quanto mio padre – un metro e ottanta. Ha la mascella squadrata e occhi che raggelano. Si toglie la giacca e l’appende ordinatamente sul retro della porta, quindi tira fuori con piglio energico una cartella da un armadio e si avvia alla scrivania. Senza mai guardarmi, incomincia a parlare. «Non compro i biscotti dei boy scout», dichiara Campbell Alexander. «Anche se ti meriteresti i punti dei Brownie per la tua tenacia.» Sorride della sua battuta. «Non ho niente da vendere.» Mi osserva con una certa curiosità, poi preme un tasto del telefono. «Kerri», dice quando la segretaria risponde. «Che cosa ci fa questa qui nel mio studio?» «Sono venuta per chiederle di diventare il mio legale.» L’avvocato lascia perdere il telefono. «Non credo proprio.» «Ma non sa neppure il motivo.» Faccio un passo avanti. Il cane mi imita. E in quel momento mi accorgo che ha uno di quei pettorali con la croce rossa, come un San Bernardo che porta il rum su una montagna coperta di neve. Istintivamente allungo la mano per accarezzarlo. «No», interviene Alexander. «Judge è un cane guida.» Ritraggo la mano. «Ma lei non è cieco.» «Grazie per avermelo fatto notare.» «E allora che cos’ha?» Non ho ancora finito la frase che già vorrei non averla pronunciata. Ho sentito centinaia di volte questa domanda rivolta a Kate da gente sgarbata. «Ho un polmone d’acciaio», taglia corto Campbell Alexander, «e il cane mi aiuta a non avvicinarmi troppo ai campi magnetici. Ora, se vuoi farmi l’immensa cortesia di lasciarmi, la mia segretaria può trovarti il nome di qualcuno che...» Ma io non me ne vado. «Ha veramente fatto causa a Dio?» Tiro fuori tutti i ritagli di giornale e li dispiego sulla superficie nuda della scrivania. Un tic gli contrae la guancia, poi prende l’articolo che sta sopra agli altri. «Ho fatto causa alla diocesi di Providence, a favore di un ragazzo di uno dei loro orfanotrofi che aveva bisogno di una cura sperimentale a base di tessuto fetale, terapia che a loro avviso era contro il Concilio Vaticano II. Tuttavia, sarebbe più corretto un titolo che dicesse che un bambino di nove anni ha fatto causa a Dio per aver pescato il bastoncino più corto al gioco della vita.» Lo guardo fisso. «Dylan Jerome», dichiara l’avvocato, «voleva denunciare Dio perché non si occupava a sufficienza di lui.» Per me è come se un arcobaleno fosse spuntato sopra quella scrivania di mogano. «Signor Alexander», dico, «mia sorella ha la leucemia.» «Mi dispiace molto. Ma anche se volessi riprovare a litigare con Dio, e non ho alcuna intenzione di farlo, tu non potresti intentare una causa in difesa di qualcun altro.» Ci sono troppe cose da spiegare: il mio sangue che scorre nelle vene di mia sorella; le infermiere che mi tenevano ferma per prendermi i globuli bianchi che potevano servire a mia sorella; il medico che diceva che non ne avevano prelevati a sufficienza la prima volta. I lividi e il dolore sordo alle ossa dopo il prelievo del midollo; le iniezioni che sparavano dentro di me altre cellule staminali, così ce ne sarebbero state di più per mia sorella. Il fatto che io non sono malata, ma che potrei anche ammalarmi. Il fatto che sono nata per il solo motivo di fungere da terreno fertile per Kate. Il fatto che ancora una volta è stata presa una decisione importante che mi riguarda, e nessuno si è preso il disturbo di chiedere quale sia la sua opinione alla persona che vi si trova maggiormente coinvolta. Ci sono troppe cose da spiegare, perciò faccio quello che posso. «Non si tratta di Dio. Si tratta solo dei miei genitori», ribatto. «Voglio intentare causa contro di loro per riprendermi i diritti sul mio corpo.»