I capitolo:
IMMAGINIAMO di essere seduti, voi e io, in una stanza silenziosa
affacciata su un giardino, a parlare del più e del meno e a sorseggiare
una tazza di tè verde, e che il discorso cada su un fatto
avvenuto tanto tempo prima e che io vi dica: «Il pomeriggio in
cui incontrai quell'uomo... fu il più bello della mia vita, e anche
il più brutto». Sono convinta che mettereste giù la vostra tazza
e replichereste: «Be', com'è possibile? Era il più bello od il più
brutto? Una cosa esclude l'altra!» Di solito riderei di me stessa,
dichiarandomi d'accordo con voi, ma la verità è che il pomeriggio
in cui incontrai il signor Tanaka Ichiro fu al tempo stesso il
migliore ed il peggiore della mia vita. Mi era sembrato un uomo
così affascinante che persino il sentore di pesce che proveniva
dalle sue mani aveva un che di profumato. Ma, se non l'avessi
conosciuto, sono sicura che non avrei mai fatto la geisha.
Nulla, nella mia nascita e nel modo in cui sono stata allevata,
poteva lasciar presagire che sarei diventata una geisha di Kyoto.
Non sono neppure nata a Kyoto. Sono la figlia di un pescatore
che abitava in un villaggio chiamato Yoroido, sulle rive del mar
del Giappone. In tutta la mia esistenza sono ben poche le persone
alle quali ho parlato di Yoroido, o della casa in cui sono
nata, o di mio padre e di mia madre, o di mia sorella, di qualche
anno maggiore di me... e certamente non ho mai raccontato come
sono diventata geisha o che cosa voglia dire esserlo. Lascio
che la maggior parte della gente si immagini che anche mia madre
e mia nonna fossero geishe e che, non appena il periodo del
mio svezzamento si era concluso, già io venissi istruita nell'arte
della danza, o cose dî questo genere. Ricordo che un giorno di
molti anni fa, mentre stavo versando una tazza di saké a un uomo,
costui disse casualmente che la settimana prima era stato a
Yoroido. Be', mi sentii come un uccello che, dopo aver attraversato
a volo l'oceano, incontra una creatura che conosce il suo
nido. Ne fui così sconvolta che non riuscii a trattenermi dall'esclamare:
«Yoroido! E' lì che sono nata e cresciuta!»
Quel poveretto! Sul suo viso passarono le più straordinarie e
mutevoli espressioni. Fece del suo meglio per sorridere, ma più
che un sorriso era una smorfia perché non riusciva a cancellare
lo shock che gli si era dipinto in faccia.
«Yoroido?» disse. «Non può essere!»
Da tempo mi ero addestrata a sorridere in un certo modo,
quello che io chiamo il mio «sorriso no» perché ricorda una
maschera del teatro no dai lineamenti raggelati. Mi è molto utile
perché gli uomini lo possono interpretare a loro piacimento e
credo che possiate capire in quante occasioni io me ne sia servita.
Quel giorno decisi che sarebbe stato meglio ricorrervi ancora
una volta e, naturalmente, funzionò. L'uomo lasciò uscire di
colpo tutto il fiato che gli si era bloccato in gola e appoggiò sul
tavolo la tazza di saké che gli avevo servito, poi scoppiò in una
fragorosa risata che, ne sono sicura, era dettata più dal sollievo
che da qualunque altro sentimento.
«Che idea!» esclamò, ridendo di nuovo. «Proprio tu, cresciuta
in un buco fetido come Yoroido. Sarebbe come preparare
il tè in un secchio!» Quindi scoppiò in un'altra risata e
aggiunse: «E' per questo che sei tanto divertente, Sayuri-san. A
volte mi fai quasi sospettare che nei tuoi scherzi ci sia un fondo
di verità».
Non mi piace pensare a me stessa come a una tazza di tè preparata
in un secchio, ma ritengo che qualcosa di vero ci sia. Dopotutto
sono davvero nata e cresciuta a Yoroido e nessuno può
sostenere che sia un bel posto. E' difficile che qualcuno vada a
visitarlo e, per quanto riguarda le persone che ci vivono, non
hanno mai occasione di recarsi altrove. Probabilmente vi starete
chiedendo come mai a me sia capitato di lasciare il villaggio. E'
qui che comincia la mia storia.
In quel piccolo villaggio di pescatori che era Yoroido, vivevo in
una catapecchia che avevo ribattezzato «La casa ubriaca». Sorgeva
in cima ad una scogliera dove il vento dell'oceano soffiava in
continuazione. Quand'ero bambina ero convinta che il mare si
fosse preso un terribile raffreddore, perché tossicchiava sempre
ed in certi periodi emetteva uno spaventoso starnuto, che non
era altro che una tremenda folata di vento carica di gocce d'acqua.
Avevo deciso che la nostra minuscola dimora doveva essersi
offesa per quei continui spruzzi provenienti dall'oceano e, per
sfuggire loro, si era piegata su un fianco. Probabilmente sarebbe
crollata se mio padre non avesse ricavato un palo di legno da
un'imbarcazione da pesca finita sugli scogli e non avesse puntellato
con quello la grondaia, il che dava alla casa l'aspetto di un
vecchio sbronzo appoggiato a una stampella.
All'interno della casa ubriaca trascorrevo un'esistenza che
potrei definire altrettanto sbilenca, perché fin da piccolissima
assomigliavo molto a mia madre, e quasi per nulla a mio padre
o a mia sorella. Mia madre diceva che ciò dipendeva dal fatto
che eravamo uguali, lei e io... e in effetti tutt'e due avevamo gli
stessi occhi con una strana colorazione dell'iride, assolutamente
inconsueta in Giappone. Invece di essere di un marrone scuro
come quelli di tutti gli altri, gli occhi di mia madre erano di un
grigio trasparente, e i miei pure. Quando ero molto piccola,
avevo detto a mia madre di essere sicura che qualcuno le avesse
forato gli occhi e che da quel buco fosse uscito tutto il colore
scuro, immagine che lei aveva trovato molto divertente. A detta
delle indovine, le iridi di mia madre avevano un colore così pallido
perché nella sua personalità c'era troppa acqua, una tale
preponderanza di questo elemento da aver quasi reso insignificanti
gli altri quattro... ed era per questo, aggiungevano, che lei
aveva lineamenti tanto stridenti fra loro. La gente del villaggio
diceva spesso che sarebbe dovuta essere molto attraente, perché
lo erano stati i suoi genitori. Be', le pesche hanno un delizioso
sapore e così pure i funghi, ma, se vengono abbinati, il risultato
è tutt'altro che appetitoso: era questo il terribile scherzo che la
natura le aveva giocato. Lei aveva la piccola bocca corrucciata
di sua madre, ma aveva anche la mascella larga del padre, il che
dava l'impressione di un delicato dipinto racchiuso in una cornice
troppo pesante. Quanto ai suoi deliziosi occhi grigi, erano
circondati da ciglia troppo folte, che a suo padre stavano molto
bene, ma che nel suo caso servivano soltanto a farle apparire lo
sguardo perennemente spaventato.
Mia madre diceva sempre che aveva sposato mio padre perché,
se in lei c'era una preponderanza d'acqua, nella personalità
di lui c'era un'eccessiva presenza di legno. Chi conosceva mio
padre capiva subito a che cosa alludesse. L'acqua si sposta rapidamente
da un punto all'altro e trova sempre una crepa da cui
filtrare; il legno, invece, fa presa nella terra. Nel caso di mio padre
questo era un bene, perché era un pescatore e gli uomini
con una personalità lignea si trovano a loro agio sul mare. A dir
la verità, mio padre stava meglio sul mare che in qualunque altro
posto e non se ne allontanava mai molto. Sapeva di salmastro
anche dopo essersi lavato. Quando non era fuori a pesca,
sedeva sul pavimento nella nostra buia stanza di soggiorno a
rammendare le reti. Se una rete da pesca fosse stata una creatura
immersa nel sonno, non sarebbe stata certo la velocità con
cui mio padre lavorava a ridestarla. Lui faceva ogni cosa con la
stessa lentezza. Anche quando assumeva un'espressione
concentrata, avevi tutto il tempo di correre fuori e svuotare la vasca
prima che lui riuscisse a riplasmare i suoi lineamenti. Il suo volto
era cosparso di rughe, in ognuna delle quali lui aveva nascosto
questa o quella preoccupazione; perciò in realtà non era più
il suo viso, ma assomigliava piuttosto a un albero con nidi di
uccello su ogni ramo. Mio padre doveva lottare in continuazione
per tenerlo a bada e sembrava sempre spossato da quello
sforzo.
Quando avevo sei o sette anni, appresi qualcosa su mio padre
che fino a quel momento avevo ignorato. Un giorno gli
chiesi: «Papà, perché sei così vecchio?» Nel sentire quelle
parole lui inarcò le sopracciglia, che assunsero la forma di piccoli
ombrelli spioventi. Poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro, scosse
la testa e disse: «Non lo so». Quando mî girai verso mia madre,
vidi nei suoi occhi uno sguardo che stava a significare che
mi avrebbe risposto lei in un altro momento. Il giorno seguente,
senza dire una parola, mia madre mi condusse giù per la collina,
in direzione del villaggio, poi prendemmo un sentiero fra i boschi
che portava al cimitero. Mi accompagnò fino a tre tombe
appartate, con tre pietre tombali bianche, molto più alte di me.
Erano coperte da cima a fondo da ideogrammi scuri dall'aria
severa, ma io non avevo frequentato la scuola del nostro villaggio
abbastanza a lungo da sapere dove un carattere finisse e ne
cominciasse un altro. Mia madre li indicò e disse: «Natsu, moglie
di Sakamoto Minoru». Sakamoto Minoru era il nome di
mio padre. «Morta all'età di ventiquattro anni, nel diciannovesimo
anno di Meiji.» Poi passò alla pietra tombale successiva:
«Jinichiro, figlio di Sakamoto Minoru, morto all'età di sei anni,
nel diciannovesimo anno di Meiji» e a quella ancora accanto,
che era identîca in tutto alla precedente a parte il nome, Masao,
e l'età, tre anni. Ci misi un po' a capire che mio padre era già
stato sposato, tanto tempo prima, e che la sua intera famiglia
era morta. In séguito tornai a visitare quelle tombe e, mentre le
guardavo, mi resi conto che la tristezza è un sentimento molto
gravoso. Il peso del mio corpo infatti era diventato il doppio di
quanto fosse un attimo prima, come se quelle tombe mi stessero
tirando giù, verso di loro.
Con tutta quell'acqua e tutto quel legno, i miei genitori avrebbero
dovuto raggiungere un buon equilibrio e procreare figli
con una giusta disposizione degli elementi. Sono sicura che per
loro fu una sorpresa trovarsi alla fine in una situazione identica
a prima. Infatti non soltanto io assomigliavo a mia madre ed avevo
persino ereditato i suoi strani occhi, ma mia sorella Satsu era
praticamente uguale a mio padre. Mia sorella aveva sei anni più
di me e naturalmente, data la differenza d'età, era in grado di
fare cose che a me erano vietate. Tuttavia Satsu aveva la straordinaria
capacità di compiere ogni gesto in modo tale da dare
l'impressione che tutto avvenisse per puro caso. Per esempio, se
le si chiedeva di versare in una ciotola la zuppa che bolliva in
una pentola sulla stufa, lei lo faceva, ma sembrava che il cibo
fosse finito nella ciotola per un semplice scherzo del caso. Una
volta Satsu arrivò persino a tagliarsi con un pesce, e non intendo
dire con questo che si ferì con il coltello usato per togliere le
interiora: stava tornando dal villaggio e, mentre risaliva la collina
reggendo, avvolto in un foglio di carta, un pesce, questo scivolò
dall'involucro cadendole sulla gamba e una pinna le procurò
un taglio.
I miei genitori avrebbero voluto avere altri figli oltre a Satsu
e a me, soprattutto mio padre, il quale sperava nella nascita di
un maschio che lo aiutasse nella pesca. Ma, quando avevo sette
anni, mia madre si ammalò gravemente. Probabilmente si trattava
di cancro delle ossa, anche se ai tempi io non mi rendevo
conto di che cosa fosse. L'unico modo che lei aveva per contrastare
i dolori era dormire, cosa che cominciò a fare alla stessa
stregua di un gatto: cioè, più o meno sempre. Passavano i mesi e
lei non faceva che dormire, finché non arrivò il momento in cui
cominciò a svegliarsi a tratti e allora gemeva in continuazione.
Capivo che qualcosa in lei stava cambiando rapidamente, ma,
data l'estrema presenza di acqua nella sua personalità, non mi
sembrava che ci fosse di che preoccuparsi. A volte nell'arco di
pochi mesi dimagriva paurosamente, ma con la stessa rapidità
riacquistava peso. Però, quando avevo ormai nove anni, nel suo
volto le ossa erano diventate sporgenti e il deperimento fisico
era costante. Non mi rendevo conto che a causa della malattia
l'acqua stava defluendo da lei. Proprio come le alghe, che per
natura sono bagnate, ma che, una volta inaridite, si frantumano,
mia madre stava perdendo sempre più la propria essenza.
Un pomeriggio me ne stavo seduta sul pavimento corroso
della nostra buia stanza di soggiorno, intenta a cantare a un grillo
che avevo trovato quella mattina, quando una voce chiamò
dalla porta: «Ehi! Aprìte! Sono il dottor Miura!»
Il dottor Miura passava dal nostro villaggio una volta alla settimana
e, da quando mia madre si era ammalata, non mancava
mai di risalire la collina per venire a visitarla. Quel giorno mio
padre era a casa, perché stava per scoppiare un tremendo
temporale. Era seduto al suo solito posto, con le grandi mani simili
a ragni immerse in una rete da pesca. Ma ci mise qualche attimo
a rivolgere i suoi occhi verso di me e ad alzare un dito. Ciò
significava che voleva che andassi ad aprire la porta.
Il dottor Miura era un uomo molto importante... o almeno
così lo consideravamo al villaggio. Aveva studiato a Tokyo e, a
quanto si diceva, conosceva più ideogrammi cinesi di chiunque
altro. Era troppo altero per prestare attenzione a una creatura
come me. Dopo che ero andata ad aprirgli la porta, si sfilò le
scarpe e, passandomi accanto, entrò in casa.
«Salve, Sakamoto-san», disse a mio padre, «vorrei essere
nei tuoi panni, tutto il giorno al largo a pescare. Magnifico! E
nelle giornate burrascose ti riposi. Vedo che tua moglie è ancora
addormentata», continuò. «Peccato. Mi ero ripromesso di
visitarla.»
«Oh?» replicò mio padre.
«Non ripasserò di qui prima della settimana prossima, lo sai.
Non potresti svegliarla?»
Mio padre prese lentamente a districare le mani dalla rete,
ma alla fine si alzò.
«Chiyo-chan», mi disse, «prepara una tazza di tè per il
dottore.»
A quei tempi mi chiamavo Chiyo. Sarei stata conosciuta con
il mio nome da geisha, Sayuri, soltanto molti anni dopo.
Mio padre ed il medico entrarono nell'altra stanza, dove mia
madre giaceva addormentata. Cercai di origliare alla porta, ma
riuscii solamente a udire i gemiti di mia madre e non afferrai
neppure una parola di ciò che veniva detto. Mi misi a preparare
il tè e di lì a poco il medico tornò, soffregandosi le mani e con
un'espressione accigliata sul volto. Mio padre gli si avvicinò e si
sedettero.
«E' venuto il momento di dirti qualcosa, Sakamoto-san»,
cominciò il dottor Miura. «Devi parlare con una delle donne del
villaggio. Con la signora Sugi, magari. Chiedile di confezionare
un bell'abito nuovo per tua moglie.»
«Non ho il denaro, dottore», replicò mio padre.
«Ti capisco, ultimamente ci siamo impoveriti tutti, ma non
puoi negare una cosa del genere a tua moglie. Non deve morire
indossando quella veste cenciosa.»
«Dunque, sta per morire?»
«Ha davanti a sé, forse, solo qualche settimana di vita. Soffre
terribilmente. La morte sarà un sollievo per lei.»
Da quel momento non riuscii più ad ascoltare le loro voci,
perché udivo nelle mie orecchie un rumore simile a quello prodotto
dalle ali di un uccello in preda al panico. Forse, chissà,
era il mio cuore. Ma, se vi è mai capitato di vedere un uccello
intrappolato nella grande sala di un tempio, alla ricerca di una
via di fuga, be', proprio così stava reagendo la mia mente. Non
avevo mai pensato che a mia madre potesse accadere qualcosa
di diverso dal semplice star male. Non voglio dire che non avessi
mai preso in considerazione l'ipotesi della sua morte; l'avevo
fatto, ma allo stesso modo in cui mi chiedevo che cosa sarebbe
successo se la nostra casa fosse stata inghiottita da un terremoto.
Dopo un simile evento non ci sarebbe più stata vita.
«Ero sicuro che toccasse a me morire per primo», stava
dicendo mio padre.
«Tu sei vecchio, Sakamoto-san, ma la tua salute è buona. Potrai
campare altri quattro o cinque anni. Ti lascerò una scorta di
quelle pillole per tua moglie. Puoi dargliene due alla volta, se
VUOi.»
Parlarono ancora un po' delle pillole, poi il dottor Miura se
ne andò. Mio padre restò seduto, in silenzio, volgendomi la
schiena. Non indossava la camicia e gli vedevo la pelle floscia;
quanto più lo guardavo, tanto più cominciava a sembrarmi una
strana raccolta di forme e fibre. La colonna vertebrale era un
bastone nodoso; il cranio, coperto di chiazze scolorite, sarebbe
potuto essere un frutto ammaccato; le braccia erano stecchi avvolti
in cuoio vecchio, che pendevano da due bozzi. Se mia
madre moriva, come avrei potuto continuare a vivere in casa
con lui? Non volevo lasciarlo, ma, nel momento in cui mia madre
se ne fosse andata, la casa sarebbe stata deserta, che lui ci
fosse o no.
Alla fine mio padre pronunciò il mio nome, in un sussurro.
Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a lui.
«E' una cosa molto importante», disse.
Il suo volto era più spigoloso del solito e gli occhi gli roteavano
come se lui ne avesse perso il controllo. Pensai che stesse lottando
con se stesso per riuscire a dirmi che mia madre stava per
morire, invece le sue uniche parole furono: «Scendi al villaggio.
Portami un po' di incenso per l'altare».
Il nostro piccolo altare buddista si trovava su una vecchia
cassa accanto alla porta della cucina ed era l'unica cosa di valore
nella nostra casa ubriaca. Davanti alla rozza immagine di
Amida, il Buddha del Paradiso occidentale, erano disposte
minuscole tavolette funebri nere che portavano i nomi buddisti
dei nostri antenati defunti.
«Ma, padre... non c'era qualcos'altro?»
Fece un gesto con la mano e io capii che dovevo andare.
Il sentiero che partiva dalla nostra casa ubriaca seguiva la
sommità della scogliera prima di girare all'interno in direzione del
villaggio. Percorrerlo in una giornata come quella era un'impresa
difficile, ma ricordo che mi sentivo grata al vento turbinoso
perché distoglieva la mia mente da quei pensieri sconvolgenti. Il
mare era in tempesta, con onde che parevano pietre scheggiate,
tanto acuminate da essere taglienti. Mi pareva che il mondo intero
stesse provando le mie stesse sensazioni. La vita non era
dunque nulla più di un fortunale che imperversava costantemente
su ciò che un attimo prima esisteva, lasciandoselo alle
spalle marcio e irriconoscibile? Prima di allora non avevo mai
avuto un pensiero del genere. Per sfuggirgli, mi lanciai di corsa
giù per il sentiero finché sotto di me non scorsi il villaggio. Yoroido
era un minuscolo paese, proprio all'imbocco di
un'insenatura. Di solito il mare era punteggiato di barche da pesca, ma
quel giorno riuscii a vederne soltanto alcune dirette verso riva:
mi parvero, come sempre, insetti acquatici che si dibattessero
sulla superficie dell'acqua. La bufera stava aumentando d'intensità;
riuscivo a sentirne il rombo e le nuvole sopra di me erano
nere come il carbone. I pescatori nell'insenatura divennero sempre
più evanescenti sotto la cortina di pioggia, poi scomparvero
del tutto. Potei vedere la tempesta che risaliva il pendio venendo
verso di me. Le prime gocce che mi colpirono sembravano
uova di quaglia e nel giro di pochi secondi mi ritrovai fradicia
come se fossi caduta in mare.
Yoroido aveva un'unica strada, che portava direttamente
all'ingresso dell'edificio che ospitava la Compagnia nipponica di
prodotti ittici ed era fiancheggiata da costruzioni le cui stanze
sul davanti venivano usate come botteghe. La imboccai di corsa,
diretta verso la casa di Okada, dove avrei trovato l'incenso,
ma mi accadde qualcosa... uno di quei fatti banali dalle conseguenze
terribili, come inciampare e cadere sulle rotaie mentre
sta arrivando un treno. La terra battuta sotto i miei piedi era
scivolosa per via della pioggia e persi l'equilibrio. Caddi in
avanti, picchiando la faccia di lato. Il colpo, immagino, doveva
avermi stordita, perché ricordo soltanto che mi sentivo come
intorpidita, con l'impressione di avere in bocca qualcosa che
desideravo sputare. Udii alcune voci e mi accorsi che mi mettevano
supina, poi fui sollevata da terra e portata via. Compresi che mi
stavano portando nella sede della Compagnia nipponica dei
prodotti ittici perché avvertii tutt'attorno a me odore di pesce.
Sentii anche un suono schioccante quando tolsero da uno dei
tavoli di legno il pesce ammucchiato, facendolo cadere sul pavimento,
per distendermi sul ripiano viscido. Sapevo di essere
fradicia di pioggia, insanguinata, a piedi nudi e sporca, e di
indossare abiti da contadina. Ciò che ignoravo era che quel
momento avrebbe cambiato tutta la mia vita. Perché fu allora che
mi trovai a fissare il volto di Tanaka Ichiro.
Avevo visto il signor Tanaka nel nostro villaggio parecchie
volte prima di allora. Lui viveva in una città molto più grande, a
poca distanza da Yoroido, ma veniva ogni giorno perché la
Compagnia ittica apparteneva alla sua famiglia. Non indossava
abiti da lavoro come i pescatori, bensì un kimono, con ampi calzoni
che mi fecero tornare in mente le illustrazioni raffiguranti i
samurai che anche a voi sarà capitato di vedere. La sua pelle era
levigata e tesa come quella di un tamburo; gli zigomi sembravano
collinette luccicanti, simili alla pelle croccante di un pesce
grigliato. Quando mi trovavo in strada a trascinare un sacco di
fagioli assieme agli altri bambini, se vedevo per caso il signor
Tanaka uscire dalla sua azienda mi fermavo sempre per poterlo
osservare.
Rimasi distesa su quel tavolo scivoloso mentre il signor Tanaka
mi esaminava il labbro, tirandolo in basso con le sue dita e
inclinandomi la testa ora da un lato, ora dall'altro. All'improvviso
notò i miei occhi grigi, talmente fissi sul suo volto e affascinati
che non potei fingere di guardare altrove. Non mi rivolse
un sorrisetto beffardo, come per dirmi che ero una bambina
impudente, né distolse il proprio sguardo, quasi per lui fosse ininfluente
dove io guardassi o che cosa pensassi. Ci fissammo reciprocamente
per un lungo attimo... così lungo che fui scossa da
un brivido nonostante il caldo afoso che regnava in
quell'edificio.
«Ti conosco», disse alla fine. «Sei la figlia minore del
vecchio Sakamoto.»
Benché fossi ancora una bambina, capivo che il signor Tanaka
vedeva il mondo circostante come realmente era; nei suoi occhi
non c'era mai lo sguardo appannato che appariva in quelli
di mio padre. Avevo l'impressione che potesse scorgere la resina
che gocciolava come sangue dai tronchi dei pini e il cerchio
luminoso del sole nel cielo coperto di nuvole. Viveva nel mondo
visibile, anche se non sempre amava esserci. Ero convinta
che notasse gli alberi, il fango, i bambini per strada, ma non
avevo motivo per credere che si fosse mai accorto di me.
Forse fu per questo che, quando mi parlò, le lacrime mi sgorgarono
dagli occhi.
Il signor Tanaka mi fece mettere seduta. Pensai che stesse
per dirmi di andarmene, invece le sue parole furono: «Non
inghiottire quel sangue, bambina, se non vuoi che formi una pietra
nel tuo stomaco. Se fossi in te, lo sputerei sul pavimento».
«Il sangue di una bambina, signor Tanaka?» disse uno degli
uomini. «Qui, dove portiamo il pesce?»
Dovete sapere che i pescatori sono terribilmente superstiziosi.
Soprattutto non vogliono che le donne abbiano qualcosa a
che fare con la loro attività. A uno del nostro villaggio, il signor
Yamamura, era capitato di trovare una mattina la propria figlia
intenta a giocare sulla barca. L'aveva picchiata con un bastone,
poi aveva lavato l'imbarcazione con saké e lisciva, sfregando
con tanta forza da cancellare intere strisce di colore dal legno.
Ma non gli era ancora bastato: si era rivolto al sacerdote scintoista
e gli aveva chiesto di benedire la barca. E tutto questo perché
la figlia aveva semplicemente giocato lì dove venivano
raccolti i pesci. E ora il signor Tanaka mi stava suggerendo di
sputare il sangue sul pavimento di un locale in cui i pesci venivano
puliti.
«Se temete che il suo sputo possa far sparire le interiora dei
pesci», disse il signor Tanaka, «portateveli via. Io ne ho più
che a sufficienza.»
«Non si tratta delle interiora, signore.»
«Direi che il suo sangue sarà la cosa più pulita che sia mai
caduta su questo pavimento da quando tu o io siamo nati. Forza»,
mi esortò il signor Tanaka, «sputa.»
Me ne stavo seduta su quel tavolo viscido, incerta sul da farsi.
Pensavo che sarebbe stato terribile disobbedire al signor
Tanaka, ma non sono sicura che avrei trovato il coraggio di sputare
se uno degli uomini non si fosse chinato di fianco e non si
fosse premuto un dito contro una narice per soffiare il muco dal
naso e farlo cadere a terra. Dopo averlo visto, non riuscii a trattenere
più ciò che avevo in bocca e sputai il sangue proprio come
il signor Tanaka mi aveva detto di fare. Tutti gli uomini uscirono
dal locale, con un'espressione di disgusto in faccia; rimase
soltanto Sugi, l'assistente del signor Tanaka. Quest'ultimo gli
chiese di andare a cercare il dottor Miura.
«Non so dove trovarlo», replicò Sugi, più che altro, credo,
perché non aveva voglia di dare una mano.
Informai il signor Tanaka che il medico era stato a casa
nostra pochi minuti prima.
«Dove si trova la tua abitazione?» mi chiese il signor
Tanaka.
«E' quella piccola casa ubriaca in cima alla scogliera.»
«Che cosa intendi con... "casa ubriaca"?»
«La chiamo così perché pende di lato, come se avesse bevuto
troppo.»
Il signor Tanaka parve non capire il significato delle mie parole.
«Sugi, àvviati verso la casa ubriaca di Sakamoto e cerca il
dottor Miura. Non ti sarà difficile trovarlo, basta che ascolti le
grida dei pazienti che lui sta visitando.»
Immaginai che il signor Tanaka sarebbe tornato al proprio
lavoro non appena Sugi se ne fosse andato; invece restò accanto
al tavolo, a fissarmi. Sentii che il volto mi si stava imporporando.
Alla fine lui disse una cosa che mi parve molto intelligente.
«Hai una melanzana sulla faccia, piccola figlia di SakamotO.»
Si avvicinò a un cassetto e ne estrasse uno specchio perché
potessi guardarmi. Il mio labbro era gonfio e violaceo, come
aveva detto lui.
«Ma ciò che più mi interessa», continuò, «è sapere come
mai tu abbia quegli occhi straordinari e perché tu sia così diversa
da tuo padre.»
«Gli occhi sono quelli di mia madre», risposi. «Quanto a
mio padre, è talmente rugoso che non saprei dire quale sia in
realtà il suo aspetto.»
«Anche tu un giorno sarai rugosa.»
«Ma alcune delle sue rughe non dipendono dall'età», replicai.
«La parte posteriore della testa è vecchia quanto la fronte,
eppure è liscia come un uovo.»
«Questo non è un commento molto rispettoso nei confronti
di tuo padre», mi disse il signor Tanaka. «Però immagino che
sia vero.»
Poi aggiunse qualcos'altro che mi fece talmente arrossire che,
ne sono sicura, il mio labbro risultò al confronto quasi pallido.
«Ma come ha fatto un vecchio uomo rugoso con una testa
simile a un uovo a mettere al mondo una bambina bella come
te?»
Negli anni successivi sarei stata definita bella tante di quelle
volte che non saprei ricordarle tutte, anche se, com'è ovvio,
questo è un complimento che viene abitualmente rivolto alle
geishe, pure a quelle brutte. Ma quando il signor Tanaka me lo
disse, e a quei tempi non avevo la minima idea di che cosa fosse
una geisha, riuscii quasi a credere che fosse vero.
Dopo essere stata medicata al labbro dal dottor Miura e aver
comprato l'incenso come mio padre mi aveva chiesto di fare, mi
diressi verso casa in un tale stato di agitazione che, se fossi stata
un formicaio, non credo che dentro di me la frenesia sarebbe
stata maggiore. Avrei superato meglio quel momento se le mie
emozioni mi avessero tirato tutte nella stessa direzione, ma non
era così semplice. Venivo sbattuta di qua e di là come un foglio
di carta nel vento. In mezzo ai contrastanti pensieri relativi a
mia madre se ne annidava uno piacevole, nonostante il fastidio
che mi dava il labbro, e tentavo in tutti i modi di metterlo a fuoco.
Concerneva il signor Tanaka. Mi fermai sulla scogliera a fissare
il mare, con le onde che parevano ancora lame affilate benché
la bufera fosse ormai passata, e il cielo che aveva assunto la
tinta bruna del fango. Mi assicurai che nessuno mi stesse osservando,
poi mi strinsi l'incenso al petto e pronunciai il nome del
signor Tanaka nel vento che sibilava, più e più volte, finché non
mi sentii soddisfatta di aver udito la musica nascosta in ogni
sillaba. Lo so che può sembrare una sciocchezza... e non nego che
lo fosse. Ma io ero soltanto una bambina confusa.
Terminata la cena, mio padre scese al villaggio a vedere gli
altri pescatori giocare agli scacchi giapponesi e Satsu e io riordinammo
la cucina senza rivolgerci una sola parola. Io tentavo di
ricordare quali emozioni avesse suscitato in me il signor Tanaka,
ma nel silenzio gelido della casa ogni sensazione mi era sfuggita
di mente. Invece avvertivo un persistente ed agghiacciante
terrore al pensiero della malattia di mia madre. Mi ritrovai a
chiedermi quanto tempo ci restasse prima di doverla seppellire
nel cimitero del villaggio accanto agli altri familiari di mio
padre. Che ne sarebbe stato allora di me? Immaginai che, una volta
morta mia madre, Satsu ne avrebbe preso il posto. Fissai mia
sorella che stava strofinando la pentola di ferro in cui avevamo
cotto la minestra: sebbene ce l'avesse proprio davanti, e su di
essa tenesse puntato lo sguardo, capii che non la vedeva. Continuò
a strofinare a lungo, anche quando era perfettamente pulita.
Alla fine le dissi: «Satsu-san, non mi sento bene».
«Va' fuori e scalda l'acqua», mi rispose, mentre con una
mano bagnata si tirava indietro i capelli dagli occhi.
«Non voglio fare il bagno», replicai. «Satsu, la mamma sta
per morire...»
«Questa pentola è incrinata. Guarda!»
«Non è incrinata», dissi. «Quel segno c'è da un sacco di
tempo.»
«Ma come ha fatto l'acqua ad uscire?»
«L'hai rovesciata tu. Ti ho visto.»
Per un attimo capii che Satsu stava provando un'emozione
molto forte, che trasparì sul suo volto sotto forma di estremo
stupore, come le capitava spesso quando provava qualcosa. Ma
non mi disse altro. Tolse la pentola dalla stufa e si avviò verso la
porta per metterla fuori.
affacciata su un giardino, a parlare del più e del meno e a sorseggiare
una tazza di tè verde, e che il discorso cada su un fatto
avvenuto tanto tempo prima e che io vi dica: «Il pomeriggio in
cui incontrai quell'uomo... fu il più bello della mia vita, e anche
il più brutto». Sono convinta che mettereste giù la vostra tazza
e replichereste: «Be', com'è possibile? Era il più bello od il più
brutto? Una cosa esclude l'altra!» Di solito riderei di me stessa,
dichiarandomi d'accordo con voi, ma la verità è che il pomeriggio
in cui incontrai il signor Tanaka Ichiro fu al tempo stesso il
migliore ed il peggiore della mia vita. Mi era sembrato un uomo
così affascinante che persino il sentore di pesce che proveniva
dalle sue mani aveva un che di profumato. Ma, se non l'avessi
conosciuto, sono sicura che non avrei mai fatto la geisha.
Nulla, nella mia nascita e nel modo in cui sono stata allevata,
poteva lasciar presagire che sarei diventata una geisha di Kyoto.
Non sono neppure nata a Kyoto. Sono la figlia di un pescatore
che abitava in un villaggio chiamato Yoroido, sulle rive del mar
del Giappone. In tutta la mia esistenza sono ben poche le persone
alle quali ho parlato di Yoroido, o della casa in cui sono
nata, o di mio padre e di mia madre, o di mia sorella, di qualche
anno maggiore di me... e certamente non ho mai raccontato come
sono diventata geisha o che cosa voglia dire esserlo. Lascio
che la maggior parte della gente si immagini che anche mia madre
e mia nonna fossero geishe e che, non appena il periodo del
mio svezzamento si era concluso, già io venissi istruita nell'arte
della danza, o cose dî questo genere. Ricordo che un giorno di
molti anni fa, mentre stavo versando una tazza di saké a un uomo,
costui disse casualmente che la settimana prima era stato a
Yoroido. Be', mi sentii come un uccello che, dopo aver attraversato
a volo l'oceano, incontra una creatura che conosce il suo
nido. Ne fui così sconvolta che non riuscii a trattenermi dall'esclamare:
«Yoroido! E' lì che sono nata e cresciuta!»
Quel poveretto! Sul suo viso passarono le più straordinarie e
mutevoli espressioni. Fece del suo meglio per sorridere, ma più
che un sorriso era una smorfia perché non riusciva a cancellare
lo shock che gli si era dipinto in faccia.
«Yoroido?» disse. «Non può essere!»
Da tempo mi ero addestrata a sorridere in un certo modo,
quello che io chiamo il mio «sorriso no» perché ricorda una
maschera del teatro no dai lineamenti raggelati. Mi è molto utile
perché gli uomini lo possono interpretare a loro piacimento e
credo che possiate capire in quante occasioni io me ne sia servita.
Quel giorno decisi che sarebbe stato meglio ricorrervi ancora
una volta e, naturalmente, funzionò. L'uomo lasciò uscire di
colpo tutto il fiato che gli si era bloccato in gola e appoggiò sul
tavolo la tazza di saké che gli avevo servito, poi scoppiò in una
fragorosa risata che, ne sono sicura, era dettata più dal sollievo
che da qualunque altro sentimento.
«Che idea!» esclamò, ridendo di nuovo. «Proprio tu, cresciuta
in un buco fetido come Yoroido. Sarebbe come preparare
il tè in un secchio!» Quindi scoppiò in un'altra risata e
aggiunse: «E' per questo che sei tanto divertente, Sayuri-san. A
volte mi fai quasi sospettare che nei tuoi scherzi ci sia un fondo
di verità».
Non mi piace pensare a me stessa come a una tazza di tè preparata
in un secchio, ma ritengo che qualcosa di vero ci sia. Dopotutto
sono davvero nata e cresciuta a Yoroido e nessuno può
sostenere che sia un bel posto. E' difficile che qualcuno vada a
visitarlo e, per quanto riguarda le persone che ci vivono, non
hanno mai occasione di recarsi altrove. Probabilmente vi starete
chiedendo come mai a me sia capitato di lasciare il villaggio. E'
qui che comincia la mia storia.
In quel piccolo villaggio di pescatori che era Yoroido, vivevo in
una catapecchia che avevo ribattezzato «La casa ubriaca». Sorgeva
in cima ad una scogliera dove il vento dell'oceano soffiava in
continuazione. Quand'ero bambina ero convinta che il mare si
fosse preso un terribile raffreddore, perché tossicchiava sempre
ed in certi periodi emetteva uno spaventoso starnuto, che non
era altro che una tremenda folata di vento carica di gocce d'acqua.
Avevo deciso che la nostra minuscola dimora doveva essersi
offesa per quei continui spruzzi provenienti dall'oceano e, per
sfuggire loro, si era piegata su un fianco. Probabilmente sarebbe
crollata se mio padre non avesse ricavato un palo di legno da
un'imbarcazione da pesca finita sugli scogli e non avesse puntellato
con quello la grondaia, il che dava alla casa l'aspetto di un
vecchio sbronzo appoggiato a una stampella.
All'interno della casa ubriaca trascorrevo un'esistenza che
potrei definire altrettanto sbilenca, perché fin da piccolissima
assomigliavo molto a mia madre, e quasi per nulla a mio padre
o a mia sorella. Mia madre diceva che ciò dipendeva dal fatto
che eravamo uguali, lei e io... e in effetti tutt'e due avevamo gli
stessi occhi con una strana colorazione dell'iride, assolutamente
inconsueta in Giappone. Invece di essere di un marrone scuro
come quelli di tutti gli altri, gli occhi di mia madre erano di un
grigio trasparente, e i miei pure. Quando ero molto piccola,
avevo detto a mia madre di essere sicura che qualcuno le avesse
forato gli occhi e che da quel buco fosse uscito tutto il colore
scuro, immagine che lei aveva trovato molto divertente. A detta
delle indovine, le iridi di mia madre avevano un colore così pallido
perché nella sua personalità c'era troppa acqua, una tale
preponderanza di questo elemento da aver quasi reso insignificanti
gli altri quattro... ed era per questo, aggiungevano, che lei
aveva lineamenti tanto stridenti fra loro. La gente del villaggio
diceva spesso che sarebbe dovuta essere molto attraente, perché
lo erano stati i suoi genitori. Be', le pesche hanno un delizioso
sapore e così pure i funghi, ma, se vengono abbinati, il risultato
è tutt'altro che appetitoso: era questo il terribile scherzo che la
natura le aveva giocato. Lei aveva la piccola bocca corrucciata
di sua madre, ma aveva anche la mascella larga del padre, il che
dava l'impressione di un delicato dipinto racchiuso in una cornice
troppo pesante. Quanto ai suoi deliziosi occhi grigi, erano
circondati da ciglia troppo folte, che a suo padre stavano molto
bene, ma che nel suo caso servivano soltanto a farle apparire lo
sguardo perennemente spaventato.
Mia madre diceva sempre che aveva sposato mio padre perché,
se in lei c'era una preponderanza d'acqua, nella personalità
di lui c'era un'eccessiva presenza di legno. Chi conosceva mio
padre capiva subito a che cosa alludesse. L'acqua si sposta rapidamente
da un punto all'altro e trova sempre una crepa da cui
filtrare; il legno, invece, fa presa nella terra. Nel caso di mio padre
questo era un bene, perché era un pescatore e gli uomini
con una personalità lignea si trovano a loro agio sul mare. A dir
la verità, mio padre stava meglio sul mare che in qualunque altro
posto e non se ne allontanava mai molto. Sapeva di salmastro
anche dopo essersi lavato. Quando non era fuori a pesca,
sedeva sul pavimento nella nostra buia stanza di soggiorno a
rammendare le reti. Se una rete da pesca fosse stata una creatura
immersa nel sonno, non sarebbe stata certo la velocità con
cui mio padre lavorava a ridestarla. Lui faceva ogni cosa con la
stessa lentezza. Anche quando assumeva un'espressione
concentrata, avevi tutto il tempo di correre fuori e svuotare la vasca
prima che lui riuscisse a riplasmare i suoi lineamenti. Il suo volto
era cosparso di rughe, in ognuna delle quali lui aveva nascosto
questa o quella preoccupazione; perciò in realtà non era più
il suo viso, ma assomigliava piuttosto a un albero con nidi di
uccello su ogni ramo. Mio padre doveva lottare in continuazione
per tenerlo a bada e sembrava sempre spossato da quello
sforzo.
Quando avevo sei o sette anni, appresi qualcosa su mio padre
che fino a quel momento avevo ignorato. Un giorno gli
chiesi: «Papà, perché sei così vecchio?» Nel sentire quelle
parole lui inarcò le sopracciglia, che assunsero la forma di piccoli
ombrelli spioventi. Poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro, scosse
la testa e disse: «Non lo so». Quando mî girai verso mia madre,
vidi nei suoi occhi uno sguardo che stava a significare che
mi avrebbe risposto lei in un altro momento. Il giorno seguente,
senza dire una parola, mia madre mi condusse giù per la collina,
in direzione del villaggio, poi prendemmo un sentiero fra i boschi
che portava al cimitero. Mi accompagnò fino a tre tombe
appartate, con tre pietre tombali bianche, molto più alte di me.
Erano coperte da cima a fondo da ideogrammi scuri dall'aria
severa, ma io non avevo frequentato la scuola del nostro villaggio
abbastanza a lungo da sapere dove un carattere finisse e ne
cominciasse un altro. Mia madre li indicò e disse: «Natsu, moglie
di Sakamoto Minoru». Sakamoto Minoru era il nome di
mio padre. «Morta all'età di ventiquattro anni, nel diciannovesimo
anno di Meiji.» Poi passò alla pietra tombale successiva:
«Jinichiro, figlio di Sakamoto Minoru, morto all'età di sei anni,
nel diciannovesimo anno di Meiji» e a quella ancora accanto,
che era identîca in tutto alla precedente a parte il nome, Masao,
e l'età, tre anni. Ci misi un po' a capire che mio padre era già
stato sposato, tanto tempo prima, e che la sua intera famiglia
era morta. In séguito tornai a visitare quelle tombe e, mentre le
guardavo, mi resi conto che la tristezza è un sentimento molto
gravoso. Il peso del mio corpo infatti era diventato il doppio di
quanto fosse un attimo prima, come se quelle tombe mi stessero
tirando giù, verso di loro.
Con tutta quell'acqua e tutto quel legno, i miei genitori avrebbero
dovuto raggiungere un buon equilibrio e procreare figli
con una giusta disposizione degli elementi. Sono sicura che per
loro fu una sorpresa trovarsi alla fine in una situazione identica
a prima. Infatti non soltanto io assomigliavo a mia madre ed avevo
persino ereditato i suoi strani occhi, ma mia sorella Satsu era
praticamente uguale a mio padre. Mia sorella aveva sei anni più
di me e naturalmente, data la differenza d'età, era in grado di
fare cose che a me erano vietate. Tuttavia Satsu aveva la straordinaria
capacità di compiere ogni gesto in modo tale da dare
l'impressione che tutto avvenisse per puro caso. Per esempio, se
le si chiedeva di versare in una ciotola la zuppa che bolliva in
una pentola sulla stufa, lei lo faceva, ma sembrava che il cibo
fosse finito nella ciotola per un semplice scherzo del caso. Una
volta Satsu arrivò persino a tagliarsi con un pesce, e non intendo
dire con questo che si ferì con il coltello usato per togliere le
interiora: stava tornando dal villaggio e, mentre risaliva la collina
reggendo, avvolto in un foglio di carta, un pesce, questo scivolò
dall'involucro cadendole sulla gamba e una pinna le procurò
un taglio.
I miei genitori avrebbero voluto avere altri figli oltre a Satsu
e a me, soprattutto mio padre, il quale sperava nella nascita di
un maschio che lo aiutasse nella pesca. Ma, quando avevo sette
anni, mia madre si ammalò gravemente. Probabilmente si trattava
di cancro delle ossa, anche se ai tempi io non mi rendevo
conto di che cosa fosse. L'unico modo che lei aveva per contrastare
i dolori era dormire, cosa che cominciò a fare alla stessa
stregua di un gatto: cioè, più o meno sempre. Passavano i mesi e
lei non faceva che dormire, finché non arrivò il momento in cui
cominciò a svegliarsi a tratti e allora gemeva in continuazione.
Capivo che qualcosa in lei stava cambiando rapidamente, ma,
data l'estrema presenza di acqua nella sua personalità, non mi
sembrava che ci fosse di che preoccuparsi. A volte nell'arco di
pochi mesi dimagriva paurosamente, ma con la stessa rapidità
riacquistava peso. Però, quando avevo ormai nove anni, nel suo
volto le ossa erano diventate sporgenti e il deperimento fisico
era costante. Non mi rendevo conto che a causa della malattia
l'acqua stava defluendo da lei. Proprio come le alghe, che per
natura sono bagnate, ma che, una volta inaridite, si frantumano,
mia madre stava perdendo sempre più la propria essenza.
Un pomeriggio me ne stavo seduta sul pavimento corroso
della nostra buia stanza di soggiorno, intenta a cantare a un grillo
che avevo trovato quella mattina, quando una voce chiamò
dalla porta: «Ehi! Aprìte! Sono il dottor Miura!»
Il dottor Miura passava dal nostro villaggio una volta alla settimana
e, da quando mia madre si era ammalata, non mancava
mai di risalire la collina per venire a visitarla. Quel giorno mio
padre era a casa, perché stava per scoppiare un tremendo
temporale. Era seduto al suo solito posto, con le grandi mani simili
a ragni immerse in una rete da pesca. Ma ci mise qualche attimo
a rivolgere i suoi occhi verso di me e ad alzare un dito. Ciò
significava che voleva che andassi ad aprire la porta.
Il dottor Miura era un uomo molto importante... o almeno
così lo consideravamo al villaggio. Aveva studiato a Tokyo e, a
quanto si diceva, conosceva più ideogrammi cinesi di chiunque
altro. Era troppo altero per prestare attenzione a una creatura
come me. Dopo che ero andata ad aprirgli la porta, si sfilò le
scarpe e, passandomi accanto, entrò in casa.
«Salve, Sakamoto-san», disse a mio padre, «vorrei essere
nei tuoi panni, tutto il giorno al largo a pescare. Magnifico! E
nelle giornate burrascose ti riposi. Vedo che tua moglie è ancora
addormentata», continuò. «Peccato. Mi ero ripromesso di
visitarla.»
«Oh?» replicò mio padre.
«Non ripasserò di qui prima della settimana prossima, lo sai.
Non potresti svegliarla?»
Mio padre prese lentamente a districare le mani dalla rete,
ma alla fine si alzò.
«Chiyo-chan», mi disse, «prepara una tazza di tè per il
dottore.»
A quei tempi mi chiamavo Chiyo. Sarei stata conosciuta con
il mio nome da geisha, Sayuri, soltanto molti anni dopo.
Mio padre ed il medico entrarono nell'altra stanza, dove mia
madre giaceva addormentata. Cercai di origliare alla porta, ma
riuscii solamente a udire i gemiti di mia madre e non afferrai
neppure una parola di ciò che veniva detto. Mi misi a preparare
il tè e di lì a poco il medico tornò, soffregandosi le mani e con
un'espressione accigliata sul volto. Mio padre gli si avvicinò e si
sedettero.
«E' venuto il momento di dirti qualcosa, Sakamoto-san»,
cominciò il dottor Miura. «Devi parlare con una delle donne del
villaggio. Con la signora Sugi, magari. Chiedile di confezionare
un bell'abito nuovo per tua moglie.»
«Non ho il denaro, dottore», replicò mio padre.
«Ti capisco, ultimamente ci siamo impoveriti tutti, ma non
puoi negare una cosa del genere a tua moglie. Non deve morire
indossando quella veste cenciosa.»
«Dunque, sta per morire?»
«Ha davanti a sé, forse, solo qualche settimana di vita. Soffre
terribilmente. La morte sarà un sollievo per lei.»
Da quel momento non riuscii più ad ascoltare le loro voci,
perché udivo nelle mie orecchie un rumore simile a quello prodotto
dalle ali di un uccello in preda al panico. Forse, chissà,
era il mio cuore. Ma, se vi è mai capitato di vedere un uccello
intrappolato nella grande sala di un tempio, alla ricerca di una
via di fuga, be', proprio così stava reagendo la mia mente. Non
avevo mai pensato che a mia madre potesse accadere qualcosa
di diverso dal semplice star male. Non voglio dire che non avessi
mai preso in considerazione l'ipotesi della sua morte; l'avevo
fatto, ma allo stesso modo in cui mi chiedevo che cosa sarebbe
successo se la nostra casa fosse stata inghiottita da un terremoto.
Dopo un simile evento non ci sarebbe più stata vita.
«Ero sicuro che toccasse a me morire per primo», stava
dicendo mio padre.
«Tu sei vecchio, Sakamoto-san, ma la tua salute è buona. Potrai
campare altri quattro o cinque anni. Ti lascerò una scorta di
quelle pillole per tua moglie. Puoi dargliene due alla volta, se
VUOi.»
Parlarono ancora un po' delle pillole, poi il dottor Miura se
ne andò. Mio padre restò seduto, in silenzio, volgendomi la
schiena. Non indossava la camicia e gli vedevo la pelle floscia;
quanto più lo guardavo, tanto più cominciava a sembrarmi una
strana raccolta di forme e fibre. La colonna vertebrale era un
bastone nodoso; il cranio, coperto di chiazze scolorite, sarebbe
potuto essere un frutto ammaccato; le braccia erano stecchi avvolti
in cuoio vecchio, che pendevano da due bozzi. Se mia
madre moriva, come avrei potuto continuare a vivere in casa
con lui? Non volevo lasciarlo, ma, nel momento in cui mia madre
se ne fosse andata, la casa sarebbe stata deserta, che lui ci
fosse o no.
Alla fine mio padre pronunciò il mio nome, in un sussurro.
Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a lui.
«E' una cosa molto importante», disse.
Il suo volto era più spigoloso del solito e gli occhi gli roteavano
come se lui ne avesse perso il controllo. Pensai che stesse lottando
con se stesso per riuscire a dirmi che mia madre stava per
morire, invece le sue uniche parole furono: «Scendi al villaggio.
Portami un po' di incenso per l'altare».
Il nostro piccolo altare buddista si trovava su una vecchia
cassa accanto alla porta della cucina ed era l'unica cosa di valore
nella nostra casa ubriaca. Davanti alla rozza immagine di
Amida, il Buddha del Paradiso occidentale, erano disposte
minuscole tavolette funebri nere che portavano i nomi buddisti
dei nostri antenati defunti.
«Ma, padre... non c'era qualcos'altro?»
Fece un gesto con la mano e io capii che dovevo andare.
Il sentiero che partiva dalla nostra casa ubriaca seguiva la
sommità della scogliera prima di girare all'interno in direzione del
villaggio. Percorrerlo in una giornata come quella era un'impresa
difficile, ma ricordo che mi sentivo grata al vento turbinoso
perché distoglieva la mia mente da quei pensieri sconvolgenti. Il
mare era in tempesta, con onde che parevano pietre scheggiate,
tanto acuminate da essere taglienti. Mi pareva che il mondo intero
stesse provando le mie stesse sensazioni. La vita non era
dunque nulla più di un fortunale che imperversava costantemente
su ciò che un attimo prima esisteva, lasciandoselo alle
spalle marcio e irriconoscibile? Prima di allora non avevo mai
avuto un pensiero del genere. Per sfuggirgli, mi lanciai di corsa
giù per il sentiero finché sotto di me non scorsi il villaggio. Yoroido
era un minuscolo paese, proprio all'imbocco di
un'insenatura. Di solito il mare era punteggiato di barche da pesca, ma
quel giorno riuscii a vederne soltanto alcune dirette verso riva:
mi parvero, come sempre, insetti acquatici che si dibattessero
sulla superficie dell'acqua. La bufera stava aumentando d'intensità;
riuscivo a sentirne il rombo e le nuvole sopra di me erano
nere come il carbone. I pescatori nell'insenatura divennero sempre
più evanescenti sotto la cortina di pioggia, poi scomparvero
del tutto. Potei vedere la tempesta che risaliva il pendio venendo
verso di me. Le prime gocce che mi colpirono sembravano
uova di quaglia e nel giro di pochi secondi mi ritrovai fradicia
come se fossi caduta in mare.
Yoroido aveva un'unica strada, che portava direttamente
all'ingresso dell'edificio che ospitava la Compagnia nipponica di
prodotti ittici ed era fiancheggiata da costruzioni le cui stanze
sul davanti venivano usate come botteghe. La imboccai di corsa,
diretta verso la casa di Okada, dove avrei trovato l'incenso,
ma mi accadde qualcosa... uno di quei fatti banali dalle conseguenze
terribili, come inciampare e cadere sulle rotaie mentre
sta arrivando un treno. La terra battuta sotto i miei piedi era
scivolosa per via della pioggia e persi l'equilibrio. Caddi in
avanti, picchiando la faccia di lato. Il colpo, immagino, doveva
avermi stordita, perché ricordo soltanto che mi sentivo come
intorpidita, con l'impressione di avere in bocca qualcosa che
desideravo sputare. Udii alcune voci e mi accorsi che mi mettevano
supina, poi fui sollevata da terra e portata via. Compresi che mi
stavano portando nella sede della Compagnia nipponica dei
prodotti ittici perché avvertii tutt'attorno a me odore di pesce.
Sentii anche un suono schioccante quando tolsero da uno dei
tavoli di legno il pesce ammucchiato, facendolo cadere sul pavimento,
per distendermi sul ripiano viscido. Sapevo di essere
fradicia di pioggia, insanguinata, a piedi nudi e sporca, e di
indossare abiti da contadina. Ciò che ignoravo era che quel
momento avrebbe cambiato tutta la mia vita. Perché fu allora che
mi trovai a fissare il volto di Tanaka Ichiro.
Avevo visto il signor Tanaka nel nostro villaggio parecchie
volte prima di allora. Lui viveva in una città molto più grande, a
poca distanza da Yoroido, ma veniva ogni giorno perché la
Compagnia ittica apparteneva alla sua famiglia. Non indossava
abiti da lavoro come i pescatori, bensì un kimono, con ampi calzoni
che mi fecero tornare in mente le illustrazioni raffiguranti i
samurai che anche a voi sarà capitato di vedere. La sua pelle era
levigata e tesa come quella di un tamburo; gli zigomi sembravano
collinette luccicanti, simili alla pelle croccante di un pesce
grigliato. Quando mi trovavo in strada a trascinare un sacco di
fagioli assieme agli altri bambini, se vedevo per caso il signor
Tanaka uscire dalla sua azienda mi fermavo sempre per poterlo
osservare.
Rimasi distesa su quel tavolo scivoloso mentre il signor Tanaka
mi esaminava il labbro, tirandolo in basso con le sue dita e
inclinandomi la testa ora da un lato, ora dall'altro. All'improvviso
notò i miei occhi grigi, talmente fissi sul suo volto e affascinati
che non potei fingere di guardare altrove. Non mi rivolse
un sorrisetto beffardo, come per dirmi che ero una bambina
impudente, né distolse il proprio sguardo, quasi per lui fosse ininfluente
dove io guardassi o che cosa pensassi. Ci fissammo reciprocamente
per un lungo attimo... così lungo che fui scossa da
un brivido nonostante il caldo afoso che regnava in
quell'edificio.
«Ti conosco», disse alla fine. «Sei la figlia minore del
vecchio Sakamoto.»
Benché fossi ancora una bambina, capivo che il signor Tanaka
vedeva il mondo circostante come realmente era; nei suoi occhi
non c'era mai lo sguardo appannato che appariva in quelli
di mio padre. Avevo l'impressione che potesse scorgere la resina
che gocciolava come sangue dai tronchi dei pini e il cerchio
luminoso del sole nel cielo coperto di nuvole. Viveva nel mondo
visibile, anche se non sempre amava esserci. Ero convinta
che notasse gli alberi, il fango, i bambini per strada, ma non
avevo motivo per credere che si fosse mai accorto di me.
Forse fu per questo che, quando mi parlò, le lacrime mi sgorgarono
dagli occhi.
Il signor Tanaka mi fece mettere seduta. Pensai che stesse
per dirmi di andarmene, invece le sue parole furono: «Non
inghiottire quel sangue, bambina, se non vuoi che formi una pietra
nel tuo stomaco. Se fossi in te, lo sputerei sul pavimento».
«Il sangue di una bambina, signor Tanaka?» disse uno degli
uomini. «Qui, dove portiamo il pesce?»
Dovete sapere che i pescatori sono terribilmente superstiziosi.
Soprattutto non vogliono che le donne abbiano qualcosa a
che fare con la loro attività. A uno del nostro villaggio, il signor
Yamamura, era capitato di trovare una mattina la propria figlia
intenta a giocare sulla barca. L'aveva picchiata con un bastone,
poi aveva lavato l'imbarcazione con saké e lisciva, sfregando
con tanta forza da cancellare intere strisce di colore dal legno.
Ma non gli era ancora bastato: si era rivolto al sacerdote scintoista
e gli aveva chiesto di benedire la barca. E tutto questo perché
la figlia aveva semplicemente giocato lì dove venivano
raccolti i pesci. E ora il signor Tanaka mi stava suggerendo di
sputare il sangue sul pavimento di un locale in cui i pesci venivano
puliti.
«Se temete che il suo sputo possa far sparire le interiora dei
pesci», disse il signor Tanaka, «portateveli via. Io ne ho più
che a sufficienza.»
«Non si tratta delle interiora, signore.»
«Direi che il suo sangue sarà la cosa più pulita che sia mai
caduta su questo pavimento da quando tu o io siamo nati. Forza»,
mi esortò il signor Tanaka, «sputa.»
Me ne stavo seduta su quel tavolo viscido, incerta sul da farsi.
Pensavo che sarebbe stato terribile disobbedire al signor
Tanaka, ma non sono sicura che avrei trovato il coraggio di sputare
se uno degli uomini non si fosse chinato di fianco e non si
fosse premuto un dito contro una narice per soffiare il muco dal
naso e farlo cadere a terra. Dopo averlo visto, non riuscii a trattenere
più ciò che avevo in bocca e sputai il sangue proprio come
il signor Tanaka mi aveva detto di fare. Tutti gli uomini uscirono
dal locale, con un'espressione di disgusto in faccia; rimase
soltanto Sugi, l'assistente del signor Tanaka. Quest'ultimo gli
chiese di andare a cercare il dottor Miura.
«Non so dove trovarlo», replicò Sugi, più che altro, credo,
perché non aveva voglia di dare una mano.
Informai il signor Tanaka che il medico era stato a casa
nostra pochi minuti prima.
«Dove si trova la tua abitazione?» mi chiese il signor
Tanaka.
«E' quella piccola casa ubriaca in cima alla scogliera.»
«Che cosa intendi con... "casa ubriaca"?»
«La chiamo così perché pende di lato, come se avesse bevuto
troppo.»
Il signor Tanaka parve non capire il significato delle mie parole.
«Sugi, àvviati verso la casa ubriaca di Sakamoto e cerca il
dottor Miura. Non ti sarà difficile trovarlo, basta che ascolti le
grida dei pazienti che lui sta visitando.»
Immaginai che il signor Tanaka sarebbe tornato al proprio
lavoro non appena Sugi se ne fosse andato; invece restò accanto
al tavolo, a fissarmi. Sentii che il volto mi si stava imporporando.
Alla fine lui disse una cosa che mi parve molto intelligente.
«Hai una melanzana sulla faccia, piccola figlia di SakamotO.»
Si avvicinò a un cassetto e ne estrasse uno specchio perché
potessi guardarmi. Il mio labbro era gonfio e violaceo, come
aveva detto lui.
«Ma ciò che più mi interessa», continuò, «è sapere come
mai tu abbia quegli occhi straordinari e perché tu sia così diversa
da tuo padre.»
«Gli occhi sono quelli di mia madre», risposi. «Quanto a
mio padre, è talmente rugoso che non saprei dire quale sia in
realtà il suo aspetto.»
«Anche tu un giorno sarai rugosa.»
«Ma alcune delle sue rughe non dipendono dall'età», replicai.
«La parte posteriore della testa è vecchia quanto la fronte,
eppure è liscia come un uovo.»
«Questo non è un commento molto rispettoso nei confronti
di tuo padre», mi disse il signor Tanaka. «Però immagino che
sia vero.»
Poi aggiunse qualcos'altro che mi fece talmente arrossire che,
ne sono sicura, il mio labbro risultò al confronto quasi pallido.
«Ma come ha fatto un vecchio uomo rugoso con una testa
simile a un uovo a mettere al mondo una bambina bella come
te?»
Negli anni successivi sarei stata definita bella tante di quelle
volte che non saprei ricordarle tutte, anche se, com'è ovvio,
questo è un complimento che viene abitualmente rivolto alle
geishe, pure a quelle brutte. Ma quando il signor Tanaka me lo
disse, e a quei tempi non avevo la minima idea di che cosa fosse
una geisha, riuscii quasi a credere che fosse vero.
Dopo essere stata medicata al labbro dal dottor Miura e aver
comprato l'incenso come mio padre mi aveva chiesto di fare, mi
diressi verso casa in un tale stato di agitazione che, se fossi stata
un formicaio, non credo che dentro di me la frenesia sarebbe
stata maggiore. Avrei superato meglio quel momento se le mie
emozioni mi avessero tirato tutte nella stessa direzione, ma non
era così semplice. Venivo sbattuta di qua e di là come un foglio
di carta nel vento. In mezzo ai contrastanti pensieri relativi a
mia madre se ne annidava uno piacevole, nonostante il fastidio
che mi dava il labbro, e tentavo in tutti i modi di metterlo a fuoco.
Concerneva il signor Tanaka. Mi fermai sulla scogliera a fissare
il mare, con le onde che parevano ancora lame affilate benché
la bufera fosse ormai passata, e il cielo che aveva assunto la
tinta bruna del fango. Mi assicurai che nessuno mi stesse osservando,
poi mi strinsi l'incenso al petto e pronunciai il nome del
signor Tanaka nel vento che sibilava, più e più volte, finché non
mi sentii soddisfatta di aver udito la musica nascosta in ogni
sillaba. Lo so che può sembrare una sciocchezza... e non nego che
lo fosse. Ma io ero soltanto una bambina confusa.
Terminata la cena, mio padre scese al villaggio a vedere gli
altri pescatori giocare agli scacchi giapponesi e Satsu e io riordinammo
la cucina senza rivolgerci una sola parola. Io tentavo di
ricordare quali emozioni avesse suscitato in me il signor Tanaka,
ma nel silenzio gelido della casa ogni sensazione mi era sfuggita
di mente. Invece avvertivo un persistente ed agghiacciante
terrore al pensiero della malattia di mia madre. Mi ritrovai a
chiedermi quanto tempo ci restasse prima di doverla seppellire
nel cimitero del villaggio accanto agli altri familiari di mio
padre. Che ne sarebbe stato allora di me? Immaginai che, una volta
morta mia madre, Satsu ne avrebbe preso il posto. Fissai mia
sorella che stava strofinando la pentola di ferro in cui avevamo
cotto la minestra: sebbene ce l'avesse proprio davanti, e su di
essa tenesse puntato lo sguardo, capii che non la vedeva. Continuò
a strofinare a lungo, anche quando era perfettamente pulita.
Alla fine le dissi: «Satsu-san, non mi sento bene».
«Va' fuori e scalda l'acqua», mi rispose, mentre con una
mano bagnata si tirava indietro i capelli dagli occhi.
«Non voglio fare il bagno», replicai. «Satsu, la mamma sta
per morire...»
«Questa pentola è incrinata. Guarda!»
«Non è incrinata», dissi. «Quel segno c'è da un sacco di
tempo.»
«Ma come ha fatto l'acqua ad uscire?»
«L'hai rovesciata tu. Ti ho visto.»
Per un attimo capii che Satsu stava provando un'emozione
molto forte, che trasparì sul suo volto sotto forma di estremo
stupore, come le capitava spesso quando provava qualcosa. Ma
non mi disse altro. Tolse la pentola dalla stufa e si avviò verso la
porta per metterla fuori.
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