quest'oggi vorrei parlarvi di un libro che lessi qualche anno fa.
Agostini R.; Agostini M.
1
La prima volta che lo vidi fu al matrimonio di mio fratello, sotto il tendone del ricevimento.
Era in piedi, in una posa insolente e svogliata di chi avrebbe preferito trovarsi in piscina. Vestito in modo impeccabile. Ma chiaramente non si trattava del tipo che si guadagna da vivere seduto a una scrivania. Nessun capo Armani sarebbe riuscito a ridimensionare quella corporatura massiccia e prestante, da operaio dei pozzi di trivellazione o da cowboy abituato a montare tori ai rodei. Le sue lunghe dita, strette attorno a una flûte di champagne, avrebbero potuto spezzarne il gambo di cristallo con facilità.
Mi bastò uno sguardo per rendermi conto che si trattava di uno di quei bravi ragazzi che vanno a caccia, giocano a calcio o a poker e reggono l'alcol. Non proprio il mio tipo. Io ero interessata a qualcosa di più.
Tuttavia aveva un che di affascinante. Era decisamente bello nonostante la curva del naso che doveva essersi rotto in passato. I capelli bruni, folti e lucenti come pelliccia di visone, erano scalati. Ma furono gli occhi ad attirare la mia attenzione. Azzurri, di una intensità che non si poteva dimenticare una volta vista. Provai una scossa elettrica, quando girò lo sguardo nella mia direzione, fissandomi per un attimo.
Mi voltai immediatamente dall'altra parte, imbarazzata per essere stata sorpresa a spiarlo. Eppure mi sentivo ancora sotto il suo sguardo, sapevo che mi stava fissando perché un'ondata di calore mi stava avvolgendo la pelle. Terminai il mio champagne in rapidi sorsi, lasciando che le bollicine effervescenti calmassero i miei nervi. Soltanto dopo, arrischiai un'altra occhiata verso di lui.
Quegli occhi azzurri scintillavano con barbaro incanto. Un debole sorriso era infilato in un angolo della larga bocca. Non vorrei davvero trovarmi sola in camera con quel tipo pensai. Il suo sguardo scivolò verso il basso, come in una pigra ispezione, poi tornò a sollevarsi sul mio volto. E allora mi fece uno di quei rispettosi cenni del capo che i maschi del Texas hanno elevato a forma d'arte.
Questa volta mi girai di proposito dall'altra parte, indirizzando tutta l'attenzione su Nick, il mio ragazzo. Guardammo i novelli sposi danzare, i loro volti accostati. E mi alzai sulle punte dei piedi per sussurrare all'orecchio di Nick: «I prossimi saremo noi.»
Mi fece scivolare un braccio intorno alla vita. «Vedremo cosa ne dirà tuo padre.»
Nick aveva intenzione di chiedere a papà la mia mano. Una tradizione che io ritenevo antiquata e ormai superflua. Ma il mio ragazzo era un testardo.
«E cosa succede se papà non concede la sua approvazione?» chiesi. Considerato l'andamento della nostra famiglia - era raro che facessi qualcosa con l'approvazione di mio padre - si trattava di una possibilità mica tanto remota.
«Ci sposeremo lo stesso.» Indietreggiando un po', Nick mi sorrise. «Però, non mi dispiacerebbe convincerlo che non sono un così cattivo partito.»
«Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.» Mi rannicchiai nella curva del suo braccio. Pensavo che fosse un miracolo essere tanto amata da qualcuno quanto mi amava Nick. Nessun altro uomo, fosse stato anche un adone, riusciva minimamente a interessarmi.
Ricambiando il sorriso, gettai un'altra volta uno sguardo di lato, chiedendomi se l'uomo dagli occhi azzurri fosse ancora lì. Non so perché, ma provai un gran sollievo quando vidi che era andato via.
Mio fratello Gage aveva insistito per fare una cerimonia ristretta. Soltanto un gruppetto di persone era stato invitato nella piccola cappella di Houston, la stessa usata dai conquistadores spagnoli nel XVII secolo. Il rito era stato breve ma stupendo, l'atmosfera vibrava di tanta soffusa dolcezza che potevi sentirla fin sotto i piedi.
Il ricevimento, invece, era come un circo.
Si svolgeva nella nostra dimora, la villa dei Travis a River Oaks, una zona esclusiva di Houston i cui abitanti avevano molte più cose da confessare ai commercialisti che ai sacerdoti. Dal momento che Gage era il primo dei giovani Travis a sposarsi, papà intendeva approfittare dell'occasione per impressionare il mondo. O per lo meno il Texas, che nella visione di papà era la parte di mondo che soprattutto valeva la pena impressionare. Come molti altri texani, mio padre credeva fermamente che, se nel 1845 non fosse avvenuta l'annessione agli Stati Uniti, con ogni probabilità saremmo divenuti i leader del Nord America.
Così, per la reputazione familiare e per il fatto che gli occhi di tutto il Texas sarebbero stati puntati su di noi, papà aveva assunto una wedding planner, condensando in cinque parole le sue istruzioni: «Eccole il libretto degli assegni.»
Mio padre, Churchill Travis, era un noto mago dei mercati finanziari. Aveva creato un fondo d'investimento internazionale nel settore dell'energia, che era quasi raddoppiato nei primi dieci anni di vita. Il fondo comprendeva produttori di petrolio e gas, costruttori di oleodotti e gasdotti, fornitori di energia alternativa e carbone, in rappresentanza di quindici nazioni. Da piccola, non vedevo quasi mai papà; si trovava sempre in qualche remota località, a Singapore, in Nuova Zelanda o Giappone. Si recava spesso anche a Washington D.C. per pranzare con il presidente della Federal Reserve, o a New York per presiedere qualche tavola rotonda in uno dei programmi
televisivi sulla finanza. Fare colazione con mio padre significava sintonizzarsi sulla CNN e guardarlo negli studi televisivi analizzare i trend di mercato mentre noi, a casa, sbocconcellavamo i nostri waffles.
Dotato di un timbro di voce profondo e di una personalità esuberante, papà mi era sempre sembrato un uomo imponente. Soltanto quando divenni adolescente, mi resi conto che fisicamente non era poi così alto, tuttavia un galletto che dominava il pollaio. Disprezzava l'arrendevolezza e temeva che i suoi quattro figli - Gage, Jack, Joe e io - fossero viziati. Perciò quando era fra noi, si prendeva la briga di somministrarci massicce dosi di realismo, come cucchiaiate di un'amara medicina.
Quando mia madre Ava era ancora viva, era copresidente dell'annuale Festival del libro del Texas e durante le pause andava a fumare con Kinky Friedman, il folksinger scrittore. Era una donna affascinante: le sue erano le gambe più sexy di River Oaks e le feste che organizzava le più divertenti. Come si diceva allora, aveva la classe di una Dr Pepper alla spina. Dopo averla incontrata, gli uomini davano al papà del "fortunato bastardo", cosa che gli faceva un tremendo piacere. Lei era più di quanto lui meritasse, aveva proclamato papà a ogni occasione. Affermazione che, però, di solito concludeva con un risolino di scherno, perché aveva sempre creduto di meritare più di quello che gli sarebbe spettato.
Settecento ospiti furono invitati al ricevimento, ma se ne presentarono mille. La gente affollava le sale della nostra villa e all'aperto si stipava sotto l'enorme tendone bianco, ricoperto da milioni di lucine incantevoli e tappezzato da orchidee bianche e rosa. Nel caldo umido della serata primaverile le decorazioni floreali spandevano dolci effluvi profumati.
L'interno era rinfrescato dall'aria condizionata. La sala del buffet era divisa in due da un bancone frigorifero, lungo una decina di metri e ricolmo di ogni genere di frutti di mare. C'erano dodici sculture di ghiaccio fra cui una scolpita a mo' di fontana di champagne e un'altra a mo' di fontana di vodka costellata di caviale. Camerieri in guanti bianchi riempivano di vodka ghiacciata i calici e versavano il caviale su piccoli blini alla panna acida e uova di quaglia in salamoia.
Il buffet caldo, invece, offriva zuppiere di bisque di aragosta e, negli scaldavivande, fette di filetto affumicato al pecari, tonno grigliato e almeno una trentina di antipasti diversi. Avevo partecipato a numerose feste e cerimonie a Houston, ma in vita mia non avevo mai visto tanto cibo accumulato in un unico posto.
Giornalisti del "Houston Chronicle" e del "Texas Monthly" erano presenti e avrebbero parlato del ricevimento cui partecipavano ospiti importanti, come l'ex governatore e il sindaco, un famoso conduttore televisivo, gente di Hollywood e petrolieri. Tutti in attesa di Gage e Liberty, che si erano attardati alla piccola cappella per fare le fotografie.
Nick era abbastanza stordito. Proveniva da una rispettabile famiglia della media borghesia e un tale spettacolo era uno shock per i suoi valori. Anche la mia coscienza sociale, sebbene alle prime armi, era imbarazzata da tanti eccessi. Ero cambiata da quando avevo frequentato Wellesley, il college femminile il cui motto era "Non ministrari, sed ministrare" ("Non essere serviti, ma servire"). Avevo pensato che fosse un buon precetto da imparare, per una come me.
I miei familiari mi avevano preso in giro, dicendo che stavo attraversando una fase liberal. Papà, soprattutto, pensava che fossi il campione vivente della ragazza privilegiata che a un certo punto viene presa dal senso di colpa per le sue ricchezze.
Diressi la mia attenzione nuovamente alle lunghe tavolate con le vivande. Avevo organizzato tutto in modo tale che il
cibo rimasto venisse distribuito ad alcuni ricoveri per i poveri di Houston. La mia famiglia l'aveva trovata una buona idea.
Ma mi sentivo egualmente in colpa. Una falsa liberal, in coda per il caviale.
«Lo sapevi» chiesi a Nick mentre avanzavamo verso la fontana di vodka «che bisogna scavare l'equivalente di una tonnellata di rifiuti per trovare un diamante? Di conseguenza, per produrre tutti i diamanti che ci sono in questa stanza, bisognerebbe scavare quasi l'intera Australia.»
Nick finse di essere sbalordito. «L'ultima volta che ho controllato, l'Australia si trovava ancora al suo posto.» Fece scorrere le punte delle dita sulla mia spalla nuda. «Non prendertela, Haven. Non devi provarmi nulla. So chi sei.»
Eravamo entrambi texani, ma c'eravamo incontrati nel Massachussets. Io ero andata al Wellesley e Nick al Tufts. Lo avevo incrociato a una festa ispirata al tema "Il giro del mondo", organizzata in un grande centro escursionistico di Cambridge. A ogni stanza era stata assegnata una nazione differente, con la bevanda tipica. Vodka per la Russia, whisky per la Scozia, e via dicendo.
In qualche punto, tra il Sud America e il Giappone, andai a sbattere contro un ragazzo dai capelli scuri, con occhi brillanti color nocciola e un sorriso sicuro. Aveva un lungo corpo flessuoso da corridore e l'aria da intellettuale.
Con mio grande piacere, mi si rivolse con l'accento texano: «Forse dovresti concederti una pausa nel tuo tour mondiale. Almeno, finché non sei di nuovo sicura sulle gambe.»
«Sei di Houston» dissi.
Il suo sorriso si distese nell'udire il mio accento. «Nossignora.»
«San Antonio?»
«No.»
«Austin? Amarillo? El Paso?»
«No. No. E, grazie a Dio, neppure.»
«Allora sei di Dallas» notai con dispiacere. «Peccato, praticamente sei uno yankee.»
Nick mi condusse fuori, dove ci sedemmo sui gradini e parlammo per due ore nel freddo pungente.
Ci innamorammo subito. Ero pronta a qualsiasi cosa per Nick, a seguirlo dovunque. Ci saremmo sposati. E sarei diventata la moglie di Nicholas Tanner. Haven Travis Tanner. Nessuno poteva fermarmi.
Quando finalmente giunse il mio turno di ballare con papà, Al Jarreau stava cantando il melodioso ritornello di Accentuate the Positive. Nick era andato al bar coi miei fratelli Jack e Joe, e ci saremmo rivisti più tardi.
Nick era il primo uomo che avevo portato a casa. Il primo uomo che avevo amato. E l'unico con cui fossi andata a letto. Non avevo avuto molte occasioni o altri appuntamenti. Quando la mamma era morta di tumore, avevo quindici anni. E per un paio di anni dopo mi ero sentita troppo giù, troppo in colpa, anche solo al pensiero di avere delle amicizie. Poi ero andata al college femminile, ottimo per la mia educazione ma non altrettanto per la mia vita sentimentale.
Non era stato solo l'ambiente di ragazze a trattenermi. Molte di loro andavano a feste fuori dal campus o incontravano i ragazzi nei corsi integrativi ad Harvard e al MIT. Ero io il problema. Mi mancava qualcosa per attirare la gente, per dare e ricevere amore senza problemi. Era troppo per me. Sembrava che respingessi le persone che mi interessavano di più. Alla fine avevo pensato che far innamorare qualcuno di me era come tentare di persuadere un uccellino a beccare il cibo su un dito... Non sarebbe mai accaduto. A meno che avessi smesso di pensarci in modo ossessivo.
Così avevo rinunciato a pensarci. E, come volevasi dimostrare, proprio allora era accaduto. Avevo incontrato Nick. E ci eravamo innamorati. Lui era tutto quello che volevo. E questo doveva bastare alla mia famiglia. Ma i miei non l'avevano accettato. Allora, mi misi a rispondere a domande che nessuno mi poneva, dicendo, per esempio: «Sono proprio felice». Oppure: «Nick si sta specializzando in economia». Oppure: «Ci siamo conosciuti a una festa studentesca».
L'assenza di interesse da parte di papà e dei miei fratelli per Nick, per la nostra relazione e il nostro futuro, era esasperante. Era come un giudizio in sé, quel loro inquietante silenzio.
«Capisco, dolcezza», aveva commentato Todd, il mio migliore amico, quando al telefono mi ero sfogata con lui. Ci conoscevamo da quando avevamo dodici anni. Allora la sua famiglia si era trasferita a River Oaks. Il padre di Todd, Tim Phelan, era un artista le cui opere erano esposte in tutti i grandi musei, tra cui il MoMa di New York e il Kimbell Art Museum di Fort Worth.
I Phelan avevano sempre sconcertato i residenti di River Oaks. Erano vegetariani, i primi che avessi mai incontrato. Indossavano indumenti spiegazzati di canapa e calzavano sandali Birkenstock. In un quartiere dove predominavano due stili decorativi - l'english country e il texano-mediterraneo - i Phelan avevano dipinto ogni stanza della loro casa di un colore diverso, con atmosfere esotiche e motivi svolazzanti sui muri.
Ma ero ancora più affascinata dal fatto che i Phelan fossero buddhisti. "Buddhista": un termine che avevo sentito ancora più raramente di "vegetariano". Quella volta che chiesi a Todd cosa facessero i buddhisti, mi rispose che passavano molto tempo a contemplare la natura della realtà. Todd e i suoi genitori mi avevano perfino invitata a recarmi a un tempio buddhista con loro. Ma con mia grande delusione, i miei genitori si erano rifiutati. Ero una battista, mi disse mia madre, e i battisti non passano il loro tempo a riflettere sulla realtà.
Todd e io eravamo sempre stati molto intimi, al punto che gli altri pensavano che stessimo insieme. Non eravamo mai stati coinvolti a quel livello, ma il sentimento esistente fra noi non era neanche del tutto platonico. Non sapevo come spiegare cosa Todd rappresentasse per me e io per lui.
Todd era probabilmente l'essere umano più bello che avessi mai visto. Sottile e atletico, aveva i lineamenti fini, i capelli biondi e gli occhi del turchese trasparente del mar dei Caraibi, come si vede nelle fotografie sui dépliant turistici. C'era in lui un tocco felino, diverso da tutti gli altri maschi texani di mia conoscenza, così bulli. Una volta avevo domandato a Todd se fosse gay. E lui mi aveva risposto che uomo o donna gli era indifferente. Era più interessato all'interiorità di una persona.
«Quindi sei bisessuale?» avevo concluso. Lui aveva riso della mia insistenza ad appiccicargli un'etichetta.
«Credo di essere un bi-possibile» mi aveva risposto, premendo un caldo, spensierato bacio sulle mie labbra.
Nessuno mi conosceva, o mi capiva, meglio di Todd. Era il mio confidente. La persona che stava in ogni circostanza al mio fianco, pur non prendendo sempre le mie parti.
«È esattamente ciò che avrebbero fatto i tuoi. L'avevi detto» rispose Todd, quando gli confessai che la mia famiglia ignorava Nick. «Perciò non hai nulla di cui sorprenderti.»
«Anche se non è una sorpresa, non vuol dire che sia meno irritante.»
«Ricordati, però, che questo weekend non riguarda te o Nick, ma i due sposi.»
«I matrimoni non riguardano mai la sposa e lo sposo» affermai. «I matrimoni sono cerimonie pubbliche, il piedistallo di famiglie complicate.»
«Ma bisogna fingere per gli sposi. Perciò lasciati andare, divertiti. E aspetta a parlare di Nick con tuo padre, quando è finito il matrimonio.»
«Todd,» gli avevo chiesto in tono lamentoso «tu hai incontrato Nick. E ti piace, no?»
«Non posso rispondere a questa domanda.»
«Perché?»
«Perché se non lo capisci, niente che possa aggiungere potrebbe fartelo capire.»
«Cosa intendi dire?»
Ma Todd non aveva risposto a questa mia ultima domanda e io avevo riattaccato, sentendomi incompresa e insoddisfatta.
Sfortunatamente il consiglio di Todd andò in fumo, appena cominciai a ballare un foxtrot con papà.
Mio padre era rosso per lo champagne e la soddisfazione. Non aveva fatto mistero con nessuno del proprio desiderio che questo matrimonio fosse celebrato, e la notizia della gravidanza di mia cognata l'aveva rallegrato ancora di più. Le cose stavano procedendo proprio come voleva papà. Ero quasi certa che immagini di nipotini già gli vorticavano in testa. Generazioni di malleabile DNA, tutte a sua disposizione.
Papà aveva il petto carenato, le gambe corte, gli occhi neri e i capelli così folti che era impossibile scorgere il cuoio capelluto. Tutto ciò, oltre al mento alla tedesca, gli dava un certo fascino, anche se non si poteva considerare un uomo avvenente. Aveva sangue indiano, comanche, dal lato materno, e un bel po' di antenati tedeschi e scozzesi che, senza futuro nella loro nazione d'origine, erano emigrati in Texas alla ricerca di terre a buon mercato. Terre che non conoscevano inverni e attendevano solo le loro braccia per produrre prosperità. Invece, in Texas avevano trovato siccità, epidemie, indiani che li assalivano, blatte e scorpioni grandi più di un'unghia di un pollice.
Quei Travis che erano sopravvissuti a tutto ciò rappresentavano gli uomini più coriacei sulla faccia della terra, gente con la spina dorsale dritta, che non si arrendeva mai, finché non aveva ottenuto quello che voleva. Questo spiegava
la cocciutaggine di papà... e anche la mia. Eravamo molto simili, come ripeteva la mamma. Tutti e due pronti a far sempre di testa nostra. Entrambi smaniosi di saltare al di là della linea tirata dall'altro.
«Ehi, papà.»
«Sì, zucca. Dimmi.» Aveva la voce fonda, sicura, di chi non ha mai dovuto compiacere nessuno. «Sei molto graziosa stasera. Mi ricordi tua madre.»
«Grazie.» Gli apprezzamenti di papà erano rari. Mi fece piacere. Per il resto sapevo di avere poco in comune con mia madre.
Indossavo un abito da pomeriggio di satin, di una tinta verde acqua, con le spalline fermate da fibbie di cristallo. E avevo i piedi incapsulati in sandali d'argento, con sette centimetri di tacco. Liberty aveva insistito per farmi l'acconciatura. Aveva impiegato almeno quindici minuti per attorcigliare e puntare i miei lunghi boccoli neri in un modo ingannevolmente semplice, che non sarei mai riuscita a riprodurre. Liberty era solo di pochi anni più grande di me, eppure i suoi gesti erano materni, gentili, come di rado erano state le maniere di mia madre.
«Ecco» aveva mormorato Liberty una volta terminata la pettinatura. Aveva preso il piumino per incipriarmi il naso. «Perfetta.»
Era veramente difficile non provare simpatia per Liberty.
Mentre ballavo con papà, uno dei fotografi si avvicinò. Ci chinammo l'uno verso l'altra e con i visi accostati sorridemmo all'accecante lampo bianco. Dopo il flash tornammo alla distanza precedente.
«Domani, Nick e io torneremo nel Massachusetts» dissi. Avevo acquistato due biglietti in business class con la mia carta di credito. Dal momento che papà pagava la mia carta di credito, non potevo ignorare che fosse a conoscenza che il biglietto di Nick era stato pagato da me. Ma non aveva detto
nulla al riguardo. Per il momento. «Prima di partire» continuai «Nick desidera parlarti.»
«Non vedo l'ora.»
«Papà, vorrei che fossi gentile con lui.»
«Qualche volta ho le mie ragioni per non essere gentile. È un modo per vedere di che pasta uno è fatto.»
«Non hai bisogno di provare Nick. Devi solo rispettare le mie scelte.»
«Intende sposarti» disse papà.
«Sì.»
«E così pensa di comprarsi un biglietto di prima classe per il resto della vita. Ecco, tutto quello che rappresenti per lui, Haven.»
«Non hai mai pensato che qualcuno possa amarmi solo per quello che sono e non per i nostri soldi?»
«Non quello lì.»
«Spetta a me deciderlo» replicai. «Non a te.»
«Hai già deciso» disse papà.
Sebbene non si trattasse di una vera e propria domanda, annuii. Sì, avevo preso una decisione.
«Allora non chiedermi il permesso» proseguì papà. «Hai fatto una scelta e ne accetterai le conseguenze. Dannazione, tuo fratello non mi ha mai chiesto cosa pensassi del suo matrimonio con Liberty.»
«Ovvio. Tu hai fatto tutto il possibile per spingerli insieme. Tutti sanno che vai pazzo per lei.» Sorpresa dall'ombra di gelosia nella mia stessa voce, proseguii rapidamente: «Papà, non possiamo fare tutto normalmente? Io porto il mio fidanzato a casa, tu fingi di trovarlo simpatico, io vado avanti con la mia vita e ci vediamo in tutte le feste comandate». Atteggiai la bocca a un sorriso. «Ti prego, papà: non metterti di mezzo. Lasciami solo essere felice.»
«Non sarai felice con lui. È un perdente.»
«E come fai a dirlo? Avrai passato a malapena un'ora in compagnia di Nick.»
«Ho vissuto abbastanza per essere in grado di riconoscere un perdente, appena ne incontro uno.»
Non pensavo che avessimo alzato tanto il tono di voce, eppure cominciavamo a incrociare sguardi incuriositi. Mi resi conto che non era nemmeno necessario che alzassimo la voce, perché gli altri notassero la nostra discussione. Lottai per riprendere il controllo e continuai a muovere meccanicamente i piedi nei passi di danza. Ero fuori ritmo, ma non smisi di ballare.
«Ogni uomo che potrei desiderare, per te sarebbe un perdente» dissi. «A meno che non l'abbia scelto tu.»
Giudicai questa mia affermazione sufficientemente vera, per far sbottare mio padre. Che, invece, mi disse: «Ti concederò il permesso di sposarti. Ma dovrai trovarti qualcuno altro che ti accompagni all'altare. E non comparirmi davanti quando ti serviranno soldi per divorziare. Se lo sposi, ti escludo dall'eredità. Nessuno di voi due riceverà un soldo da me, capito? Se ha le palle per parlare con me domani, gli dirò proprio questo.»
«Grazie, papà.» Mi scostai da lui appena la musica cessò. «È stato veramente bello ballare con te.»
Mentre abbandonavo la pista da ballo, fui sfiorata da Carrington, che si stava precipitando a braccia aperte da mio padre. Era la sorellina di Liberty. «Tocca a me» gridò, come se ballare con Churchill Travis fosse la cosa migliore al mondo.
Pensai amaramente che, quando avevo nove anni, anch'io avevo provato la stessa sensazione.
Mi feci strada tra la folla. Riuscivo a distinguere solo bocche. Bocche che parlavano e ridevano. E bocche che
bevevano, mangiavano e lanciavano baci nell'aria. Il rumore, accumulandosi, mi offuscava la mente.
Diedi un'occhiata all'orologio a muro, appeso all'ingresso, un antico modello Ball che un tempo scandiva i minuti per la ferrovia Buffalo Bayou, Brazos & Colorado.
Erano le ventuno. Fra circa mezz'ora avrei dovuto incontrarmi con Liberty in una delle camere da letto al piano superiore. L'avrei aiutata a cambiarsi, per indossare il suo completo da viaggio. Non vedevo l'ora che finissero tutti quei riti. In un'unica serata, riuscivo a tollerare solo una dose di occhi umidi per la felicità.
Lo champagne mi aveva messo sete. Andai in cucina, dove trovai schierato l'intero staff dell'impresa di catering. Riuscii a trovare un bicchiere pulito in uno dei pensili. Lo riempii d'acqua del rubinetto e mi dissetai con lunghe sorsate.
«Mi scusi» disse un cameriere, cercando di farsi largo con uno scaldavivande fumante.
Mi accostai alla parete per lasciarlo passare e così scivolai nel salone ovale per le cene.
Con mio grande sollievo, colsi il profilo e le spalle di Nick, sotto lo scuro arco d'ingresso alla cantina di degustazione. Aveva già oltrepassato il cancelletto di ferro battuto, che aveva lasciato socchiuso. Sembrava che si stesse dirigendo verso la cantina a volta, foderata di botti in quercia il cui profumo addolciva l'aria. Pensai che il mio ragazzo si fosse stancato della folla e fosse venuto sul luogo del nostro appuntamento in anticipo. Volevo che mi abbracciasse. Avevo bisogno di un istante di pace in mezzo a quel chiasso assordante.
Costeggiando il tavolo imbandito per la cena, mi diressi verso la cantina. Il cancelletto si richiuse dietro di me con un suono netto. Raggiunsi con la mano l'interruttore, spensi la luce e scesi la scala.
Udii Nick mormorare «Ehi...»
«Sono io.» Mi fu facile individuarlo nell'oscurità. E feci una risata sommessa, quando con i palmi delle mani gli strofinai le spalle. «Come ti dona lo smoking.»
Fece per dire qualcosa, ma gli abbassai la testa finché la mia bocca socchiusa gli sfiorò il mento. «Mi sei mancato» sussurrai. «Non hai fatto neppure un ballo con me.»
Lui smise di respirare per un attimo e per un attimo io vacillai sui tacchi alti, mentre le sue mani si univano alle mie. Aspirai l'aroma zuccherato dei vini ma qualcos'altro mi riempì le narici ... un odore di pelle di maschio, pelle fresca come noce moscata o zenzero... o un altro aroma bruciato dal sole. Facendo pressione sulla nuca, incitai la sua bocca ad abbassarsi verso la mia e vi trovai un languido calore. Il gusto di champagne si sciolse nel morbido, intimo sapore di lui.
Con una mano mi percorse la spina dorsale, provocandomi un brivido e un dolce shock, quando il palmo caldo incontrò la mia pelle nuda. Sentii la forza della sua mano, e la dolcezza, nel momento in cui si chiuse sulla mia nuca, spingendomi la testa indietro. Le sue labbra sfiorarono appena le mie, fu la promessa di un bacio più che un bacio vero. Al lieve tocco delle sue labbra esalai un corto respiro e rimasi con il viso rivolto verso l'alto, desiderosa d'altro. Ed ecco una nuova fitta di piacere, una pressione vertiginosa nell'attimo in cui mi forzò la bocca con la sua. La lingua mi entrò in profondità, solleticando zone sensibili.
Cercai di circondarlo, trattenendolo con il mio corpo arcuato. La sua lingua si muoveva lentamente, mentre esplorava la mia bocca. Baci duri all'inizio che poi si sciolsero come sfatti al loro calore. Il piacere si fece più intenso, forti correnti di desiderio mi percorrevano, trasportando eccitazione. Non mi resi conto che stavo indietreggiando, premetti con le reni il bordo del tavolo di degustazione dei vini, la sua estremità appuntita mi entrò nella carne. Allora Nick mi sollevò con sorprendente facilità e mi ritrovai seduta sulla superficie gelida del tavolo. Mi aprì la bocca nuovamente, più a
lungo, più in profondità, con la sua lingua, mentre cercavo di raggiungere la sua e di attirarlo il più possibile dentro me. Desideravo stendermi, offrirmi a lui su quel marmo freddo e lasciargli fare quello che voleva. Qualcosa aveva sciolto i miei freni. Ero eccitata, come fossi ubriaca, e un motivo era che Nick, sempre così controllato, adesso mi sembrava stesse combattendo per trattenersi. Il suo respiro era irregolare, con le mani mi abbrancò il corpo.
Mi baciò il collo, scese lungo la pelle sottile ed eccitabile, finché le sue labbra sfiorarono il mio cuore pulsante. Ansimando, feci scorrere le dita fra i suoi capelli, così morbidi e folti, strati di seta sotto i miei polpastrelli.
Ma non erano i capelli di Nick!
Rabbrividii. Come se un pugno gelido mi avesse colpito allo stomaco. «Dio mio.» Fui appena in grado di emettere quelle due parole. Toccai il volto immerso nell'oscurità, incontrai lineamenti sconosciuti, la superficie della barba rasata e dura. Gli angoli degli occhi mi bruciavano, ma non sapevo se fossero lacrime di imbarazzo, di rabbia, paura o delusione. O qualche strana miscela di tutte queste sensazioni.
«Nick?»
Il mio polso fu circondato da una mano forte. Una bocca si strofinò dolcemente sulle mie dita aperte. E un bacio mi bruciò il centro del palmo.
Poi udii una voce fumosa e così profonda che avrei giurato provenisse dall'inferno. «Chi è Nick?»