quest'oggi vorrei parlarvi del romanzo d'esordio del giovanissimo autore Christoffer Carlsson, “lo strano caso di Stoccolma. Vincent Franke e la donna venuta dal nulla”. Con il quale l'autore ha ricevuto moltissimi riconoscimenti e la possibilità di farsi conoscere nel mondo con un altro suo nuovissimo romanzo “la casa segreta in fondo al bosco".
Titolo: lo strano caso di Stoccolma. Vincent Franke e la donna venuta dal nulla
Autore: Christoffer Carlsson
Editore: Newton Compton
Genere: Thriller
Pagine: 318
Recensione eseguita da Ilaria
Trama:
Vero e proprio caso letterario in Svezia, "Lo strano caso di Stoccolma" è l'esordio fulminante del giovanissimo Christoffer Carlsson: un thriller che colpisce al cuore, una storia di sconfitta e speranza, di squallore e rinascita, ambientata nella zona d'ombra della capitale svedese. È la storia di Vincent, un giovane tossicodipendente che vive nei bassifondi di Stoccolma e lascia il suo squallido appartamento solo per procurarsi le dosi. Ma la sua triste routine viene scossa quando, tornando a casa, trova una ragazza legata e bendata in salotto. La sconosciuta si presenta come Maria Magdalena: è stata minacciata di morte da una banda che ha poi deciso di tenerla prigioniera proprio lì. Non importa quale sia il segreto di quella ragazza: salvarla può dare un nuovo senso alla vita di Vincent. Mentre tra i due nasce un'impensabile alleanza, la loro fuga ci mostra un mondo sordido, popolato di spacciatori e poliziotti corrotti, prostitute e protettori, criminali spietati e vagabondi disperati.
Recensione:
Christoffer Carlsson attraverso questo romanzo ci narra di una Stoccolma dominata dalla violenza, dalla droga, dai circoli illegali e soprattutto come alcune donna native di paesi come l'Ucraina in particolare, a causa di gravi problemi economici, vengano indotte con l'inganno a prostituirsi. Vincent è uno spacciatore appena uscito di prigione. Vive in un piccolo appartamentino nei pressi della stazione, e nel tornare a casa si vede introdurre in casa dall'amico, che gli consegna la merce da spacciare, una donna . Non sa chi sia ed essendo straniera non riesce bene a comunicare lei. Nel momento in cui questa donna sparisce per essere consegnata al balordo che farà di lei una prostituta, Vincent scoprirà di essersene perdutamente innamorato essendo la copia sputata della ragazza di cui si innamorò al college. Inizia così la ricerca di questa ragazza venuta dal nulla, ma dietro l'angolo si nascondono solo violenza, distruzione e morte che segneranno inevitabilmente le vite dei due protagonisti.
Superfluo dire che la vicenda è narrata a Stoccolma, come vi è scritto nel titolo. La narrazione ricopre un arco di tempo di circa due settimane. L'autore porta avanti contemporaneamente, con grande abilità, due fili conduttori che aiutano il lettore a capire meglio il protagonista.
Narra la vicenda della ragazza venuta dal nulla e l'adolescenza di Vincent, mettendo in evidenza il suo difficile rapporto con il padre, i primi approcci alla droga e il funesto innamoramento con la bella Felicia. Vincent è il figlio di un dottore suicida, grazie al quale ha iniziato a consumare morfina alla tenera età di dodici anni. Può essere definito come il classico eroe romantico vittima. Un eroe che resosi conto, da vario tempo, dell' impossibilità di far emergere i propri ideali e nutrendo grande rancore ed astio nei confronti della società decide di arrendersi e di vivere una vita vuota.
Vincent è un uomo che non ha saputo affermarsi, che non è riuscito a far innamorare Felicia, isolato, chiuso in sé stesso finché non incontra la donna venuta dal nulla che gli mostrerà una possibile altra vita, fatta d'amore, famiglia, comunione e felicità. Maria è la donna venuta dal nulla di cui si parla nel titolo. Viene da un piccolo paese dell'Ucraina meridionale e a seguito di problemi economici decide di tentare la fortuna all'estero. Molte donne prima di lei tentarono, ma dietro a lavori come modella, cantante, balleria si nasconde un abominevole sfruttamento sessuale nel quale gli sfruttatori, oltre a maltrattare le donne, tendono a tenere per sé la maggior parte del denaro. In questo libro lo sfruttatore è Pastor, uomo influente e temuto da molti. Lui controlla il trafficking, il circolo della prostituzione. Dal romanzo non è ben chiaro se controlla solo i circoli di Stoccarda o anche quelli delle altre grandi città. Tutto quello che sappiamo si Pastor e di tutti gli altri personaggi sono le descrizioni che ne fa Vincent. Il narratore è lo stesso Vincent Franke che narra contemporaneamente, alternando la storia a capitoli, sia la sua infanzia e del perché sia diventato l'uomo che è oggi e la vicenda della donna venuta dal nullo. Il linguaggio è semplice, di facile comprensione. L'inglese che l'uomo utilizza per parlare con Maria è basilare e stentato, facilmente traducibile. I capitoli nel quale Vincent rievoca la sua infanzia sembrano una sorta di flash back che trasportano il protagonista nel passato, rendendo il lettore partecipe dei suoi insuccessi.
Nonostante l'interessante spunto letterario da cui è partito questo libro non risulta eclatante.
Il romanzo, malgrado si chiami “Lo strano caso di Stoccolma” non riporta nessuno strano caso, anzi la storia alla fin fine sembra prevedibile e scontata. Le descrizioni sono fatte con molta cura, sia quelle dei personaggi sia quelli dei luoghi, forse il tema avrebbe potuto essere approfondito di più e narrato in modo diverso, con più pathos e dinamismo. L'autore comunque, per essere il suo primo romanzo, è stato abili nelle descrizioni e nel riportare gli stati d'animo del protagonista. Mi auguro che con i suoi prossimi volumi sappia dimostrare maggior bravura. Consiglio il libro a chi voglia una letture leggera con la quale impiegare il tempo, mentre agli amanti di questo genere letterario consiglio di indirizzare il proprio interesse a libri più convolgenti.
"Colui che non può salvare se stesso salva qualcun altro". Vincent Franke
Estratto I Capitolo:
Vedo il mio riflesso nel vetro scuro della
vetrina. Ecco come tutto ha inizio.
L’immagine è deformata, bugiarda. Le mie
mani inquiete come uccelli. Dalla tasca interna
della giacca estraggo goffamente un pacchetto
di sigarette mezzo pieno, ne tiro fuori una e la
osservo. Poi la infilo tra le labbra e con un clic
la accendo, senza esitazioni.
Non chiudo gli occhi da due settimane.
Probabilmente sono due settimane che non
dormo. L’insonnia mi rende insicuro di me
stesso e del mio corpo.
Comincio a camminare. Il riflesso scuro mi
segue, esce dal margine della vetrina e poi
scompare. La locandina di un’edicola mi
informa su come bisogna vestirsi e apparire
quest’anno. La sigaretta ha un effetto
meraviglioso su di me e lentamente torno un
essere umano. Mi sento distaccato, fresco
come l’odore di banconote nuove di zecca,
libero da quello che ero una volta.
I movimenti e i pensieri fluttuano.
Ecco come tutto ha inizio.
Una fermata dell’autobus a Gullmarsplan,
non voglio prendere la metro. Sono uscito di
prigione da meno di due ore e adesso mi ritrovo
qui, come una persona qualsiasi, ad aspettare
un autobus. Sto per addormentarmi. Oscillare
tra euforia e stanchezza indescrivibile è
pericoloso, questo lo so. Non mi sono fatto la
barba e non voglio nemmeno pensare
all’aspetto dei capelli. La suola della mia
scarpa uccide la sigaretta.
Odore di gasolio. L’autista dell’autobus
sembra una rana che si è imbrattata di rossetto
la parte inferiore del muso. Il viaggio verso sud
procede sotto un cielo che va scurendosi. Sul
sedile accanto al mio c’è un quotidiano con un
articolo dal titolo La banda dei vigilantes
colpisce ancora. Oggi è un giorno qualsiasi. Le
persone man mano abbandonano l’autobus,
scendendo lungo la strada. Quando sono
abbastanza solo chiamo Marko. È uno di quegli
idioti che al telefono rispondono “bubù settete”.
«Bubù settete».
«Indovina chi è».
«Vincent». Marko sospira. «Maledizione»,
sibila.
In questo mondo un detenuto in attesa di
giudizio è peggio delle scorie radioattive.
Nessuno vuole toccarti finché ogni sospetto
non sia stato allontanato, e, a giudicare dalla
voce, la paura di Marko sembra autentica. Dal
telefonino si sente un brusio, come se stesse al
mare.
«Non hanno nessuna prova contro di me»,
dico per tranquillizzarlo.
«Dove sei?»
«Fuori».
«Ti vengo incontro, ci vediamo?»
«Non adesso. Prima vorrei tornare a casa e
verificare gli effetti della perquisizione di questo
fine settimana. Eventualmente sdraiarmi sul
letto e dormire un paio di giorni».
«Ma vuoi riprendere, giusto? Ho certa roba
che aspetta solo te». Sembra teso e stressato.
Mi chiedo se c’è qualcuno che gli tiene una
pistola puntata alla nuca in questo momento.
«Certo», dico. «Proprio come al solito».
Termino la conversazione e guardo fuori dal
finestrino. Il mondo scorre veloce come la
pellicola di un film. Arrivato alla porta di casa,
esito a girare la chiave. Per qualche motivo mi
sento agitato. Un ricordo dal Kronobergshäktet1
. Sto fissando delle lettere scritte con un
pennarello da chissà chi. Quei maledetti mi
vogliono incastrare. Dopo qualche giorno
dall’inizio della cura disintossicante mi rendo
conto che potrei essere stato io stesso a
scrivere quelle lettere. Ho passato diverse notti
sospeso tra incubi orribili che hanno quasi fatto
di me un aspirante suicida, contorcendomi nel
mio stesso vomito che è sempre più bile
acquosa che altro. Mi passa la stitichezza
causata della morfina e mi devono trascinare
all’infermeria del carcere. Tremo per i brividi
della febbre, mi sono cagato e vomitato
addosso, grido che mi vogliono fregare, che mi
vogliono incastrare. Riesco a dare una sberla in
faccia a un secondino e, nelle orme dietro di
noi, vedo gocce di bile, sangue e merda
verdastra, malata.
Non è una bella cosa, ma il secondino
sanguinante, un uomo in carne con un viso da
bulldog, mi ha rivolto uno sguardo di
commiserazione e nel suo rapporto ha
tralasciato di citare l’accaduto. Gliene sono
grato. Un’infermiera si è presa cura di me, mi ha
messo la flebo e si è preoccupata di impedire
che mi ingoiassi la lingua. Si chiama Lisbeth o
Elisabeth, non ricordo bene, ma ricordo di aver
addirittura provato a corromperla per farmi dare
del Ketogan, una forma sintetica di morfina che
a dire il vero non mi piace nemmeno. Si è
rifiutata di darmelo e per questo l’ho odiata.
Due settimane stremanti sono giunte al
termine e ho bisogno di un po’ di calma, di
sonno e qualcosa che mi faccia smettere di
pensare ai mostri nella mia mente.
Il nastro blu e bianco è stato strappato via
dalla porta, ma ne posso ancora scorgere i
resti. La casa in cui abito è il tipo di casa che si
trova in tutte le città svedesi. Si trova a due
minuti a piedi dalla stazione della metro
Björkhagen, ha lo stesso colore del palmo della
mia mano ed è costruita in freddo cemento,
quattro piani che si innalzano verso il cielo
senza ascensore. Le persone che ci abitano
hanno cognomi come Pettersson, Szopek e
Yang2 . Hanno mogli e figli e a volte li vedo nel
cortile. Il silenzio nella tromba delle scale mi fa
pensare che, a eccezione del sottoscritto, qui
dentro potrebbero essere tutti morti.
Ho comprato quest’appartamento sei mesi
fa, dopo aver guadagnato abbastanza da
mettere insieme una caparra di centomila
corone.
La porta si apre con un sibilo.
Sembra che nel mio appartamento sia
scoppiata una bomba. Qualsiasi idiota sa che
se sei uno spacciatore e tieni le scorte in casa
prima o poi ti beccheranno. Lo svantaggio nel
tenerla da qualche altra parte è che dopo una
perquisizione domiciliare la casa sembra una
zona di guerra, dal momento che la polizia non
è riuscita a trovare quello che cercava. Sul
pavimento in cucina hanno addirittura rimosso
una delle piastrelle. Credo abbiano usato un
piede di porco, perché accanto al buco ci sono
segni simili a ferite. Evidentemente erano
disperati.
A pensarci mi viene quasi da ridere.
Apro tutte le finestre, lascio entrare il mondo
nel mio appartamento. L’aria qua dentro è
marcia e il vento fresco mi purifica la mente,
calmandomi.
La libreria è stata svuotata, i libri, gettati in
un mucchio sul pavimento, sembrano pronti per
un rogo. Tutti i vestiti sono sparsi davanti al
guardaroba che è rimasto aperto. Stoviglie rotte
in cucina. Mi torna in mente una mia fidanzata
di qualche anno fa, una feticista delle stoviglie
di ceramica. Ogni volta che litigavamo me le
lanciava addosso. Era una relazione molto
dispendiosa, ma stavo con lei perché potevo
fregarle dei soldi. Ho chiuso semplicemente
smettendo di rispondere alle sue chiamate.
Il letto è capovolto, le gambe puntano verso
il soffitto come antenne, sembra un insetto
morto. Comincio a mettere a posto, ma ben
presto perdo interesse per l’impresa.
Rigiro il letto, infilo i libri nella libreria e
chiudo l’anta del guardaroba. Il fatto che i vestiti
si trovino dove sono forse rappresenta un
vantaggio. Sono troppo stanco per pensare in
maniera logica e sento la pelle elettrica e
carica, come se fossi stato al sole troppo a
lungo.
Chiudo le finestre, fisso il cielo per un
momento e mi sdraio supino sul letto. Il soffitto
non smette di muoversi. L’immagine del cielo,
troppo vasta per essere afferrata in un unico
sguardo, è fissa sulle mie retine quando mi
addormento.
Dal sonno passo allo svenimento, profondo
come una morte apparente.
Il suono del campanello mi riporta in
superficie. Non so quanto ho dormito. Potrebbe
trattarsi di un quarto d’ora come di
ventiquattr’ore.
Marko. I suoi capelli castani e ricci ricordano
il pelo di un cane, lo sguardo inquieto vaga
avanti e indietro. Indossa una giacca militare
verde chiaro, jeans consumati e scarponi che
sembrano aver camminato nel fango.
«Cazzo, che bello vederti, Vincent». I suoi
occhi mi scrutano. «Sembri stanco».
«Sto dormendo. Credo». Quando chiudo gli
occhi sento un bruciore dietro le palpebre e il
cuore che batte contro la spina dorsale. «Non
ne sono proprio sicuro».
«Quando si tratta di te non c’è niente di
sicuro, Vincent», sentenzia Marko e mi è
difficile stabilire se sia contento di vedermi o più
che altro preoccupato. Sembra ancora agitato e
questo mi innervosisce, ma è lui quello che mi
rimedia la roba da spacciare. Devo tenermelo
buono.
I pensieri tornano lentamente alla realtà. Mi
allunga un pacchetto marrone, grande come
una scatola di scarpe e chiuso con dello scotch
argentato.
«La roba della settimana», dice.
«E...»
Sorride. I denti di Marko sono storti quanto
le lapidi di un vecchio cimitero, quando sorride
la sua bocca sembra quella di un morto. Dalla
tasca pesca un contenitore abbastanza grande
da ospitare un rullino fotografico.
«Per te», dice, mettendomelo in mano.
Finalmente. Due settimane sono un periodo
troppo lungo. Sul contenitore c’è un’etichetta
adesiva bianca, con una scritta in russo o forse
ucraino. Non ho la minima idea di cosa
significhi. Con una certa apprensione chiedo a
Marko se è roba sintetica. I preparati sintetici
sono più difficili da trovare, e quindi più
richiesti. Questa è la logica. Ma a me la morfina
sintetica non piace. L’ho presa un paio di volte
e l’unico effetto è stato un intorpidimento della
lingua che per diversi giorni mi ha reso difficile
parlare in maniera intellegibile e sentire i
sapori. Improbabile che faccia bene alla salute.
«No», risponde. «No, questa è la buona
vecchia merda di una volta». Annuisco e gli
dico che ho bisogno di dormire. Che non dormo
da due settimane.
«Posso immaginarlo». Annuisce
lentamente. «Il carcere è un incubo».
Non posso fare a meno di ridere.
«Come se ne sapessi qualcosa, tu».
Marko fa spallucce e allarga le braccia.
«Forse passo da te più tardi», dice. «Pare
che dobbiamo fare una cosa e se si mette male
può darsi che avrò bisogno del tuo aiuto».
Aiuto significa più droga e più droga
significa più soldi, il che è una cosa buona.
Sono più povero di una pornostar cui sia stato
amputato il sesso.
«Certo».
Marko sembra esitare. Piega la testa di lato,
guarda il contenitore nero nella mia mano e poi
giù verso il pavimento.
«Vedi di rimanere lucido», dice infine,
facendo un cenno con la testa verso il
contenitore.
«Almeno fino a domani».
«Certo», ripeto alzando le spalle.
Gli chiudo la porta alle spalle e appoggio il
pacchetto vicino al letto per ricordarmi di
portarlo via da casa non appena mi sveglio.
Marko dovrebbe sapere che non è possibile
lasciarmi un contenitore e pretendere che non
lo tocchi. Ne estraggo una capsula e mi sdraio
di schiena. Socchiudo gli occhi e soppeso la
capsula nella mano. Dovrei valutare le
conseguenze, ma vengo colto da una strana
sensazione, come una striscia argentata di
speranza sulle palpebre, e mi rendo conto che
tutto, entro poco, soltanto un attimo, mi
sembrerà gestibile. Tutto andrà bene, basta
ingoiarla.
La capsula si muove attraverso il mio
sistema digerente e sento un bruciore nello
stomaco vuoto quando la morfina trova il suo
posto, da qualche parte in quel buio profondo.
La botta, la calma euforica, arriva dopo un
tempo che sembra durare una notte intera, ma
che in realtà non può essere più lungo di un
paio di minuti, la stanchezza si trasforma in
tranquillità e io svanisco, svanisco.
Mi riporta alla vita un rumore martellante che
mi fracassa i timpani. Ho l’impressione di
trovarmi ancora in carcere e provo la
claustrofobica sensazione di vivere in un cubo.
L’angoscia mi avvolge come una nebbia. Poi
mi rendo conto che mi trovo nel mio
appartamento e provo un sollievo indescrivibile.
La vista mi trema, un’immagine
frammentaria di mio padre, il suo viso vuoto, un
ricordo che mi fa irrigidire.
La porta. I colpi provengono dalla porta. È
buio intorno, ma i pochi colori che riesco a
distinguere sono tanto forti da sconvolgermi.
Una bella opera d’arte. Sono ancora fatto in
maniera curiosa. Vacillo di nuovo fino alla porta
e la apro senza riflettere.
Marko fa entrare qualcuno a spintoni nel mio
appartamento, una figura nera. Mi oltrepassa
senza emettere suono e sparisce.
«Vincent», sibila. «Ti avevo detto...».
Il suo respiro è pesante come quello di un
cane rabbioso. I capelli ricci luccicano per la
pioggia o per il sudore. O entrambe le cose.
Mi guardo i piedi, vergognandomi.
«Devi occuparti di lei», prosegue. «Una
settimana al massimo, finché le acque non si
saranno calmate. Mi faccio sentire appena
posso. Ma non farla uscire, ok? Hai capito?».
Nello stato in cui mi trovo farei qualsiasi
cosa per continuare a dormire. Non riesco a
controllare i muscoli della nuca, è come se la
mia testa fosse fissata a una molla non
sufficientemente tesa.
«Hai capito, Vincent?»
«Cosa?»
«Hai capito?»
«Sì, certo».
Qualsiasi cosa purché se ne vada. Mi
guarda esitante un’ultima volta prima di voltarsi.
Quando chiudo la porta, sento i suoi passi per
le scale, veloci e pesanti.
Ritorno a letto e prima di addormentarmi di
nuovo mi chiedo cosa stia succedendo,
cosciente solo in parte del fatto che una
sagoma silenziosa e scura si trova nel mio
appartamento.