Buongiorno lettori di Bookcret,
a breve Pam pubblicherà la sua recensione di Beautiful Bastard ma, nel frattempo vi posto
il primo capitolo del libro che andrò a recensire per voi domani,
Il diario di velluto cremisi di Sara Jio.
I capitolo:
«Mi sembra che ci siamo», disse Joel,
sporgendosi dalla porta dell'appartamento. Si guardò intorno, quasi
stesse cercando di memorizzare ogni dettaglio di quella casa su due
livelli, tipica della New York fin de siècle, che avevamo comprato e
restaurato insieme cinque anni prima, in tempi ben più felici. Era
uno spettacolo: l'ingresso col suo arco elegante, la bella mensola
del camino, scovata in un negozio di antiquariato nel Connecticut e
portata a casa con la stessa cura che avremmo riservato a un tesoro,
l'opulenza delle pareti della sala da pranzo... Eravamo stati a lungo
incerti sul colore e infine avevamo scelto un rosso marocco, che dava
alla stanza un'atmosfera malinconica ed eccentrica insieme, un po'
come il nostro matrimonio. Osservando il risultato, Joel aveva deciso
che virava troppo all'arancione. Io invece avevo pensato che era
semplicemente perfetto.
I nostri occhi s'incontrarono, ma io
abbassai in fretta lo sguardo sul dispenser che avevo in mano e
staccai un altro pezzo di nastro adesivo, appiccicandolo sullo
scatolone. Era l'ultimo contenitore della roba di Joel, roba che lui
era venuto a riprendersi. «Un momento», dissi, ricordandomi di un
libro rilegato in pelle blu che avevo visto in un altro scatolone,
ormai chiuso. «Hai mica preso la mia copia di Years of Grace, vero?»
gli chiesi in tono accusatorio, fissandolo.
Avevo letto quel romanzo sei anni
prima, durante la nostra luna di miele a Tahiti. Ma non era certo il
ricordo del viaggio che volevo evocare attraverso le pagine consunte
di quel volume. Chissà com'era finito lì, nella polverosa catasta
di libri a disposizione degli ospiti del resort, quel romanzo della
vincitrice del premio Pulitzer del 1931, Margaret Ayer Barnes.
Eppure, quando l'avevo tirato fuori dal mucchio e lo avevo aperto,
facendone scricchiolare il fragile dorso, avevo sentito una stretta
al cuore e provato un senso di familiarità tanto inspiegabile quanto
profondo. La storia raccontata in quelle pagine, una toccante vicenda
di amore, di perdita e di accettazione, di passioni segrete e di
pensieri forti e mai espressi, aveva cambiato per sempre il modo in
cui vedevo la mia scrittura. Forse era addirittura stata la ragione
per cui avevo smesso di scrivere. Joel non aveva mai letto il libro,
e io ne ero contenta. Era una cosa troppo intima per condividerlo con
lui. Come se quelle fossero le pagine di un mio ipotetico diario.
Sollevai il nastro adesivo e aprii lo
scatolone, frugandoci dentro. Quando trovai il romanzo, mi concessi
un sospiro che rese palpabile tutto il mio sconforto.
«Scusa», mormorò Joel. «Non mi ero
reso conto che tu...»
Non si era reso conto di un sacco di
cose su di me. Strinsi saldamente il libro, poi sigillai di nuovo lo
scatolone. «Immagino sia tutto», dissi, alzandomi.
Mi rivolse un'occhiata circospetta, e
io stavolta lo fissai. Per qualche altra ora – almeno fino al
pomeriggio, finché non avessi firmato le carte del divorzio –
sarebbe stato ancora mio marito. Ma era difficile guardare quegli
occhi marroni sapendo che mio marito mi stava lasciando. Per un'altra
donna. Come siamo arrivati a questo punto?
Continuavo a rivedere nella mente la
scena finale della nostra storia, proprio come se fosse un film. Era
un piovoso lunedì mattina di novembre e io stavo mettendo il tabasco
sulle uova strapazzate, come piaceva a lui. Era stato allora che mi
aveva detto di Stephanie. Di come lo faceva ridere. Di come lo
capiva. Di come loro due coincidevano. Immaginai due pezzi di Lego
che s'incastravano e rabbrividii. Buffo: se ripenso a quella mattina,
riesco a sentire l'odore di uova bruciacchiate e tabasco. Se avessi
saputo che quello sarebbe stato l'odore della fine del mio
matrimonio, avrei fatto i pancake.
Gli occhi di Joel erano tristi e
incerti. Forse, se mi fossi gettata tra le sue braccia, mi avrebbe
stretto a sé con lo slancio di un marito pentito, non se ne sarebbe
andato, non avrebbe chiuso la nostra storia. Ma ormai il danno è
fatto, mi dissi. Il nostro destino è deciso. «Addio, Joel»,
mormorai. Il cuore mi diceva di chiedergli di rimanere, ma il mio
cervello aveva più buon senso. Lui aveva bisogno di andarsene.
Sembrò ferito. «Emily, io...»
Cercava comprensione? Voleva una
seconda possibilità? Non lo sapevo. Allungai la mano, come per
impedirgli di andare avanti. «Addio», ripetei, facendo appello a
tutte le mie forze.
Lui annuì, poi si girò. Serrai gli
occhi. Sentii il rumore della porta che si apriva e si richiudeva.
Poi quello della chiave che girava nella serratura. Quel gesto mi
fece quasi arrestare il cuore nel petto. Gli importa ancora di me...
Be', se non altro, gli importa della mia sicurezza. Scossi la testa e
mi dissi che dovevo far cambiare la serratura al più presto. Poi
ascoltai i suoi passi che si allontanavano finché anche quel suono
non venne cancellato dai rumori della strada.
Quando il telefono trillò, mi resi
conto che ero seduta sul pavimento, completamente assorta nella
lettura di Years of Grace. Da quanto tempo Joel se n'era andato? Da
pochi minuti? Da un'ora? Non avrei saputo dirlo.
«Allora, arrivi?» Era Annabelle, la
mia migliore amica. «Mi hai promesso che non avresti firmato le
carte del divorzio da sola.»
Disorientata, guardai l'orologio. Avrei
dovuto incontrarla al ristorante quasi un'ora prima. «Scusa,
Annie...» borbottai, cercando le chiavi nella borsetta e vedendo
così la temuta busta gialla. «Tra poco sono lì.» Il Calumet, il
nostro locale preferito per il pranzo, era a quattro isolati dal mio
appartamento.
«Ti ordino qualcosa da bere.»
Dieci minuti dopo, Annie mi accolse con
un abbraccio. «Hai fame?» chiese, dopo che ci fummo sedute.
«No», sospirai.
Lei aggrottò le sopracciglia.
«Carboidrati», dichiarò, passandomi il cestino del pane. «Hai
bisogno di carboidrati. Allora: dove sono quelle carte? Facciamola
finita.»
Estrassi la busta dalla borsetta e la
misi sul tavolo, fissandola come se fosse un candelotto di dinamite.
«Ti rendi conto che è tutta colpa
tua?» chiese Annabelle, con un mezzo sorriso.
Le lanciai un'occhiataccia. «Come
sarebbe a dire?»
«Non si sposano uomini di nome Joel»,
continuò, in tono di disapprovazione. «Puoi uscire con un Joel,
lasciare che ti offra un drink, che ti compri un bel gingillo da
Tiffany, ma non lo puoi sposare.» Annabelle stava lavorando al suo
PhD in antropologia sociale. Nei due anni di ricerca, aveva
analizzato una valanga di dati su matrimoni e divorzi, ma l'aveva
fatto in modo non convenzionale. Ed era giunta alla conclusione che
la durata di un matrimonio era direttamente correlata al nome di
battesimo dell'uomo. Con un Eli, era probabile che la felicità
coniugale durasse 12,3 anni. Con un Brad? 6,4 anni. Con uno Steve?
Tutto languiva dopo appena quattro anni. E, sempre secondo Annabelle,
non bisognava mai – mai – sposare un Preston.
«Ripetimi un po' cosa dicono i tuoi
dati riguardo agli uomini di nome Joel.»
«Durata del matrimonio: 7,2 anni»,
dichiarò in tono pragmatico.
Annuii. Eravamo stati sposati per sei
anni e due settimane.
«Dovresti trovarti un Trent»,
continuò.
Feci una smorfia. «Odio quel nome.»
«Okay, allora un Edward o un Bill
oppure... ecco, sì, un Bruce», esclamò. «Questi sono marchi di
longevità coniugale.»
«E sono anche nomi un po'... passati
di moda», commentai, sarcastica. «Forse dovresti portarmi a caccia
di mariti in una casa di riposo.»
Annabelle è alta e sottile e molto
bella, sul tipo Julia Roberts: lunghi capelli bruni ondulati, pelle
di porcellana e intensi occhi scuri. A trentatré anni, non è mai
stata sposata. La ragione – direbbe lei – è il jazz. Non è
ancora riuscita a trovare un uomo cui piacciano Miles Davis e Herbie
Hancock tanto quanto piacciono a lei.
Fece un cenno al cameriere. «Altri
due, per favore.» Lui portò via in fretta il mio Martini, lasciando
un cerchio umido sul tavolo.
«È ora», mormorò Annabelle.
La mia mano tremava un po' mentre la
infilavo nella busta e tiravo fuori un fascio di documenti spesso un
centimetro. L'assistente del mio avvocato aveva segnato tre pagine
con vari post-it rosa shocking su cui c'era scritto FIRMARE QUI.
Presi una penna dalla borsetta. Sentii
un groppo in gola quando apposi la mia firma sulla prima pagina e poi
sulla successiva e poi su quella successiva ancora. Emily Wilson, con
una y allungata e una n decisa. Firmavo così fin dalla quinta
elementare. Poi scarabocchiai la data: 28 febbraio 2005.
Il giorno in cui il mio matrimonio era
stato seppellito.«Brava», esclamò Annabelle, spingendo verso di me
un altro Martini. «Allora, hai intenzione di scrivere su Joel?»
Essendo io una scrittrice, anche lei –
come tutti quelli che conoscevo – pensava che la miglior vendetta
sarebbe stata un romanzo che, in modo sottilmente velato, descrivesse
la mia relazione con Joel.
«Di materiale ne hai. Però cambiagli
il nome», continuò. «Magari chiamalo Joe e descrivilo come un
cretino totale.» Mangiò un boccone e quasi le andò di traverso,
prima che dicesse, ridendo: «Un cretino totale con problemi di
erezione».
Vendetta o non vendetta, non pensavo
affatto a un romanzo su Joel. Sarebbe stato un libro orribile. Ma il
problema era un altro: ammesso di riuscire a scrivere qualcosa, già
sapevo che sarebbe stato del tutto privo di slancio, d'ispirazione.
Lo sapevo perché, negli ultimi otto anni, ci avevo provato: mi
svegliavo, mi sedevo alla scrivania e rimanevo lì, immobile, a
fissare lo schermo vuoto. Qualche volta riuscivo a scrivere una bella
frase o addirittura qualche bella pagina, ma poi mi bloccavo, come se
fossi congelata. E non c'era verso di sciogliere il ghiaccio. La mia
terapista, Bonnie, lo chiamava «blocco clinico dello scrittore».
Come dire: «blocco terminale». La mia musa si era ammalata e la sua
prognosi non era delle migliori.
Otto anni prima avevo scritto un
romanzo che era diventato un best seller. Otto anni prima ero al
culmine della felicità. Ero magra – non che adesso sia grassa...
be', forse sulle cosce sì, un pochino – ed ero entrata nella
classifica del New York Times dei libri più venduti. E, se il New
York Times avesse avuto la classifica delle vite più felici, sarei
stata pure in quella.
Dopo il successo di In cerca di Ali
Larson – questo era il titolo del mio romanzo –, la mia agente mi
aveva detto che i lettori volevano un sequel. E che il mio editore
era disposto a raddoppiarmi l'anticipo. Ce l'avevo messa tutta, però
non avevo trovato nient'altro da scrivere, nient'altro da dire. E,
alla fine, l'agente aveva smesso di telefonarmi, l'editore aveva
smesso di chiedermi quando avrei consegnato il libro e i lettori
avevano smesso d'interessarsi a un seguito. Le uniche prove che la
mia vita precedente non era stata un semplice parto della mia
fantasia erano i pagamenti dei diritti d'autore che arrivavano di
tanto in tanto e le sporadiche lettere di un certo Lester McCain,
convinto di essersi innamorato di Ali, la protagonista.
Ricordo ancora l'eccitazione provata
quando, alla festa per l'uscita del mio libro, avevo conosciuto Joel.
Eravamo al Madison Park Hotel e lui era stato invitato a un cocktail
party che si teneva in quello stesso albergo. A un certo punto, io mi
ero fermata sulla soglia della sala. Indossavo un abito di Betsey
Johnson, che nel 1997 era il non plus ultra: un vestito nero senza
spalline per cui avevo speso una somma imbarazzante... Ma ne era
valsa la pena. Era ancora nel mio armadio.
All'improvviso, provai il forte impulso
di andare a casa e di bruciarlo.
«Sei favolosa», mi aveva mormorato
lui, senza neppure presentarsi. Rammento benissimo cosa avevo
provato. Probabilmente diceva così a tutte le donne che voleva
abbordare... Anzi lo faceva di certo. Però mi ero sentita la donna
più bella del mondo. Quello era il suo stile.
Pochi mesi prima, GQ aveva pubblicato
un servizio sugli scapoli americani più appetibili. No, non la lista
sulla quale, ogni due anni, figura George Clooney; questa era
riservata agli uomini «normali»: c'erano un surfista di San Diego,
un dentista della Pennsylvania, un insegnante di Detroit e, sì, un
avvocato di New York, Joel. Si era piazzato tra i primi dieci. E, in
qualche modo, io l'avevo acchiappato.
E adesso l'avevo perso.
Annabelle stava sventolando le mani.
«Terra chiama Emily!»
«Scusa», dissi, rabbrividendo. «No,
non scriverò su Joel.» Scossi la testa, infilai di nuovo i
documenti nella busta, poi la misi nella borsetta. «Se scriverò
ancora qualcosa, sarà diverso da qualsiasi storia che mi sia mai
passata per la mente.»
«Ma... non stavi scrivendo il seguito
del tuo romanzo?» chiese Annabelle, con uno sguardo confuso.
«Non più», risposi, piegando un
tovagliolo di carta a metà e poi di nuovo a metà.
«Perché no?»
Sospirai. «Non ci riesco. Non posso
costringermi a sfornare una montagna di frasi mediocri, anche se ciò
significherebbe un bel contratto e migliaia di lettori col mio
romanzo tra le mani durante le loro vacanze al mare. Te l'ho detto:
ammesso e non concesso di riprendere a scrivere, racconterò una
storia completamente diversa da quelle che ho raccontato finora.»
Annabelle pareva sul punto di alzarsi e
applaudire. «Stai facendo un importante passo avanti», esclamò.
«Ma figurati», commentai, cupa.
«Invece sì», replicò lei.
«Analizziamo un po' questa cosa.» Congiunse le mani. «Hai detto
che vuoi scrivere qualcosa di completamente diverso ma, secondo me,
volevi dire che nel tuo romanzo non c'era cuore.»
«Forse», borbottai, con un'alzata di
spalle.
Annabelle recuperò un'oliva dal
Martini e se la infilò in bocca. «Perché non scrivi di qualcosa di
cui t'importa veramente? Che ne so, di un posto o di una persona che
ti hanno ispirato?»
«Non è quello che cercano di fare
tutti gli scrittori?»
«Già.» Cacciò il cameriere con
un'espressione che significava: «No, non vogliamo il conto», poi si
girò di nuovo verso di me. «Ma ci hai provato sul serio? Voglio
dire, il tuo romanzo era fantastico – lo era davvero, Em –, ma
aveva qualcosa di veramente tuo?»
Aveva ragione. Era una bella storia...
Era un best seller, che diamine. Allora perché non ne ero
orgogliosa? Perché mi sembrava che non mi appartenesse?
«Ti conosco da un sacco di tempo, e so
che quella vicenda non è nata dalla tua vita, dalle tue esperienze.»
Di nuovo, aveva ragione. Pensai ai miei
genitori e ai miei nonni, poi scossi la testa. «È proprio questo il
problema. Certi scrittori hanno molto cui attingere: una madre
malvagia, un'infanzia avventurosa... La mia vita è stata il trionfo
della banalità. Nessuna scomparsa, nessun trauma, neppure quello
della morte di un cucciolo, per dire. Il gatto di mia madre, Oscar,
ha ventidue anni. Non ho nulla d'interessante su cui basarmi.
Credimi: ci ho pensato a lungo.»
«Sono convinta che tu non abbia
abbastanza fiducia in te stessa», replicò. «Deve esserci
qualcosa.»
Lasciai vagare la mente e, in quel
preciso istante, ricordai la prozia Bee, la zia di mia madre, e la
sua casa a Bainbridge Island, nello Stato di Washington. Quanto mi
mancava l'isola... Com'era possibile che avessi lasciato passare
tanti anni dalla mia ultima visita? Non avendo avuto figli, Bee aveva
riversato tutto il suo affetto su di me e su mia sorella Danielle. Ci
aveva sempre mandato biglietti di compleanno che custodivano
fruscianti banconote da cinquanta dollari, incredibili regali di
Natale e persino dolci a San Valentino; d'estate, quando andavamo a
trovarla sull'isola, infilava dei cioccolatini sotto i nostri
cuscini, scatenando le ire di mia madre, che gridava: «Ma si sono
appena lavate i denti!»
Bee era sempre stata
un'anticonformista. E, anche se non la vedevo da parecchio, ero
sicura che quella donna di ottantacinque anni si comportava ancora
come se ne avesse ventinove. Eppure c'era sempre stato qualcosa di
strano in lei. A volte parlava troppo e altre volte era
silenziosissima. Alternava slanci di generosità ad atteggiamenti
egoistici. Era affettuosa, ma anche irritabile. E poi c'erano i suoi
segreti. A me bastava il fatto che ne avesse a rendermela cara, però
capivo che non per tutti era così. Mia madre sosteneva che quel modo
di comportarsi dipendeva dal fatto che Bee aveva vissuto troppo a
lungo da sola, diventando indifferente alle proprie manie. Io non ne
ero così sicura, forse perché ero preoccupata all'idea di rimanere
zitella. Mi limitavo a tenere gli occhi aperti in attesa di qualche
segno premonitore.
Bee... Me la vedevo, seduta al tavolo
di cucina. Da quando la conoscevo, la sua colazione non era mai
cambiata: pane preparato con lievito naturale, tostato e spalmato con
burro e miele. Affettava il pane, di un colore bruno dorato, in
quattro quadratini e li disponeva su un foglio di carta da cucina
piegato a metà. Poi, su ogni pezzo, metteva un grosso ricciolo di
burro ammorbidito, spesso come la glassa su un cupcake, e infine una
bella cucchiaiata di miele. Da bambina, gliel'avevo visto fare
centinaia di volte e, adesso, se sono malata, il pane preparato con
lievito naturale, tostato e con burro e miele ha per me la stessa
efficacia di una medicina.
Bee non era mai stata bella: più alta
di molti uomini, aveva un viso troppo largo, spalle troppo ampie e
denti troppo grandi. Tuttavia le foto in bianco e nero di quand'era
giovane rivelavano qualcosa, un barlume di grazia e di fascino...
anche se forse, a vent'anni, tutte le donne possiedono qualcosa di
simile. Rammentavo bene una foto che la ritraeva proprio a quell'età,
e che era appesa nel corridoio della casa della mia infanzia, a
Portland, nell'Oregon: non esattamente al posto d'onore, dato che
bisognava salire su una scaletta per vederla bene. In quella foto,
racchiusa in una cornice coperta di conchiglie, c'era una Bee che non
avevo mai conosciuto. Era seduta con un gruppo di amici su un telo da
spiaggia; sembrava spensierata e sorrideva in modo seducente, con una
mano intrecciata alla collana di perle che le cingeva il collo.
Un'altra donna si sporgeva verso di lei, sussurrandole qualcosa
all'orecchio. Un segreto, avevo sempre pensato. Gli occhi di Bee
avevano una luce che non avevo mai colto in lei quando guardava zio
Bill. Mi ero sempre chiesta chi avesse scattato quella foto, chi lei
stesse guardando con quell'intensità.
«Cos'ha detto?» L'avevo chiesto un
giorno di tanti anni prima a mia madre, scrutando dal basso la
fotografia.
La mamma non aveva alzato lo sguardo
dal bucato che stava riponendo. «Cos'ha detto chi?»
Avevo indicato la donna vicino a Bee.
«La bella signora che sussurra all'orecchio di zia Bee.»
La mamma era venuta accanto a me poi,
allungandosi in punta di piedi, aveva tolto la polvere dalla cornice
col bordo del suo pullover. «Non lo sapremo mai», aveva commentato,
guardando la foto con palpabile rammarico.
Bee era vedova di Bill, un eroe della
seconda guerra mondiale. Qualcuno diceva che avesse sposato Bee
perché lei era ricca, ma io non ci credevo. Durante le estati della
mia infanzia, avevo visto il modo in cui la baciava e come le cingeva
la vita. L'aveva amata, non c'erano dubbi. Mia madre, però,
disapprovava quel matrimonio, perché era convinta che Bill avrebbe
potuto trovare di meglio. Per lei, Bee era troppo anticonformista,
troppo fuori luogo, troppo impudente, troppo tutto.
Eppure avevamo continuato a far visita
a Bee, un'estate dopo l'altra, anche dopo che zio Bill era morto,
quando io avevo appena nove anni. Quel luogo aveva un fascino
impalpabile: i gabbiani che volavano altissimi nel cielo, i giardini
incolti e rigogliosi, l'odore del Puget Sound, il mormorio ammaliante
delle onde che s'infrangevano sulla riva, la grande cucina con le
finestre che si affacciavano sulle acque grigie... A me e a Danielle
piaceva e, nonostante le sue perplessità su Bee, sapevo che quel
posto piaceva anche a mia madre. Aveva un effetto tranquillizzante su
tutte noi.
Annabelle mi rivolse uno sguardo
d'intesa. «Hai trovato una storia?»
Sospirai. «Forse», risposi, evasiva.
«Perché non fai un viaggio? Hai
bisogno di andar via da qui, di sgombrare la testa.»
Feci una smorfia. «E dove dovrei
andare?»
«Da qualche parte, lontano da New
York.»
Aveva ragione. La Grande Mela era
un'amica solo se le cose ti andavano bene. Era una città che amava i
vincitori e prendeva a calci i perdenti. «Vieni con me?» Immaginai
noi due su una spiaggia tropicale, armate di cocktail con tanto di
ombrellino.
Scosse la testa.
«Perché?» Mi sentivo come una
cagnolina spaventata, sperduta, desiderosa che qualcuno le mettesse
un collare e le dicesse dove andare, cosa fare, come essere.
«Non posso venire con te perché hai
bisogno di startene per conto tuo.»
La fissai, turbata. «Perché?»
ripetei.
Lei mi guardò dritto negli occhi, come
se volesse stampare nella mia mente ogni sillaba di quello che stava
per dire. «Em, il tuo matrimonio è finito e... Be', insomma, e tu
non hai versato nemmeno una lacrima.»
Mentre tornavo al mio appartamento,
riflettei su quello che mi aveva detto Annabelle e mi ritrovai a
ripensare a Bee. Com'è possibile che io abbia lasciato passare tanti
anni senza mai andare a trovarla?
Sentii un rumore acuto, stridulo sopra
la mia testa, l'inconfondibile stridio del metallo contro il metallo,
e alzai lo sguardo. Sul tetto di un caffè, una banderuola segnavento
di rame, a forma di anatra, roteava vorticosamente; le intemperie
l'avevano coperta di una spessa patina grigioverde.
Mi resi conto che il mio cuore aveva
accelerato i battiti. Avevo già visto quella cosa ma... dove? Poi,
improvvisamente, ricordai. Il quadro di Bee. Avevo dimenticato il
dipinto a olio che mi aveva regalato quand'ero piccola, una tela di
una decina di centimetri per venti. A quell'epoca, lei dipingeva; il
fatto che mi avesse scelto come custode della sua opera d'arte mi
aveva riempito d'orgoglio. L'avevo definita un capolavoro, e lei
aveva sorriso.
Chiusi gli occhi e rividi il quadro in
ogni dettaglio: la banderuola segnavento a forma di anatra,
appollaiata in cima a un vecchio cottage sulla spiaggia, e una
coppia, mano nella mano, sulla riva... D'un tratto, avvertii un
profondo senso di colpa. Dov'era finito quel quadro? L'avevo messo da
parte dopo che io e Joel ci eravamo trasferiti nell'appartamento e
dopo che lui aveva detto che non ci sarebbe stato bene. Proprio come
mi ero tenuta lontana dall'isola che tanto avevo amato da bambina,
così avevo messo via le reliquie del mio passato, chiudendole in una
scatola. Perché? Per cosa?
Accelerai il passo... quasi mi misi a
correre. Anche il quadro di Bee è finito in uno scatolone di Joel,
com'è successo a Years of Grace? L'ho forse messo per errore insieme
coi libri e con gli abiti che ho dato in beneficenza? Una volta
entrata nell'appartamento, salii in camera da letto e spalancai la
porta dell'armadio a muro. Lì, sul ripiano più alto, c'erano due
scatoloni. Ne tirai giù uno e ci rovistai dentro: qualche animaletto
di pezza, una scatola di vecchie polaroid, e ritagli dei due anni in
cui avevo scritto per il giornale del college, sufficienti a riempire
diversi taccuini. Ma nessun quadro. Allora mi allungai per prendere
il secondo scatolone. Conteneva una bambola Raggedy Ann, una scatola
di bigliettini «d'amore» che risalivano alle scuole medie, e il mio
amatissimo diario di Fragolina Dolcecuore, che avevo conservato fin
dai tempi delle elementari. Nient'altro.
Come posso averlo perso? Sono davvero
stata così stupida da buttarlo via? Mi alzai in punta di piedi,
dando un'ultima controllata all'armadio... e un sacchetto di
plastica, in fondo, contro il muro, attirò la mia attenzione. Con
rinnovata speranza, lo tirai fuori.
Dentro il sacchetto, avvolto in un telo
da spiaggia rosa e turchese, c'era il quadro. Provando una fitta al
cuore, lo sollevai per guardarlo meglio. La banderuola a forma di
anatra. La spiaggia. Il vecchio cottage. Erano tutti come li
ricordavo. La coppia, invece... Avevo sempre immaginato che i
soggetti ritratti fossero la stessa Bee e zio Bill. E non c'erano
dubbi sul fatto che la donna fosse Bee, con le lunghe gambe e i
pinocchietti celesti quelli che lei definiva «i miei pantaloni
estivi». Ma l'uomo non era zio Bill. Come mi era potuta sfuggire una
cosa simile? I capelli di Bill erano chiari, di un biondo sabbia.
Quell'uomo, invece, aveva una chioma scura, folta e ondulata. Chi è?
E perché Bee si è ritratta con lui?
Senza preoccuparmi di rimettere a posto
la roba e gli scatoloni, e col quadro sottobraccio, andai al
pianterreno. Presi il telefono e composi quel numero ancora così
familiare, poi trassi un lungo respiro, ascoltando il suono del primo
squillo e quello del secondo.
«Pronto?» La sua voce non era
cambiata. Bassa e forte, ma in fondo dolce.
«Bee, sono io, Emily», esordii, un
po' tremolante. «Mi spiace che sia passato tanto tempo. È solo che
io...»
«Ma figurati, cara. Non c'è bisogno
che ti scusi. Hai ricevuto la mia cartolina?»
«Come?»
«Sì, la mia cartolina. L'ho spedita
la settimana scorsa, dopo che ho saputo.»
«Hai saputo?» ripetei. Non avevo
detto a moltissime persone che stavo per firmare le carte del
divorzio. Non lo sapevano i miei genitori, a Portland. Non lo sapeva
mia sorella Danielle, a Los Angeles, la donna che aveva figli
perfetti, un marito adorante e un orto biologico. Non lo sapeva la
mia psicanalista. Eppure non ero sorpresa che la notizia fosse
arrivata a Bainbridge Island.
«Sì», rispose. «E mi sono chiesta
se saresti venuta a trovarmi.» Fece una pausa. «L'isola è un posto
meraviglioso per curare le ferite.»
Feci scorrere il dito lungo il bordo
del quadro. Quanto avrei voluto essere là, a Bainbridge Island,
nella grande, calda cucina di Bee.
«Quando arrivi?» Dritta al punto,
come sempre.
«Domani è troppo presto?»
«Domani è il primo di marzo, e marzo
è il mese in cui lo Stretto è al suo meglio, cara», rispose. «È
pieno di vita.»
Sapevo cosa voleva dire. Le acque
grigie e inquiete. Le alghe e i cirripedi. Riuscivo quasi a sentire
il sapore dell'aria salmastra. Bee credeva che il Puget Sound fosse
una specie di panacea. E sapevo che, al mio arrivo, mi avrebbe spinto
a togliermi le scarpe e a sguazzare nell'acqua, anche se fosse stata
l'una del mattino, anche se ci fossero stati non più di sei gradi,
com'era assai probabile.
«Ah, Emily?» «Sì?»
«Dobbiamo parlare di una cosa
importante.»
«Di cosa?»
«Non ora. Non al telefono. Quando
arriverai qui, cara.»
Dopo aver riagganciato, aprii la
cassetta della posta e vi trovai l'estratto conto della carta di
credito, un catalogo di Victoria's Secret – indirizzato a Joel –
e una grossa busta quadrata. Riconobbi l'indirizzo del mittente e mi
ci volle un attimo per ricordare dove l'avessi già visto: sui
documenti del divorzio. C'era da dire che l'avevo anche cercato su
Google la settimana prima. Era l'indirizzo della nuova casa di Joel,
sulla 57th Street. Quella che divideva con Stephanie.
Fu come una botta d'adrenalina. Joel
stava forse cercando un modo per riavvicinarsi a me? E lo faceva con
una lettera, un biglietto... no, meglio, col primo indizio di una
romantica caccia al tesoro: un invito a incontrarlo da qualche parte
in città, dove ci sarebbe stato un altro indizio, e poi, dopo altri
quattro, ci sarebbe stato lui, che mi aspettava davanti all'hotel
dove ci eravamo conosciuti. E avrebbe avuto in mano una rosa... no,
un cartello: MI DISPIACE. TI AMO. PERDONAMI. Sì, proprio così.
Sarebbe stato il finale perfetto di una tormentata storia d'amore. Ce
lo meritiamo, un lieto fine, Joel, mi ritrovai a sussurrare mentre
passavo il dito lungo la busta. Mi ama ancora. Prova ancora qualcosa
per me.
Tuttavia, quando sollevai il lembo
della busta e ne tirai fuori un biglietto dorato, tutto crollò.
Rimasi a fissare quel pezzo di carta, immobile.
La carta pesante, raffinata. Le scritte
tutte svolazzi. Era una partecipazione di matrimonio. Il suo
matrimonio. Alle sei del pomeriggio. Cena. Danze. La celebrazione di
un amore. RSVP. M'incamminai verso la cucina, aggirando il bidone
della raccolta differenziata della carta, e deposi sia la busta sia
il biglietto dorato nella spazzatura, sopra un contenitore di noodles
al pollo ammuffiti.
Mentre scorrevo il resto della posta,
lasciai cadere una rivista e, quando mi abbassai per raccoglierla,
vidi la cartolina di Bee, che si era nascosta tra le pagine del New
Yorker. Raffigurava un traghetto, bianco con finiture verdi, che
entrava nel porto, l'Eagle Harbor. La girai e lessi:
Emily, l'isola
sa come richiamare a sé le persone al momento giusto.
Torna a casa. Mi sei mancata, cara.
Con tutto il mio affetto,
BEE
Strinsi la cartolina al petto e trassi
un profondo sospiro.
Ilaria di
Bookcret, quello che i libri non dicono