I capitolo:
PARTE PRIMA
1
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima
mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul
palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo,
semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un
calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla
linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Una sua simile l'aveva preceduta? Ah sì, certo che sì! E in verità non ci
sarebbe stata forse nessuna Lolita se un'estate, in un principato sul mare, io
non avessi amato una certa iniziale fanciulla. Oh, quando? Tanti anni
prima della nascita di Lolita quanti erano quelli che avevo io quell'estate.
Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.
Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i
serafini, i male informati, ingenui serafini dalle nobili ali. Guardate questo
intrico di spine.
2
Sono nato nel 1910, a Parigi. Mio padre era un uomo amabile e
indulgente, una macedonia di geni razziali: cittadino svizzero, aveva
antenati francesi ed austriaci, con un tocco di Danubio nelle vene. Tra un
momento farò girare alcune splendide cartoline di un azzurro smaltato. Era
proprietario di un lussuoso albergo sulla Costa Azzurra. Suo padre e i suoi
due nonni commerciavano rispettivamente in vino, gioielli e seterie. A
trent'anni aveva sposato una ragazza inglese, figlia di Jerome Dunn,
l'alpinista, e nipote di due parroci del Dorset, entrambi esperti di materie
astruse: la paleopedologia l'uno, le arpe eolie l'altro. La mia
fotogenicissima madre morì in un bizzarro incidente (picnic, fulmine)
quando avevo tre anni, e, se si eccettua un tiepido recesso nel passato più
tenebroso, nulla di lei persiste negli anfratti della memoria, sui quali, se
riuscite ancora a sopportare il mio stile (sono guardato a vista, mentre
scrivo), era tramontato il sole della mia infanzia: certo voi tutti conoscete
gli odorosi residui del giorno che restano sospesi con i moscerini su una
siepe in fiore, o vengono improvvisamente penetrati da un gitante, ai piedi
di un colle, nel crepuscolo estivo; un tepore di pelliccia, moscerini dorati.
La sorella maggiore di mia madre, Sybil, sposata e poi trascurata da un
cugino di papà, era nella mia ristretta cerchia familiare una sorta di
governante e istitutrice non retribuita. Qualcuno mi raccontò poi che era
innamorata di mio padre, e lui ne aveva spensieratamente approfittato in
un giorno di pioggia per dimenticarsene al primo raggio di sole. Io le ero
molto affezionato, nonostante il rigore – il fatale rigore – di certe sue
norme. Forse voleva fare di me, a tempo debito, un vedovo migliore di mio
padre. Zia Sybil aveva un colorito cereo, e occhi azzurrini bordati di rosa.
Scriveva poesie e nutriva poetiche superstizioni. Diceva di sapere che
sarebbe morta subito dopo il mio sedicesimo compleanno, e così accadde.
Suo marito, grande viaggiatore nel ramo dei profumi, trascorreva la
maggior parte del tempo in America, dove alla fine aprì un'azienda e
comprò qualche immobile.
Io crescevo, sano e felice, in un mondo luccicante di libri illustrati,
sabbia pulita, aranceti, cani amichevoli, panorami marini e visi sorridenti.
Intorno a me il magnifico Hôtel Mirana ruotava come una sorta di universo
personale, un cosmo patinato dentro quello turchino, più grande, che
sfolgorava tutt'intorno. Dagli sguatteri in grembiule ai magnati in completo
di flanella tutti mi trovavano simpatico, tutti mi vezzeggiavano. Le anziane
signore americane, appoggiandosi al bastone, s'inclinavano verso di me
come tante torri di Pisa. Le principesse russe decadute, che non avevano di
che pagare mio padre, mi regalavano dispendiosi bonbon. E lui, mon cher
petit papa, mi portava in barca e in bicicletta, mi insegnava il nuoto, i tuffi
e lo sci d'acqua, mi leggeva Don Chisciotte e I miserabili; io l'adoravo,
l'ammiravo ed ero felice per lui quando sentivo la servitù che
chiacchierava delle sue varie amiche, creature bellissime e gentili che mi
tenevano in gran conto, e tubando spargevano lacrime preziose sulla mia
allegra orfanità.
Frequentavo una scuola inglese a pochi chilometri da casa, dove giocavo
a pallamuro, prendevo voti eccellenti e andavo perfettamente d'accordo
con professori e compagni. Gli unici, distinti eventi sessuali di cui abbia
ricordo prima dei tredici anni (prima, cioè, di aver incontrato la mia
piccola Annabel) sono: una conversazione solenne, costumatissima e
puramente teorica sulle sorprese della pubertà, sostenuta nel roseto della
scuola con un ragazzo americano figlio di un'attrice allora assai famosa,
che nel mondo tridimensionale egli vedeva molto di rado; e qualche
interessante reazione, da parte del mio organismo, a certe fotografie, tutte
ombre e madreperla e infinite morbide fessure, del sontuoso La Beauté
humaine di Pichon, sgraffignato nella biblioteca dell'albergo da sotto una
montagna di «Graphics» dalle rilegature marmoree. Più tardi, con quella
sua incantevole bonomia, mio padre mi diede tutte le informazioni che
riteneva potessero essermi necessarie a proposito del sesso. Fu subito
prima di iscrivermi, nell'autunno del 1923, a un lycée di Lione (dove
avremmo trascorso tre inverni); ma ahimè, l'estate di quell'anno egli
viaggiava per l'Italia con Mme de R. e sua figlia, e io non avevo nessuno
con cui sfogarmi, nessuno a cui chiedere consiglio.
3
Anche Annabel, come chi scrive, aveva ascendenze miste: nel suo caso,
metà inglesi e metà olandesi. Oggi i suoi lineamenti mi appaiono molto più
confusi di qualche anno fa, prima che conoscessi Lolita. Ci sono due tipi di
memoria visiva: l'uno è quando ricrei con perizia, a occhi aperti,
un'immagine nel laboratorio della mente (e allora vedo Annabel in termini
generici come: «pelle color miele», «braccia esili», «capelli alla
maschietta», «lunghe ciglia», «bocca grande e lucente»); l'altro quando
evochi d'un tratto, a occhi chiusi, nel buio interno delle palpebre, la replica
oggettiva, esclusivamente ottica di un viso amato, un piccolo fantasma dal
colorito naturale (e così vedo Lolita).
Lasciate quindi che, nel descrivere Annabel, mi limiti compostamente a
dire che era una ragazzina adorabile, più giovane di me di qualche mese. I
suoi genitori, vecchi amici di mia zia e barbosi quanto lei, avevano
affittato una villa non lontano dall'Hôtel Mirana. Calvo e abbronzato il
signor Leigh, grassa e incipriata la signora Leigh (nata Vanessa van Ness);
ah, come li odiavo! In principio, Annabel e io parlammo di cose
inessenziali. Lei continuava a far scorrere tra le dita manciate di sabbia
fina. I nostri cervelli erano in sintonia con quelli dei ragazzini europei e
intelligenti dei nostri giorni e del nostro ambiente, e dubito che l'interesse
che dimostravamo per la pluralità dei mondi abitati, il tennis agonistico,
l'infinito, il solipsismo e così via potesse considerarsi individualmente
geniale. La morbidezza e la fragilità dei cuccioli ci procurava la medesima,
intensa sofferenza. Lei voleva fare l'infermiera in qualche affamato paese
asiatico; io volevo diventare una celebre spia.
Tutt'a un tratto ci innamorammo, pazzamente, goffamente,
spudoratamente, tormentosamente; e senza speranza, dovrei aggiungete,
perché l'unico modo di placare quella mutua frenesia di possesso sarebbe
stato assorbire, assimilare sino all'ultima particella lo spirito e la carne
dell'altro; e invece non potevamo neanche accoppiarci come due monelli di
periferia avrebbero senz'altro trovato il modo di fare. Dopo uno spericolato
tentativo di incontrarci di notte nel suo giardino (ma di questo parlerò più
avanti) godemmo di un'intimità limitata, fuori dal campo uditivo, ma non
visivo, dei bagnanti sulla parte affollata della plage. Là, a pochi passi dai
grandi, stavamo sdraiati tutta la mattina sulla rena soffice in un pietrificato
parossismo di desiderio, e approfittavamo di ogni benedetto lapsus dello
spazio e del tempo per toccarci: la sua mano, seminascosta dalla sabbia,
avanzava furtiva verso di me; le sottili dita abbronzate, come sonnambule,
si facevano sempre più vicine; e poi il suo ginocchio opalescente iniziava
un lungo, cauto tragitto; qualche volta un bastione occasionale, costruito
dai bambini più piccoli, ci forniva riparo sufficiente per sfiorarci le labbra
cosparse di salsedine. Quei contatti incompleti portavano i nostri giovani
corpi, sani e inesperti, a un tale stato di sovreccitazione che neppure
l'acqua fredda e azzurra, nella quale continuavamo ad abbrancarci, poteva
darci sollievo.
Fra alcuni tesori perduti nei vagabondaggi dell'età adulta c'era
un'istantanea scattata da mia zia: Annabel, i suoi genitori e un certo dottor
Cooper, un signore posato, anziano e claudicante che quella stessa estate
faceva la corte a mia zia, sedevano all'aperto al tavolino di un caffè.
Annabel non era riuscita bene, colta nell'atto di chinarsi sul suo chocolat
glacé, e gli unici tratti identificabili (a quanto posso ricordare di
quell'immagine), nel sole sfocato in cui sfumava la sua bellezza perduta,
erano le esili spalle nude e la scriminatura dei capelli; ma io, un po'
discosto dagli altri, spiccavo con una sorta di drammatico risalto: un
ragazzo imbronciato con le sopracciglia folte, una scura camicia sportiva e
calzoncini bianchi di buon taglio, le gambe incrociate, seduto di profilo, lo
sguardo altrove. La foto risaliva all'ultimo giorno di quella nostra estate
fatale, e ad appena qualche minuto prima del nostro secondo, estremo
tentativo di contrastare il destino. Col più futile dei pretesti (era la nostra
ultimissima occasione, e non ci importava di nient'altro) fuggimmo dal
caffè alla spiaggia, e lì, in un tratto solitario, all'ombra violetta di certe
rocce rosse che formavano una sorta di grotta, ci abbandonammo a un
rapido scambio di avide carezze a cui assistette soltanto un paio di occhiali
da sole perduto da qualcuno. Io ero in ginocchio, e sul punto di possedere
il mio tesoro, quando due bagnanti barbuti, il vecchio del mare e suo
fratello, emersero dai flutti lanciando una salva di scurrili incoraggiamenti.
Quattro mesi dopo Annabel morì di tifo a Corfù.
4
Continuo a sfogliare questi infelici ricordi e a domandarmi se proprio
allora, nello scintillio di quell'estate remota, abbia avuto origine la crepa
che percorre la mia vita; o se invece il mio smodato desiderio di quella
bambina fosse soltanto la prima manifestazione di un'innata peculiarità.
Quando cerco di analizzare le mie brame, i moventi, le azioni e così via,
mi lascio andare a una sorta di fantasia retrospettiva che nutre l’analisi con
infinite alternative; e così ogni via immaginabile si biforca e triforca senza
posa nella complessa, snervante prospettiva del mio passato. Eppure sono
convinto che in un certo modo magico e fatale Lolita cominciò con
Annabel.
So anche che lo choc della sua morte consolidò in me la frustrazione di
quell'estate da incubo, e per tutti i freddi anni della mia gioventù ne fece
un ostacolo permanente a ogni successiva storia d'amore. In noi lo spirito e
la carne si erano fusi con una perfezione che deve risultare
incomprensibile ai rozzi, prosaici giovanotti di oggi, coi loro cervelli fatti
in serie. Molto dopo la morte di Annabel sentivo i suoi pensieri scorrere tra
i miei. Molto prima di incontrarci avevamo fatto gli stessi sogni.
Raffrontammo le nostre storie. Trovammo strane affinità. Nello stesso
giugno dello stesso anno (il 1919) un canarino smarrito era entrato
sbattendo le ali nelle nostre rispettive case, che si trovavano in due paesi
lontanissimi. Oh, Lolita, mi avessi amato tu così!
Ho serbato per la conclusione della mia «fase Annabel» il resoconto di
quel primo tentativo fallito. Una sera lei era riuscita a eludere l'accanita
vigilanza dei suoi. Ci appollaiammo su un muretto diroccato alle spalle
della loro villa, in un trepidante boschetto di mimose dalle foglie sottili.
Attraverso l'oscurità e i teneri alberelli scorgevamo gli arabeschi delle
finestre illuminate, che ora, grazie agli inchiostri variopinti di una memoria
sensibile, mi appaiono come tante carte da gioco – presumibilmente perché
il nemico era assorto in una partita a bridge. Mentre le baciavo l'angolo
delle labbra dischiuse e il lobo ardente dell'orecchio, Annabel era percorsa
da un fremito. Sopra di noi, tra le sagome delle lunghe foglie sottili,
baluginava pallido un ammasso di stelle; quel cielo vibrante pareva nudo
com'era lei sotto il vestitino leggero. Vedevo il suo volto nel cielo,
stranamente nitido, quasi emettesse un proprio fievole bagliore. Le sue
gambe, quelle gambe adorabili e vivaci, erano leggermente discoste, e
quando con la mano trovai quel che cercavo un'espressione sognante e
arcana, metà piacere, metà sofferenza, pervase i suoi tratti infantili. Era
seduta appena più in alto di me, e non appena quell'estasi solitaria la
induceva a baciarmi, la sua testa ricadeva con un moto morbido e languido
che era quasi doloroso, e le ginocchia nude mi catturavano il polso per poi
scostarsi di nuovo; e la sua bocca tremula, distorta dall'asprezza di chissà
quale occulta pozione, mi si accostava al viso prendendo fiato con un
sibilo. Dapprima cercava di dar sollievo al tormento d'amore strofinando
bruscamente le labbra aride contro le mie; poi il mio tesoro si ritraeva con
una scossa nervosa dei capelli, e di nuovo si faceva oscuramente vicina e
lasciava che mi cibassi della sua bocca dischiusa, mentre con una
generosità pronta a offrirle tutto, il mio cuore, la mia gola, le mie viscere,
le facevo tenere nel pugno maldestro lo scettro della mia passione.
Ricordo un profumo di talco credo l'avesse rubato alla cameriera
spagnola di sua madre, una fragranza di muschio, dolciastra e plebea. Si
mescolava al suo odore di biscotto, e i miei sensi furono d'un tratto colmi
fino all'orlo; un improvviso trambusto nel cespuglio vicino impedì loro di
traboccare... e mentre ci staccavamo l'uno dall'altra, prestando ascolto con
le vene dolenti al rumore causato probabilmente da un gatto in cerca di
preda, dalla casa giunse la voce di sua madre che la chiamava con voce
sempre più ansiosa, e il dottor Cooper uscì in giardino zoppicando
ponderosamente. Ma quel boschetto di mimose – la caligine delle stelle, il
fremito, la vampa, l'ambrosia e il dolore – è rimasto con me, e quella
bambina dalle membra di mare e la lingua ardente non ha mai cessato di
perseguitarmi; sinché finalmente, ventiquattro anni più tardi, non ho
spezzato il suo incantesimo incarnandola in un'altra.
Nessun commento:
Posta un commento