I capitolo:
Mi sono sempre piaciuti i funerali.
Tutto è certo, inequivocabile, rassicurante.
Non come i matrimoni. Per quanto siano deliziosi, così traboccanti d’amore, ottimismo e belle speranze, mi lasciano sempre l’insidioso tarlo del dubbio: la coppia felice sarà ancora tale fra qualche anno? Oppure i due divorzieranno, pagando somme esorbitanti ai rispettivi avvocati per decidere chi debba prendersi quel lussuoso regalo di nozze ancora in attesa che qualcuno lo apra?
Comunioni e battesimi mi fanno più o meno lo stesso effetto. Mi sorprendo a chiedermi: questo bambino, o questa bambina, riuscirà davvero a mantenere intatta la sua fede quando avrà diciotto anni e sarà sensibile alle tentazioni della carne? Soprattutto quando vedo il padrino in piedi accanto al fonte battesimale che aggiorna il suo stato su Twitter mentre la madrina studia il proprio riflesso nell’acqua santa.
D’altronde io sono fatta così: mi piace sapere sempre quello che succederà dopo. È importante essere preparati, lo dicono anche i boy scout, e a me piace esserlo davanti a ogni evenienza, sempre. Sebbene mi renda conto che difficilmente un capo scout mi concederebbe di portarmi dietro sei cambi per un fine settimana all’aria aperta, quando con tutta probabilità ne basterebbero tre.
Il funerale è quello di mia zia Emmeline, o zia Molly, come la chiamavo da bambina. Se penso a quanto eravamo legate quando ero piccola e al fatto che ho perso il conto degli anni trascorsi dall’ultima volta che l’ho vista, mi vergogno tremendamente. Di tanto in tanto mi ripromettevo di farle visita quaggiù, ma le settimane si trasformavano in mesi e i mesi in anni, e sapete quanto passa in fretta il tempo, al giorno d’oggi.
Quando è cominciata? È forse uno di quei regolamenti europei, tipo l’obbligo di misurare tutto in chilogrammi e in litri? Bruxelles ha deliberato ufficialmente di far scorrere il tempo più in fretta, e io mi sono persa il grande annuncio del governo?
Quando dico “quaggiù”, mi riferisco all’Irlanda. Dublino, per l’esattezza. Al momento mi trovo poco lontano dalla capitale, nel paesino in cui mia zia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Non ho ricordi di lei in questo piccolo cottage dove ha luogo la veglia funebre. La casa in cui l’ho vista io era un’enorme, caotica dimora sul mare nella contea di Kerry. Da bambina lasciavo l’Inghilterra per passare le vacanze con lei mentre mia madre lavorava. Ricordo giorni felici, trascorsi perlopiù all’aperto, sotto un sole splendente. C’è sempre un gran sole nei ricordi che ho di zia Molly, anche quelli in cui era inverno e ci imbacuccavamo per difenderci dal vento sferzante che saliva dal mare.
Perché nei ricordi d’infanzia il sole splende sempre più del normale? Anche questo ha a che fare con l’Unione europea?
Mentre sono lì che ci penso, una signora dai riccioli bianchi interrompe la mia meditazione: «Vuole un’altra tazza di tè, cara?». Mi si è piantata di fronte con il suo grembiule a fiori e mi fa cenno con una teiera in mano.
«Oh, no, grazie, ne ho già prese due», dico mettendo la mano sopra la tazza.
«Un dolce, allora?». E indica un tavolo che geme letteralmente sotto il peso delle cibarie.
«No, sono a posto così, davvero, grazie».
«Non è di queste parti, vero?». Mi osserva attentamente attraverso un paio di lenti dalla montatura d’argento.
«No. Sono venuta da Londra per il funerale».
«Oh, capisco. E come mai conosceva Emmeline?», mi domanda con aria sospettosa, studiandomi da capo a piedi.
«Sono sua nipote».
Tutt’a un tratto la donna cambia espressione: adesso sembra piacevolmente sorpresa. «Oh, ma allora tu devi essere Darcy! Perché non me lo hai detto subito, bambina?»
«Sì, sono io», le sorrido. «Come mai sa il mio nome?»
«Sono Maeve. Molly e io eravamo vicine di casa». Gli occhi azzurri le si riempiono di tristezza mentre pensa alla sua amica, ma si illuminano di nuovo non appena comincia a parlarne. «Molly raccontava sempre di te e di quando aveva quella grande casa giù nel Kerry. Peccato, però, che tu non sia più venuta a trovarla…». Mi lancia un’occhiata di rimprovero.
«È solo che… sono stata impegnata col lavoro e tutto il resto». Vengo investita da un’altra ondata di quel senso di colpa che mi opprime dall’inizio della giornata.
«Cos’è che fai? Molly diceva che sei una giornalista, o sbaglio?»
«Una specie… mi occupo di salute e bellezza per una rivista femminile».
«Salute e bellezza, hai detto?». Maeve sembra pensierosa. «Bah. Non c’è poi tanto da scrivere sull’argomento. Una bella strofinata con del sapone disinfettante e acqua fredda, ecco cos’è che mi tiene in forma da più di ottant’anni».
Guardo Maeve con stupore. Non ha certo l’aspetto di un’ultraottuagenaria. Le avrei dato al massimo sessantacinque, settant’anni, ma a giudicare dalla pelle sembrerebbe ancora più giovane.
«Proprio così. Sei sorpresa, vero?». Si sistema con orgoglio le gale del grembiule. «Niente creme e intrugli costosi per la sottoscritta! Non ce n’è bisogno». Mi si avvicina. «Accetta un consiglio, bambina. Smettila di pitturarti la faccia in quel modo. Alla lunga ti rovinerà la pelle. Per restare giovane e bella servono solo un po’ d’aria buona e vita sana».La mia mano corre involontariamente alla microscopica Mulberry che tengo accanto. È piena di rossetti, ombretti, pennelli, portacipria; di norma il mio beauty-case da solo è più grande di questo affarino. Ma oggi ho scelto questa perché il colore si abbina alla perfezione con le mie nuove scarpe grigio peltro di Louboutin. Volevo essere perfetta per il funerale della zia Molly, anche se lei non è qui per vedermi.
«Bene!», dice Maeve tutta allegra, improvvisamente dimentica del suo grave monito. «È splendido che qualcuno del ramo inglese della famiglia di Molly sia riuscito a venire a salutarla».
«Sì, ormai siamo rimasti in pochi», faccio per replicare, ma l’attenzione di Maeve è catturata da un uomo grande e grosso, intento a contemplare un dolce alla frutta su un vassoio.
«Posso tagliarti una fetta di dolce, caro?», gli chiede, grata di poter essere utile a qualcuno almeno al reparto cibarie.
Mentre Maeve taglia con destrezza una grossa fetta di dolce per il tizio, io do un’occhiata alla variopinta compagnia che si sta stipando nella cucina del piccolo cottage di pietra appartenuto a mia zia. Dall’età deduco che si tratta perlopiù di amici e conoscenti di Molly. Ho pensato una cosa simile anche in chiesa, colpita dal fatto che fossero tanto più vecchi di me. Di solito, l’età di coloro che partecipano ai funerali è piuttosto variabile, invece a quello di Molly tutti hanno più o meno l’età che aveva lei. Ho immaginato che fossero amici e conoscenti perché so per certo che non aveva fratelli o sorelle a parte mia madre e che quando lei è morta – sette anni fa, quando io ne avevo venti – di quel ramo della famiglia sono rimasta soltanto io. Cerco disperatamente di ricordare qualcuna delle storie che Molly mi raccontava quando ero piccola, le storie della sua infanzia in Irlanda, ma per quanto mi sforzi, al momento non mi viene in mente nulla. Trovo frustrante che i ricordi che voglio tenere con me restino sepolti insieme a quelli di cui invece mi sbarazzerei volentieri.Sospirando spazientita bevo le ultime gocce di tè al latte rimaste nella tazza. Come ho potuto lasciare che accadesse? Zia Molly è stata così importante per me quando ero più giovane; come ho potuto lasciarla scivolare via dalla mia vita in questo modo? Avrei dovuto fare di più per rimanere in contatto… Avrei dovuto fare lo sforzo di venire qui a trovarla. Non è che abbiamo mai rotto i rapporti, o cose del genere. Ci siamo allontanate, semplicemente. No, non è esatto: io ho lasciato che ci allontanassimo.
«Mi scusi».
Mi volto e vedo un tipo magro dall’aria formale, in giacca e cravatta, in piedi accanto a me. «Sto parlando con la signorina McCall?»
«Sì».
«La signorina Darcy McCall?»
«Sì».
Sembra sollevato. «Ah, bene. Allora mi permetta di presentarmi». Mi porge la mano. «Niall Kearney, al suo servizio, miss McCall».
«Piacere di conoscerla, signor Kearney». Ricambio la sua stretta con una certa esitazione.
Lui annuisce.
Sorrido nella speranza di incoraggiarlo a venire al punto.
«Mi scusi, probabilmente il mio nome non le dice niente, mi sbaglio?». Si infila la mano nel taschino della giacca e ne estrae un biglietto da visita. «Ecco il mio biglietto. Mio padre, Patrick Kearney è stato per anni avvocato e amico di sua zia. Le manda le sue più sentite scuse per non aver potuto essere qui oggi, ma purtroppo non sta molto bene, così io rappresento lo studio al posto suo». Mentre mi offre queste informazioni con aria solenne, raddrizza le spalle esili sotto la giacca leggermente fuori misura.
«Ho capito». Abbasso per un secondo lo sguardo sul biglietto da visita. «Ma che cosa vuole da me, signor Kearney?».
Il ragazzo guarda a destra e a sinistra con aria furtiva prima di chinarsi verso di me. «Per prima cosa, signorina McCall», mormora, «devo insistere perché mi chiami Niall. Sono un avvocato, ma preferisco di gran lunga un approccio più personale». Si guarda di nuovo intorno con quell’aria da clandestino. «In secondo luogo, forse potremmo trovare un altro posto, un po’ più riservato, dove continuare la nostra conversazione».
«Non ne sono sicura…», temporeggio; questo tizio mi sembra un po’ strano.
«È solo che…». Torna a scrutare i presenti invitandomi con un gesto a fare altrettanto. E in effetti, sebbene gli invitati si sforzino di sembrare assorti nella conversazione e intenti a sorseggiare tè, diverse paia d’occhi saettano rapide verso di noi per poi posarsi altrove altrettanto rapidamente. Anche le orecchie sono senza dubbio tese verso di noi, e c’è che si sistema meglio l’apparecchio acustico, mentre Niall e io rimaniamo all’altro capo della cucina. «Ho da riferirle alcune cose di natura, diciamo, delicata. Non credo sia opportuno che ne vengano a conoscenza tutti gli invitati nonché, nel giro di dieci minuti, il paese intero».
«Allora dovremo trovare un posto più tranquillo». Mi guardo intorno. «Se andassimo qui fuori?», suggerisco indicando con un cenno il giardino della zia. «Dubito che ci sia qualcuno in una giornata come questa. Fa troppo freddo».
Mi infilo il cappotto militare grigio scuro, felice di avere la possibilità di indossarlo di nuovo. Ho comprato questo gioiellino di Vivienne Westwood poco tempo fa su Internet, con lo sconto del settantacinque per cento, un vero affare. Ci ho girato intorno a lungo, indecisa se comprarlo o meno, ma in questo gelido gennaio posso dire che vale tutti gli zeri che ci sono sul suo cartellino.Usciamo in giardino uno alla volta, a distanza di qualche minuto, così da non destare altri sospetti. Appena metto piede fuori vengo investita da un freddo polare e dal vento tagliente che mi solleva i lunghi capelli dalle spalle e me li schiaccia sul viso in ciocche disordinate.
Vento maledetto. Di tutti gli agenti atmosferici è quello che odio di più. Mi sorprende puntualmente quando mi sono appena fatta i capelli, il che vuol dire, nel mio caso, dopo che ho passato ore a lisciare e stirare pazientemente la mia lunga chioma bionda. Esco di casa e un vento impetuoso mi aspetta nascosto da qualche parte nel cielo, come una di quelle buffe personificazioni che si vedono nei libri per bambini. Mi sorride maligno prima di avventarsi sulla mia messa in piega appena fatta. Con la pioggia, almeno, si può opporre una minima resistenza aprendo un ombrello. Ma con il vento è inutile cercare di difendersi, il che lo rende di gran lunga il più temibile fra i due demoni.
Già io e gli spazi aperti non siamo grandi amici; in gennaio, poi, la rottura è completa. Eppure, dopo aver respirato l’aria stantia della casa sovraffollata, persino io sono felice di godermi l’aria fresca, frizzante, che mi sferza il viso e mi riempie i polmoni mentre mi rivolgo a Niall.
«Allora, qual è questo gran segreto?», gli chiedo educatamente mentre cerco di infilarmi i capelli nel collo del cappotto. Questo incontro nel giardino di Molly ha un sapore molto clandestino. È un peccato che Niall non sia più attraente, altrimenti questo furtivo appuntamento con uno sconosciuto avrebbe potuto avere risvolti piuttosto eccitanti.
Mi mordo metaforicamente la lingua. Devo abbandonare questa abitudine di giudicare la gente dall’aspetto, abitudine che ho preso da quando ho cominciato a lavorare per la rivista «Goddess». Lo so, è quello che fanno tutti: ci si forma un’opinione su una persona nei primi secondi in cui la si incontra. Ma quando, come me, si lavora nel settore della bellezza, in cui l’aspetto fisico è tutto, questa tendenza diventa morbosa.
Dopotutto non è colpa di Niall se non è… come dirlo con tatto? Diciamo che non è un Adone. Indossa un semplice completo grigio, giacca monopetto e pantaloni, che ha abbinato a una camicia bianca e una cravatta bourdeaux a tinta unita, una combinazione che non brilla certo per originalità. Circa un metro e sessantotto di altezza, corporatura esile, diciamo pure che è pelle e ossa. Porta occhiali dalla semplice montatura d’argento e ha corti capelli ondulati grigio topo, insomma tutto ciò che si conviene a un giovane avvocato dublinese emergente. Non è proprio brutto, concludo dopo averlo esaminato meglio, ma di sicuro non è attraente. È solo… insignificante.
«Non è un gran segreto, signorina McCall», mi dice Niall, interrompendo i miei pensieri. «È solo che dobbiamo fissare un appuntamento, tutto qui».
«Perché?»
«Per dare lettura del testamento di sua zia».
Al momento sono leggermente distratta dalla necessità di impedire che i tacchi delle mie Louboutin sprofondino nel fango del prato. Solo perché le ho comprate come nuove su eBay da una tizia che aveva deciso di venderle per pagare le nozze della figlia, non significa che debba usarle per scavare buche in giardino. «Molly ha lasciato un testamento?»
«Sì, e molto dettagliato, se posso permettermi. Aveva le idee molto chiare sulla destinazione del suo patrimonio dopo la sua dipartita».
«Il suo patrimonio?». Drizzo le orecchie: gli avvocati di solito usano la parola patrimonio solo se ci sono in ballo un bel po’ di soldi. «Aveva un po’ di contante infilato nel materasso, la zia Molly?», dico ridendo a Niall.
«La prego, signorina McCall», mi ammonisce lui guardandomi tutto serio da dietro le lenti. «La lettura del testamento di un defunto non è mai argomento da trattare alla leggera».
«No, no di certo, signor Kearney, volevo dire… Niall». Mi sforzo di apparire seria e professionale. «Allora, quando avrà luogo la lettura?»
«Dipende da lei, signorina McCall». Niall si guarda intorno con la stessa aria furtiva che aveva poco prima, in casa. Quando si protende verso di me, gli occhi azzurro pallido saettano di nuovo a destra e sinistra. «Perché», sibila a voce talmente bassa che faccio fatica a capire, «ho il piacere di informarla, signorina Darcy McCall, che lei è l’unica beneficiaria dell’intero patrimonio appartenuto alla signorina Emmeline Ava Aisling McCall».
Tutto è certo, inequivocabile, rassicurante.
Non come i matrimoni. Per quanto siano deliziosi, così traboccanti d’amore, ottimismo e belle speranze, mi lasciano sempre l’insidioso tarlo del dubbio: la coppia felice sarà ancora tale fra qualche anno? Oppure i due divorzieranno, pagando somme esorbitanti ai rispettivi avvocati per decidere chi debba prendersi quel lussuoso regalo di nozze ancora in attesa che qualcuno lo apra?
Comunioni e battesimi mi fanno più o meno lo stesso effetto. Mi sorprendo a chiedermi: questo bambino, o questa bambina, riuscirà davvero a mantenere intatta la sua fede quando avrà diciotto anni e sarà sensibile alle tentazioni della carne? Soprattutto quando vedo il padrino in piedi accanto al fonte battesimale che aggiorna il suo stato su Twitter mentre la madrina studia il proprio riflesso nell’acqua santa.
D’altronde io sono fatta così: mi piace sapere sempre quello che succederà dopo. È importante essere preparati, lo dicono anche i boy scout, e a me piace esserlo davanti a ogni evenienza, sempre. Sebbene mi renda conto che difficilmente un capo scout mi concederebbe di portarmi dietro sei cambi per un fine settimana all’aria aperta, quando con tutta probabilità ne basterebbero tre.
Il funerale è quello di mia zia Emmeline, o zia Molly, come la chiamavo da bambina. Se penso a quanto eravamo legate quando ero piccola e al fatto che ho perso il conto degli anni trascorsi dall’ultima volta che l’ho vista, mi vergogno tremendamente. Di tanto in tanto mi ripromettevo di farle visita quaggiù, ma le settimane si trasformavano in mesi e i mesi in anni, e sapete quanto passa in fretta il tempo, al giorno d’oggi.
Quando è cominciata? È forse uno di quei regolamenti europei, tipo l’obbligo di misurare tutto in chilogrammi e in litri? Bruxelles ha deliberato ufficialmente di far scorrere il tempo più in fretta, e io mi sono persa il grande annuncio del governo?
Quando dico “quaggiù”, mi riferisco all’Irlanda. Dublino, per l’esattezza. Al momento mi trovo poco lontano dalla capitale, nel paesino in cui mia zia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Non ho ricordi di lei in questo piccolo cottage dove ha luogo la veglia funebre. La casa in cui l’ho vista io era un’enorme, caotica dimora sul mare nella contea di Kerry. Da bambina lasciavo l’Inghilterra per passare le vacanze con lei mentre mia madre lavorava. Ricordo giorni felici, trascorsi perlopiù all’aperto, sotto un sole splendente. C’è sempre un gran sole nei ricordi che ho di zia Molly, anche quelli in cui era inverno e ci imbacuccavamo per difenderci dal vento sferzante che saliva dal mare.
Perché nei ricordi d’infanzia il sole splende sempre più del normale? Anche questo ha a che fare con l’Unione europea?
Mentre sono lì che ci penso, una signora dai riccioli bianchi interrompe la mia meditazione: «Vuole un’altra tazza di tè, cara?». Mi si è piantata di fronte con il suo grembiule a fiori e mi fa cenno con una teiera in mano.
«Oh, no, grazie, ne ho già prese due», dico mettendo la mano sopra la tazza.
«Un dolce, allora?». E indica un tavolo che geme letteralmente sotto il peso delle cibarie.
«No, sono a posto così, davvero, grazie».
«Non è di queste parti, vero?». Mi osserva attentamente attraverso un paio di lenti dalla montatura d’argento.
«No. Sono venuta da Londra per il funerale».
«Oh, capisco. E come mai conosceva Emmeline?», mi domanda con aria sospettosa, studiandomi da capo a piedi.
«Sono sua nipote».
Tutt’a un tratto la donna cambia espressione: adesso sembra piacevolmente sorpresa. «Oh, ma allora tu devi essere Darcy! Perché non me lo hai detto subito, bambina?»
«Sì, sono io», le sorrido. «Come mai sa il mio nome?»
«Sono Maeve. Molly e io eravamo vicine di casa». Gli occhi azzurri le si riempiono di tristezza mentre pensa alla sua amica, ma si illuminano di nuovo non appena comincia a parlarne. «Molly raccontava sempre di te e di quando aveva quella grande casa giù nel Kerry. Peccato, però, che tu non sia più venuta a trovarla…». Mi lancia un’occhiata di rimprovero.
«È solo che… sono stata impegnata col lavoro e tutto il resto». Vengo investita da un’altra ondata di quel senso di colpa che mi opprime dall’inizio della giornata.
«Cos’è che fai? Molly diceva che sei una giornalista, o sbaglio?»
«Una specie… mi occupo di salute e bellezza per una rivista femminile».
«Salute e bellezza, hai detto?». Maeve sembra pensierosa. «Bah. Non c’è poi tanto da scrivere sull’argomento. Una bella strofinata con del sapone disinfettante e acqua fredda, ecco cos’è che mi tiene in forma da più di ottant’anni».
Guardo Maeve con stupore. Non ha certo l’aspetto di un’ultraottuagenaria. Le avrei dato al massimo sessantacinque, settant’anni, ma a giudicare dalla pelle sembrerebbe ancora più giovane.
«Proprio così. Sei sorpresa, vero?». Si sistema con orgoglio le gale del grembiule. «Niente creme e intrugli costosi per la sottoscritta! Non ce n’è bisogno». Mi si avvicina. «Accetta un consiglio, bambina. Smettila di pitturarti la faccia in quel modo. Alla lunga ti rovinerà la pelle. Per restare giovane e bella servono solo un po’ d’aria buona e vita sana».La mia mano corre involontariamente alla microscopica Mulberry che tengo accanto. È piena di rossetti, ombretti, pennelli, portacipria; di norma il mio beauty-case da solo è più grande di questo affarino. Ma oggi ho scelto questa perché il colore si abbina alla perfezione con le mie nuove scarpe grigio peltro di Louboutin. Volevo essere perfetta per il funerale della zia Molly, anche se lei non è qui per vedermi.
«Bene!», dice Maeve tutta allegra, improvvisamente dimentica del suo grave monito. «È splendido che qualcuno del ramo inglese della famiglia di Molly sia riuscito a venire a salutarla».
«Sì, ormai siamo rimasti in pochi», faccio per replicare, ma l’attenzione di Maeve è catturata da un uomo grande e grosso, intento a contemplare un dolce alla frutta su un vassoio.
«Posso tagliarti una fetta di dolce, caro?», gli chiede, grata di poter essere utile a qualcuno almeno al reparto cibarie.
Mentre Maeve taglia con destrezza una grossa fetta di dolce per il tizio, io do un’occhiata alla variopinta compagnia che si sta stipando nella cucina del piccolo cottage di pietra appartenuto a mia zia. Dall’età deduco che si tratta perlopiù di amici e conoscenti di Molly. Ho pensato una cosa simile anche in chiesa, colpita dal fatto che fossero tanto più vecchi di me. Di solito, l’età di coloro che partecipano ai funerali è piuttosto variabile, invece a quello di Molly tutti hanno più o meno l’età che aveva lei. Ho immaginato che fossero amici e conoscenti perché so per certo che non aveva fratelli o sorelle a parte mia madre e che quando lei è morta – sette anni fa, quando io ne avevo venti – di quel ramo della famiglia sono rimasta soltanto io. Cerco disperatamente di ricordare qualcuna delle storie che Molly mi raccontava quando ero piccola, le storie della sua infanzia in Irlanda, ma per quanto mi sforzi, al momento non mi viene in mente nulla. Trovo frustrante che i ricordi che voglio tenere con me restino sepolti insieme a quelli di cui invece mi sbarazzerei volentieri.Sospirando spazientita bevo le ultime gocce di tè al latte rimaste nella tazza. Come ho potuto lasciare che accadesse? Zia Molly è stata così importante per me quando ero più giovane; come ho potuto lasciarla scivolare via dalla mia vita in questo modo? Avrei dovuto fare di più per rimanere in contatto… Avrei dovuto fare lo sforzo di venire qui a trovarla. Non è che abbiamo mai rotto i rapporti, o cose del genere. Ci siamo allontanate, semplicemente. No, non è esatto: io ho lasciato che ci allontanassimo.
«Mi scusi».
Mi volto e vedo un tipo magro dall’aria formale, in giacca e cravatta, in piedi accanto a me. «Sto parlando con la signorina McCall?»
«Sì».
«La signorina Darcy McCall?»
«Sì».
Sembra sollevato. «Ah, bene. Allora mi permetta di presentarmi». Mi porge la mano. «Niall Kearney, al suo servizio, miss McCall».
«Piacere di conoscerla, signor Kearney». Ricambio la sua stretta con una certa esitazione.
Lui annuisce.
Sorrido nella speranza di incoraggiarlo a venire al punto.
«Mi scusi, probabilmente il mio nome non le dice niente, mi sbaglio?». Si infila la mano nel taschino della giacca e ne estrae un biglietto da visita. «Ecco il mio biglietto. Mio padre, Patrick Kearney è stato per anni avvocato e amico di sua zia. Le manda le sue più sentite scuse per non aver potuto essere qui oggi, ma purtroppo non sta molto bene, così io rappresento lo studio al posto suo». Mentre mi offre queste informazioni con aria solenne, raddrizza le spalle esili sotto la giacca leggermente fuori misura.
«Ho capito». Abbasso per un secondo lo sguardo sul biglietto da visita. «Ma che cosa vuole da me, signor Kearney?».
Il ragazzo guarda a destra e a sinistra con aria furtiva prima di chinarsi verso di me. «Per prima cosa, signorina McCall», mormora, «devo insistere perché mi chiami Niall. Sono un avvocato, ma preferisco di gran lunga un approccio più personale». Si guarda di nuovo intorno con quell’aria da clandestino. «In secondo luogo, forse potremmo trovare un altro posto, un po’ più riservato, dove continuare la nostra conversazione».
«Non ne sono sicura…», temporeggio; questo tizio mi sembra un po’ strano.
«È solo che…». Torna a scrutare i presenti invitandomi con un gesto a fare altrettanto. E in effetti, sebbene gli invitati si sforzino di sembrare assorti nella conversazione e intenti a sorseggiare tè, diverse paia d’occhi saettano rapide verso di noi per poi posarsi altrove altrettanto rapidamente. Anche le orecchie sono senza dubbio tese verso di noi, e c’è che si sistema meglio l’apparecchio acustico, mentre Niall e io rimaniamo all’altro capo della cucina. «Ho da riferirle alcune cose di natura, diciamo, delicata. Non credo sia opportuno che ne vengano a conoscenza tutti gli invitati nonché, nel giro di dieci minuti, il paese intero».
«Allora dovremo trovare un posto più tranquillo». Mi guardo intorno. «Se andassimo qui fuori?», suggerisco indicando con un cenno il giardino della zia. «Dubito che ci sia qualcuno in una giornata come questa. Fa troppo freddo».
Mi infilo il cappotto militare grigio scuro, felice di avere la possibilità di indossarlo di nuovo. Ho comprato questo gioiellino di Vivienne Westwood poco tempo fa su Internet, con lo sconto del settantacinque per cento, un vero affare. Ci ho girato intorno a lungo, indecisa se comprarlo o meno, ma in questo gelido gennaio posso dire che vale tutti gli zeri che ci sono sul suo cartellino.Usciamo in giardino uno alla volta, a distanza di qualche minuto, così da non destare altri sospetti. Appena metto piede fuori vengo investita da un freddo polare e dal vento tagliente che mi solleva i lunghi capelli dalle spalle e me li schiaccia sul viso in ciocche disordinate.
Vento maledetto. Di tutti gli agenti atmosferici è quello che odio di più. Mi sorprende puntualmente quando mi sono appena fatta i capelli, il che vuol dire, nel mio caso, dopo che ho passato ore a lisciare e stirare pazientemente la mia lunga chioma bionda. Esco di casa e un vento impetuoso mi aspetta nascosto da qualche parte nel cielo, come una di quelle buffe personificazioni che si vedono nei libri per bambini. Mi sorride maligno prima di avventarsi sulla mia messa in piega appena fatta. Con la pioggia, almeno, si può opporre una minima resistenza aprendo un ombrello. Ma con il vento è inutile cercare di difendersi, il che lo rende di gran lunga il più temibile fra i due demoni.
Già io e gli spazi aperti non siamo grandi amici; in gennaio, poi, la rottura è completa. Eppure, dopo aver respirato l’aria stantia della casa sovraffollata, persino io sono felice di godermi l’aria fresca, frizzante, che mi sferza il viso e mi riempie i polmoni mentre mi rivolgo a Niall.
«Allora, qual è questo gran segreto?», gli chiedo educatamente mentre cerco di infilarmi i capelli nel collo del cappotto. Questo incontro nel giardino di Molly ha un sapore molto clandestino. È un peccato che Niall non sia più attraente, altrimenti questo furtivo appuntamento con uno sconosciuto avrebbe potuto avere risvolti piuttosto eccitanti.
Mi mordo metaforicamente la lingua. Devo abbandonare questa abitudine di giudicare la gente dall’aspetto, abitudine che ho preso da quando ho cominciato a lavorare per la rivista «Goddess». Lo so, è quello che fanno tutti: ci si forma un’opinione su una persona nei primi secondi in cui la si incontra. Ma quando, come me, si lavora nel settore della bellezza, in cui l’aspetto fisico è tutto, questa tendenza diventa morbosa.
Dopotutto non è colpa di Niall se non è… come dirlo con tatto? Diciamo che non è un Adone. Indossa un semplice completo grigio, giacca monopetto e pantaloni, che ha abbinato a una camicia bianca e una cravatta bourdeaux a tinta unita, una combinazione che non brilla certo per originalità. Circa un metro e sessantotto di altezza, corporatura esile, diciamo pure che è pelle e ossa. Porta occhiali dalla semplice montatura d’argento e ha corti capelli ondulati grigio topo, insomma tutto ciò che si conviene a un giovane avvocato dublinese emergente. Non è proprio brutto, concludo dopo averlo esaminato meglio, ma di sicuro non è attraente. È solo… insignificante.
«Non è un gran segreto, signorina McCall», mi dice Niall, interrompendo i miei pensieri. «È solo che dobbiamo fissare un appuntamento, tutto qui».
«Perché?»
«Per dare lettura del testamento di sua zia».
Al momento sono leggermente distratta dalla necessità di impedire che i tacchi delle mie Louboutin sprofondino nel fango del prato. Solo perché le ho comprate come nuove su eBay da una tizia che aveva deciso di venderle per pagare le nozze della figlia, non significa che debba usarle per scavare buche in giardino. «Molly ha lasciato un testamento?»
«Sì, e molto dettagliato, se posso permettermi. Aveva le idee molto chiare sulla destinazione del suo patrimonio dopo la sua dipartita».
«Il suo patrimonio?». Drizzo le orecchie: gli avvocati di solito usano la parola patrimonio solo se ci sono in ballo un bel po’ di soldi. «Aveva un po’ di contante infilato nel materasso, la zia Molly?», dico ridendo a Niall.
«La prego, signorina McCall», mi ammonisce lui guardandomi tutto serio da dietro le lenti. «La lettura del testamento di un defunto non è mai argomento da trattare alla leggera».
«No, no di certo, signor Kearney, volevo dire… Niall». Mi sforzo di apparire seria e professionale. «Allora, quando avrà luogo la lettura?»
«Dipende da lei, signorina McCall». Niall si guarda intorno con la stessa aria furtiva che aveva poco prima, in casa. Quando si protende verso di me, gli occhi azzurro pallido saettano di nuovo a destra e sinistra. «Perché», sibila a voce talmente bassa che faccio fatica a capire, «ho il piacere di informarla, signorina Darcy McCall, che lei è l’unica beneficiaria dell’intero patrimonio appartenuto alla signorina Emmeline Ava Aisling McCall».
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