Salve a tutti carissimi lettori,
quest'oggi vorrei parlarvi del romanzo di Natascha Kampusch, “3096 giorni”. Ricorderete vagamente di aver sentito sui notiziari la drammatica vicenda di questa ragazza rapita alla tenera età di dieci anni, e che dopo 8 anni di maltrattamenti, ingiustizie, traumi e percosse riuscì a scappare dal suo aguzzino. Ora con questo libro cerca di chiudere il capitolo più doloroso della sua vita a guardare avanti, con la convinzione di essere veramente libera.
Titolo: 3096 giorni
Autore: Natascha Kampusch
Editore: Bompiani
N. pagine: 295
Recensione eseguita da Ilaria
Trama:
Natascha Kampush ha dieci anni quando viene rapita. Troverà la libertà dopo 3096 giorni, oltre otto anni dopo, riuscendo a fuggire dall'appartamento in cui veniva segregata. Il rapitore, disperato per l'abbandono, si suicida. Il loro non era, infatti, un "semplice" rapporto di violenza e sottomissione. Tutta la lunga prigionia alterna momenti di violenza a momenti di tenerezza. Il rapitore vede crescere Natascha, la vede trasformarsi da bambina a ragazza. Le concede a un certo punto di uscire dalla cantina in cui era rinchiusa, per salire nell'appartamento di lui e farsi un bagno, talvolta invitandola nel suo letto per avere affetto e tenerezza, ma poi la picchia e la umilia, arrivando a negarle il cibo. L'atteggiamento dell'uomo (che per altri versi le concede di disegnare, di usare il computer) è simile a quello del mitico Pigmalione, disgustato dalle donne reali e deciso a costruirsene una perfetta con le proprie mani. Il loro lungo rapporto va avanti così per più di otto anni: Natascha riesce evidentemente ad avere un ascendente su di lui, in un rapporto di dipendenza reciproca che gli psichiatri conoscono. Fino a che Natascha, dopo molte riflessioni, decide di "abbandonarlo" e di fuggire, trovando finalmente la libertà e, lentamente, una sua nuova vita. Quasi normale.
Recensione:
Natascha ha dieci anni e vive insieme alla sua famiglia a Vienna. È una bambina paffutella, per non dire grassa. Ignara del pericolo imminente e convinta di non essere il tipo di bambina che sembrano preferire i rapitori, si reca a scuola da sola. Esce dal palazzo in cui abita, svolta l'angolo per dirigersi verso l'edificio, e sul suo cammino incontra Wolfgang Priklopil. Il rapitore. Ha inizio così la prigionia di Natascha che durò per ben 3096 giorni.
La vicenda è ambientata in una piccola provincia di Vienna, Strasshof, dove si trova la casa del rapitore. Nella quale Natascha visse i suoi anni di prigionia.
Natascha si descrive nelle prime pagine come una bambina insicura, triste, con problemi familiari,abbandonata a sé stessa, senza autostima che causa continuamente fastidi agli adulti. Quella stessa bambina, dovette rapportarsi con il suo rapitore che cercò in ogni modo di sottometterla, umiliarla e controllarla. Natascha con la sua forza, la sua autonomia è riuscita a non piegarsi al suo volere, rimanendo costante, sicura e decisa. Un pugno per lei era un motivo per combattere. Un calcio un motivo per rialzarsi. Una privazione, come il cibo, era un motivo per sperare, credere in una possibile salvezza. Nei suoi anni di prigionia Natascha ha creato con Priklopil un legame indissolubile, ancora oggi presente, poiché dai reporter e dalle critiche mossole non si riesce a capire perché a distanza di tempo Natascha senta il dovere di tornare in quella casa, pulirla e riordinarla. Il legame, all'ora si basava sull'avere e sul dare, sul ricevere e sopportare. Natascha oggi ricorda il rapitore come un uomo insicuro, con gravi problemi psichici, rabbioso, solo, ma al tempo stesso fragile che desiderava come tutti una persona alla quale potersi stringere e fidare. La ragazza tiene in modo particolare a precisare che nonostante il rapitore abbia abusato di lei dall'età di quattordici anni, Priklopil non era un a bestia crudele, come lo hanno descritto i giornali dopo la sua fuga, ma una persona desiderosa d' affetto. Priklopil era un uomo estremamente violento, con problemi mentali evidenti, desideroso di governare nel piccolo luogo della sua casa quella piccola creatura che aveva rapito in giovanissima età. Una persona facilmente turbabile e suscettibile, capace di grande atrocità come colpire una bambina di quattordici anni al ginocchio con un coltello da cucina, ma solidale e attento nei confronti di una bambina di soli dieci anni spaventata e sola, desiderosa di conforto. Spesso gli psicologi che hanno seguito il caso, hanno accusato nel comportamento di Natascha la sindrome di Stoccolma. Il termine fu coniato dopo una rapina a una banca di Stoccolma, nel 1973. Per cinque giorni i rapitori tennero in ostaggio quattro impiegati. Con stupore dei media, al momento della liberazione, ci si accorse che gli ostaggi avevano più paura della polizia che dei rapinatori, e che avevano assoluta comprensione di questi ultimi. Alcune delle vittime chiesero pietà per i rapinatori e fecero loro visita in prigione. Natascha oggi si oppone con tanta veemenza a farsi attribuire questa etichetta poiché essendo stata rapita, privata della propria famiglia, dell'identità, Priklopil divenne di conseguenza la sua famiglia. Come lei ci spiega, non aveva alcuna possibilità se non accettarlo come tale e ad imparare a gioire delle sue attenzioni, rimuovendo tutto il negativo.
Natascha nel raccontarci la sua prigionia usa un linguaggio molto semplice, colloquiale, di facile comprensione. Uno stile, potremo dire, “schietto” senza mezzi termini. Ci espone con chiarezza le sue sofferenze, le percosse, il dolore subito come stesse parlando di un'altra persona e lei fosse uno spettatore incuriosito. Spesso risulta ripetitiva nel voler mettere in evidenza il fatto che lei non si sia mai piegata al volere del rapitore, e che Priklopil fosse prima di tutto un uomo, e non una bestia. Nonostante questo la lettura è scorrevole e molte parti lasciano l'amaro in bocca. Scoprire che una singola bambina dovette sopportare simile atrocità, farebbe suscitare le ire di chiunque e scoprire che la stessa vittima riuscì a perdonarlo, accese ancora di più gli animi. Ma bisogna accettare la decisione e non criticarla. Poiché grazie al perdono ora Natascha può guardare al futuro. Chiudere il capitolo più difficile e cupo della sua vita. Avere la convinzione di essere stata abbastanza forte da liberarsi e di saper destreggiarsi anche nella vita in libertà.
Avendo letto questo libro e avendolo apprezzato notevolmente non posso far altro che consigliarlo.
Un documento storico del rapimento più lungo della storia recente.
"I want once more in my life some happiness
and survive in the ecstasy of living
I want once more see a smile and laughing for a while
I want once more the taste of someone's love"
and survive in the ecstasy of living
I want once more see a smile and laughing for a while
I want once more the taste of someone's love"
Estratto I Capitolo: Un fragile mondo
La mia infanzia alla periferia di Vienna
Mia madre si accese una sigaretta e dette una lunga tirata. “È già buio fuori. Ti sarebbe potuto
succedere qualcosa!” Scosse la testa.
Mio padre e io avevamo trascorso l’ultimo fine settimana di febbraio dell’anno 1998 in Ungheria,
dove, in un piccolo villaggio non lontano dalla frontiera, aveva comprato una seconda casa. Era
una vera e propria catapecchia, con l’intonaco che si sgretolava sulle pareti umide.Nel corso
degli anni mio padre l’aveva ristrutturata e arredata con dei bei mobili antichi così che, nel
frattempo, era diventata quasi accogliente. E tuttavia non amavo molto andare con lui laggiù. In
Ungheria mio padre aveva tanti amici che vedeva spesso e con i quali, grazie al cambio
conveniente, festeggiava sempre un po’ troppo. Nelle osterie e nei ristoranti dove andavamo la
sera, io ero l’unica bambina della compagnia, sedevo silenziosa in disparte e mi annoiavo.
Come le altre volte, anche quel fine settimana, ero andata con lui di malavoglia. Il tempo
passava lentamente e io mi arrabbiai perché ero ancora troppo piccola e non abbastanza
indipendente per disporne a modo mio. Anche quando la domenica andammo al vicino bagno
termale, il mio entusiasmo fu contenuto. Mi aggiravo di malumore per le terme, quando una
conoscente mi rivolse la parola: “Ti va di bere una bibita insieme a me?” Annuii e la seguii al
bar. Era un’attrice e viveva a Vienna. La ammiravo perché emanava una grande tranquillità e
sembrava così sicura di sé. Inoltre faceva proprio il lavoro che in segreto sognavo di fare
anch’io. Dopo un po’, presi fiato e dissi: “Sai, anche a me piacerebbe diventare un’attrice. Credi
che potrei riuscirci?”
Mi sorrise raggiante. “Certo che puoi riuscirci, Natascha! Diventerai una magnifica attrice, se lo
vuoi veramente!”
Il mio cuore fece un balzo. Ero certa che non mi avrebbe preso sul serio o che avrebbe riso di
me, come mi succedeva spesso. “Quando verrà il momento, ti aiuterò,” mi promise e mi cinse le
spalle con il braccio. Mentre tornavo in piscina, mi misi a saltellare allegramente, canticchiando
tra me: “Posso fare ogni cosa, se solo lo voglio e se credo in me stessa.” Mi sentivo così
leggera e spensierata come non mi era più successo da tanto tempo.
Tuttavia la mia euforia durò poco. Era già pomeriggio inoltrato, ma mio padre non manifestava
l’intenzione di andarsene dal bagno termale. E anche quando finalmente ritornammo a casa,
mio padre non si affrettò. Al contrario, volle riposarsi ancora un poco. Io guardavo
nervosamente l’orologio. Avevamo promesso a mia madre di essere a casa alle sette; il giorno
dopo, infatti, dovevo andare a scuola. Sapevo che se non fossimo arrivati puntuali a Vienna, ci
sarebbe stato un violento litigio. Mentre mio padre russava sul divano, il tempo passava
inesorabile. Quando finalmente mio padre si svegliò e ci mettemmo sulla strada del ritorno, era
già buio. Io me ne stavo seduta imbronciata sul sedile posteriore e non dicevo una parola. Non
saremmo arrivati in tempo, mia madre si sarebbe arrabbiata e tutte le cose belle che erano
accadute quel pomeriggio, sarebbero svanite di colpo. Come sempre mi sarei ritrovata tra due
fronti. Gli adulti rovinavano sempre tutto. Quando mio padre mi comprò della cioccolata a un
distributore di benzina, la trangugiai tutta in una volta.
Arrivammo al complesso residenziale del Rennbahn alle otto e mezzo, con due ore di ritardo.
“Scendi qui, corri a casa,” disse mio padre e mi dette un bacio. “Ti voglio bene,” mormorai come
sempre, quando lo salutavo. Poi attraversai il cortile buio fino alla nostra scala e aprii la porta. In
corridoio, accanto al telefono, trovai un biglietto di mia madre: “Sono al cinema, torno più tardi.”
Appoggiai la mia borsa per terra ed esitai un momento. Poi scrissi a mia madre un biglietto nel
quale le dicevo che l’avrei aspettata dalla nostra vicina, al piano di sotto. Quando, dopo un po’
di tempo, mi venne a prendere, era fuori di sé: “Dov’è tuo padre?” mi gridò.
“Non è salito con me, mi ha fatto scendere davanti all’entrata,” dissi piano. Non potevo farci
niente se eravamo tornati tardi e se mio padre non mi aveva accompagnato fino alla porta di
casa. E tuttavia mi sentivo colpevole.
“Oh santo cielo! Siete in ritardo di ore, io sto a casa e mi preoccupo. Come ha potuto
permettere che attraversassi da sola il cortile? In piena notte? Poteva succederti qualcosa! Ma
lascia che ti dica una cosa: tuo padre, tu non lo vedrai più. Sono così stufa e questa situazione
non la tollero più!”
Al momento della mia nascita, il 17 febbraio 1988, mia madre aveva trentotto anni e due figlie
già adulte. La mia prima sorellastra era nata quando mia madre aveva appena diciotto anni, la
seconda nacque poco più di un anno dopo. Era la fine degli anni sessanta. Mia madre, con le
due bambine piccole, era oberata di lavoro e poteva contare solo sulle sue forze: aveva
divorziato dal padre delle due bambine poco dopo la nascita della mia seconda sorellastra. Non
era stato facile per lei far fronte al mantenimento della sua piccola famiglia. Aveva dovuto
lottare per molte cose, aveva agito nei confronti di se stessa in modo pragmatico e con una
certa durezza e aveva fatto di tutto per provvedere alle figlie. Nella sua vita non c’era stato
posto per sentimentalismi e tentennamenti, per gli svaghi e le frivolezze. Adesso che aveva
trentotto anni e le bambine erano adulte, per la prima volta dopo tanto tempo era libera dai
doveri e dalle preoccupazioni dell’educazione dei figli. Proprio in quel momento mi annunciai.
Mia madre non si aspettava più una gravidanza.
La famiglia nella quale nacqui, era in realtà già sul punto di sciogliersi. Io mandai tutto all’aria: le
cose da bambini dovettero essere ritirate fuori e i ritmi di una giornata adattati a quelli di un
lattante. Anche se fui accolta con gioia e viziata da tutti come una piccola principessa, durante
l’infanzia mi sono sentita talvolta come l’ultima ruota del carro. All’inizio ho dovuto lottare per
ottenere il mio posto in un mondo in cui i ruoli erano già stati assegnati.
Quando nacqui, i miei genitori stavano insieme da tre anni. Si erano conosciuti tramite una
cliente di mia madre. Mia madre era una sarta qualificata e manteneva se stessa e le sue due
figlie cucendo e modificando i vestiti per le signore dei dintorni. Una delle sue clienti era una
signora di Süssenbrunn, una località nei pressi di Vienna, che insieme a suo marito e a suo
figlio gestiva un panificio e un piccolo negozio di alimentari. Ludwig Koch junior l’accompagnava
talvolta alla prova degli abiti e si tratteneva sempre più a lungo del necessario per chiacchierare
con mia madre. Lei si era subito innamorata del giovane, prestante panettiere che la faceva
ridere con le sue storie. Dopo qualche tempo, Ludwig Koch si fermò sempre più spesso da mia
madre e dalle due bambine, nella grande casa popolare nella periferia a nord di Vienna. Lì la
città si sfrangia in direzione della Piana della Morava e sembra che non riesca a decidere cosa
vuole diventare. È una zona costruita senza un piano, priva di un centro e di personalità, nella
quale tutto sembra possibile e dove regna il caso. Zone industriali e fabbriche sorgono tra
campi improduttivi, sui quali i cani del complesso residenziale scorrazzano in branco, tra l’erba
alta. Nel mezzo, i nuclei dei vecchi villaggi, lottano per conservare la loro identità, che si sfalda
lentamente, proprio come i colori delle casette in stile Biedermeier. Relitti di un tempo passato
che sono stati sostituiti da innumerevoli costruzioni popolari, frutto di un’utopica edilizia sociale
che aveva collocato i nuovi palazzi sui prati verdi con grande clamore, abbandonandoli poi a se
stessi. Io sono cresciuta in uno dei più grandi complessi residenziali di questo tipo.
Il conglomerato di abitazioni popolari sul Rennbahnnweg era stato progettato e realizzato negli
anni settanta. Era una visione urbanistica che si era trasformata in pietra e si prefiggeva di
creare un nuovo ambiente per l’uomo: famiglie del futuro felici e operose, sistemate in moderne
città satellite dalle linee chiare, fornite di centri commerciali e buoni collegamenti con Vienna.
A un primo sguardo l’esperimento sembrava riuscito. Il complesso consiste di
duemilaquattrocento appartamenti, dove abitano più di settemila persone. I cortili tra i blocchi
abitativi sono stati calcolati con generosità e sono ombreggiati da alti alberi; gli spazi destinati ai
giochi si alternano ad aree di cemento e grandi superfici a prato. L’osservatore riesce a
immaginare con chiarezza il plastico con le miniature di bambini che giocano e di madri con le
carrozzine, che gli urbanisti realizzarono con la convinzione di aver creato uno spazio adatto a
un tipo di convivenza sociale del tutto nuova. In confronto alle case in affitto in città, muffite e
inferiori allo standard, quegli appartamenti accatastati uno sopra l’altro in blocchi alti quindici
piani, erano ariosi e ben suddivisi, provvisti di balconi e forniti di bagni moderni.
Ma fin dall’inizio quel complesso residenziale era stato un ricettacolo di immigrati che
desideravano andare in città e che però non ci arrivavano veramente: operai provenienti dai
länder austriaci, dalla Bassa Austria, dal Burgenland e dalla Stiria. Poco a poco si aggiunsero
gli emigranti con i quali gli altri abitanti avevano quotidianamente piccole scaramucce per via
degli odori di cucina, dei bambini che giocavano e delle diverse opinioni sul volume che doveva
avere un suono. L’atmosfera nella zona divenne più aggressiva, il numero delle scritte
nazionaliste e xenofobe aumentò. Nel centro commerciale si trasferirono negozi a buon
mercato, sulle grandi piazze di fronte, già in pieno giorno, scorrazzavano ragazzi e disoccupati,
che affogavano la loro frustrazione nell’alcool.
Oggi il complesso residenziale è stato ristrutturato, i palazzi brillano di colori vivaci e la
metropolitana è stata finalmente completata. Ma quando io vi trascorsi la mia infanzia, il
“Rennbahnweg” era addirittura considerato come il classico esempio di un punto socialmente
critico. Era opinione diffusa che fosse pericoloso attraversare la zona di notte, ma anche di
giorno non era piacevole passare davanti ai gruppi di teppisti che ingannavano il tempo
bighellonando nei cortili e gridando allusioni dietro le donne. Mia madre attraversava i cortili e
saliva le scale sempre a passo svelto, con la mia mano stretta nella sua. Nonostante fosse una
donna molto risoluta e dalla risposta pronta, odiava le volgarità alle quali era esposta in
Rennbahnweg. Cercava di proteggermi come meglio poteva; mi spiegò perché non vedeva di
buon occhio che giocassi nel cortile e perché credeva che i vicini fossero volgari. Per me, che
ero una bambina, questo atteggiamento non era naturalmente condivisibile a un primo sguardo,
ma per lo più seguivo le direttive di mia madre.
Nonostante ciò, ricordo ancora con chiarezza che, da piccola, mi riproponevo in continuazione
di scendere in cortile a giocare. Mi preparavo per ore, riflettevo su cosa avrei detto agli altri
bambini, mi vestivo e mi cambiavo di nuovo. Sceglievo i giocattoli per la sabbiera e li rimettevo
via; pensavo a lungo a quale bambola avrei dovuto portare con me, per fare amicizia. Ma poi,
quando arrivavo davvero nel cortile, ci rimanevo soltanto pochi minuti: non riuscivo a superare
la sensazione di non appartenenza a quel posto. Avevo interiorizzato a tal punto
l’atteggiamento di rifiuto dei miei genitori che il mio stesso quartiere rimase per me un mondo
estraneo. Preferivo rifugiarmi nei miei sogni a occhi aperti, sdraiata sul mio letto, nella mia
camera. Quella stanza dipinta di rosa, con la moquette chiara e la tenda fantasia che aveva
cucito mia madre e che nessuno apriva neanche di giorno, mi avvolgeva e mi proteggeva. Qui
facevo grandi progetti e pensavo per ore a dove mi avrebbe condotto il mio cammino nella vita.
Lì, in quel complesso residenziale, questo lo sapevo, non volevo mettere radici.
Durante i primi mesi della mia vita fui al centro dell’attenzione della nostra famiglia. Le mie
sorelle si presero cura del nuovo bebè come se si esercitassero per il loro futuro. Una mi dava
da mangiare e mi cambiava i pannolini, l’altra mi portava in centro, avvolta in un telo portabebè
e passeggiava su e giù lungo le vie con i negozi, dove i passanti si fermavano ad ammirare il
mio ampio sorriso e i miei bei vestiti. Quando lo raccontavano a mia madre, lei era felice. Si
dedicava con passione al mio aspetto e fin da piccola mi agghindò con i vestiti più belli, che
cuciva per me la sera, fino a tardi. Sceglieva delle stoffe particolari, sfogliava le riviste di moda
cercando i cartamodelli più nuovi oppure mi comprava delle piccolezze nelle boutique. Ogni
cosa si intonava all’altra, persino le calzette. In un quartiere, nel quale molte donne si
trascinavano fino al supermercato con i bigodini in testa e la maggior parte degli uomini
indossava i pantaloni di nylon di una tuta da ginnastica, io ero vestita come una piccola
indossatrice. Questo dare un eccessivo risalto all’aspetto esteriore non era solo un modo per
distinguerci dall’ambiente in cui vivevamo; era anche la maniera di mia madre di dimostrarmi il
suo amore.
A causa della sua natura energica e risoluta, le riusciva difficile accettare i suoi sentimenti e
quelli degli altri. Non era il tipo di donna che prende continuamente in braccio il suo bambino e
lo sbaciucchia. Sia le lacrime, sia le esagerate manifestazioni di amore le davano sempre un po’
fastidio. Mia madre, che per via della precoce gravidanza era dovuta diventare adulta alla
svelta, nel corso del tempo si era formata una scorza dura. Lei stessa non si concedeva
nessuna “debolezza” e non la sopportava negli altri. Da bambina l’ho vista spesso superare un
raffreddore con la sola forza di volontà e la guardavo affascinata mentre prendeva le stoviglie
ancora calde fumanti dalla lavastoviglie senza esitare. “Un indiano non prova dolore” era il suo
credo: una certa durezza non nuoce e aiuta addirittura a stare al mondo.
Sotto questo aspetto mio padre era l’esatto contrario. Mi accoglieva a braccia aperte quando
desideravo accoccolarmi accanto a lui e si divertiva molto a giocare con me, quando era
sveglio. Nel periodo, infatti, in cui abitava ancora con noi, l’ho visto per lo più dormire. Mio padre
amava uscire la sera, e beveva volentieri e in abbondanza con i suoi amici. Era pertanto poco
adatto alla sua professione. Aveva rilevato il panificio di suo padre senza mai entusiasmarsi per
quel mestiere. Ma la sofferenza più grande era per lui doversi alzare presto. Fino a mezzanotte
andava in giro per i bar e quando la sveglia suonava alla due del mattino, era quasi impossibile
svegliarlo. Dopo aver consegnato il pane, rimaneva ore sdraiato a russare sul divano. Il ventre
enorme e rotondo, si alzava e si abbassava imponente davanti ai miei occhi affascinati di
bambina. Giocavo con quel grande uomo addormentato, gli mettevo accanto gli orsacchiotti, lo
adornavo con nastri e fiocchi, gli mettevo delle cuffiette e lo smalto sulle unghie. Quando il
pomeriggio si risvegliava, mi faceva volteggiare in aria e, come per magia, tirava fuori dalle
maniche delle piccole sorprese. Poi se ne andava di nuovo in giro per i bar e i caffè della città.
In quel periodo, il mio punto di riferimento più importante divenne mia nonna. Insieme a lei, che
gestiva con mio padre il panificio, mi sentivo a casa, al sicuro. Abitava solo a pochi minuti d’auto
da casa nostra e tuttavia in un altro mondo. Süssenbrunn è uno di quegli antichi villaggi alla
periferia nord di Vienna con un carattere rurale che la città, in costante avvicinamento, non era
riuscita a deteriorare. Le antiche villette con il giardino, dove venivano ancora coltivati gli
ortaggi, costeggiavano le tranquille vie laterali. La casa di mia nonna, dove al piano terra si
trovavano anche una piccola bottega di generi alimentari e il panificio, era ancora esattamente
come ai tempi della monarchia.
Mia nonna era originaria della Wachau, una zona pittoresca della valle del Danubio, dove, su
assolati pendii terrazzati, viene coltivata la vite. I suoi genitori erano viticoltori e, com’era
consuetudine a quei tempi, mia nonna, fin da piccola, aveva dovuto dare una mano alla fattoria.
Parlava piena di malinconia e nostalgia della sua giovinezza in quella regione che, negli anni
cinquanta, i film con Hans Moser avevano raffigurato come un luogo ameno e idilliaco E questo
nonostante la vita di mia nonna, in quella campagna pittoresca, fosse stata incentrata tutta sul
lavoro, lavoro, e ancora lavoro. Quando, sul traghetto che trasportava la gente da una sponda
all’altra del Danubio, conobbe un panettiere di Spitz, colse l’occasione per fuggire da quella vita
che sembrava già segnata e si sposò. Ludwig Koch senior aveva ventiquattro anni più di lei ed
è difficile immaginare che sia stato solo l’amore a indurla al matrimonio. Ma per tutta la sua vita
mia nonna parlò con grande affetto di suo marito, che io non ho mai conosciuto. Morì poco
prima della mia nascita.
Nonostante tutti gli anni trascorsi in città, mia nonna rimase una donna di campagna, un po’
stravagante. Indossava delle gonne di lana e, sopra, dei grembiuli a fiori; portava i capelli
arricciati ed emanava un odore di cucina e di lozione antireumatica che mi avvolgeva quando
premevo il viso sulle sue gonne. Mi piaceva addirittura quella leggera esalazione di alcool che
sempre la circondava.Essendo figlia di un viticoltore, beveva a ogni pasto un gran bicchiere di
vino, come fosse acqua, senza poi mai mostrare il benché minimo accenno di ubriachezza.
Rimase fedele alle sue abitudini, cucinava su una vecchia stufa a legna e puliva le pentole con
un’antiquata spazzola di metallo. Curava i suoi fiori con particolare dedizione. Nel grande cortile
sul retro della casa, sulle mattonelle di graniglia, c’erano tantissimi vasi di terracotta e di legno,
e un vecchio tino dalla forma allungata, che in primavera e in estate si trasformavano in piccole
isole di fiori viola, gialli, bianchi e rosa. Nell’orto adiacente maturavano albicocche, ciliegie,
prugne e ribes a volontà. Il contrasto con il nostro complesso residenziale in Rennbahnweg non
avrebbe potuto essere più grande.
Nei primi anni della mia vita, mia nonna rappresentò il luogo al quale sentivo di appartenere.
Dormivo spesso da lei, mi lasciavo viziare con la cioccolata e mi rannicchiavo accanto a lei sul
divano. Di pomeriggio andavo a trovare un’amica che abitava lì e i cui genitori avevano una
piccola piscina in giardino; andavo in bicicletta con gli altri bambini sulla strada che attraversava
il villaggio ed esploravo curiosa un ambiente dove ci potevamo muovere liberamente. Quando
in seguito, i miei genitori, aprirono un negozio nelle vicinanze, qualche volta facevo in bicicletta
quel paio di minuti che mi separavano da casa di mia nonna per farle una sorpresa. Ricordo
ancora che spesso era sotto il casco asciugacapelli e non mi sentiva suonare e bussare. Allora
scavalcavo il recinto, mi introducevo in casa di soppiatto, passando dal retro, e mi divertivo a
spaventarla. Con i bigodini in testa mi correva dietro per la cucina, ridendo – “Aspetta solo che ti
acchiappi!” – e per “punizione” mi assegnava un lavoro in giardino. Amavo cogliere le ciliegie
insieme a lei oppure staccare con attenzione dagli arbusti i tralci carichi di ribes.
Mia nonna mi regalò non soltanto un pezzo d’infanzia spensierata e protetta, ma imparai da lei
anche come ci si possa creare degli spazi in un mondo che non ammette sentimenti. Quando
andavo a trovarla, la accompagnavo quasi ogni giorno al piccolo cimitero che si trova un po’
fuori dal paese, in mezzo a vasti campi. La tomba di mio nonno con la sua pietra nera, lucente,
era posta in fondo, in prossimità di un sentiero che era stato da poco coperto di ghiaia, accanto
alle mura del cimitero. In estate, il sole brucia sulle tombe e a parte qualche auto sporadica che
passa sulla strada principale, si sentono soltanto il frinire dei grilli e gli stormi di uccelli sopra i
campi. Mia nonna posava i fiori freschi sulla tomba e piangeva piano, tra sé. Quando ero
piccola, cercavo sempre di consolarla: “Non piangere, nonna. Nonno ti vuol vedere ridere!” In
seguito, quando frequentavo già le scuole elementari, ho capito che le donne della mia famiglia,
che nella vita di tutti i giorni non volevano mostrare debolezze, avevano bisogno di un posto
dove poter dare libero sfogo ai propri sentimenti.
Quando fui più grande, i pomeriggi a casa delle amiche di mia nonna, che spesso si univano a
noi durante le visite al cimitero, cominciarono ad annoiarmi. Da piccola mi era piaciuto farmi
rimpinzare di dolci da quelle vecchie signore e rispondere alle loro numerose domande. Ma a
un certo punto non ebbi più voglia di stare seduta in quegli antiquati salotti con i mobili scuri e le
tovaglie di pizzo, dove non mi era permesso toccare niente, mentre le signore si vantavano dei
loro nipoti. Allora mia nonna se l’era presa tanto per questo mio allontanamento. “Vuol dire che
mi cercherò un’altra nipote,” mi comunicò un giorno. Rimasi profondamente ferita quando
cominciò davvero a regalare gelati e dolciumi a un’altra bambina che veniva regolarmente in
negozio.
Questo dissapore fu dimenticato in fretta, ma da quel momento in poi le mie visite a
Süssenbrunn si fecero più rare. Mia madre aveva comunque un rapporto teso con sua suocera,
e quindi non le dispiacque che non restassi più così spesso a dormire da lei. Sebbene il nostro
rapporto – come accade alla maggior parte dei nipoti e delle nonne –, nel periodo delle scuole
elementari divenne meno intenso, mia nonna rappresentò sempre per me la roccia alla quale
aggrapparmi nella tempesta. Perché mi permise di fare scorta di un vitale senso di sicurezza e
protezione, di cui a casa sentivo invece la mancanza.
Tre anni prima della mia nascita, i miei genitori aprirono un piccolo negozio di generi alimentari
con unaStüberl– un piccolo caffè annesso – nel complesso residenziale Marco Polo, a circa
quindici minuti d’auto dal Rennbahnweg. Nel 1988 rilevarono anche una bottega in
Pröbstelgasse, a Süssenbrunn, lontana soltanto poche centinaia di metri dalla casa di mia
nonna, lungo la via principale del paese. Al piano terra di un palazzo d’angolo rosa antico,
dietro una porta antiquata e un bancone risalente agli anni sessanta, i miei genitori vendevano
prodotti di pasticceria, specialità gastronomiche, giornali e riviste speciali per i camionisti che lì,
sulla strada radiale di Vienna, facevano un’ultima sosta. Sugli scaffali erano accatastati i piccoli
oggetti di uso quotidiano che si acquistavano ancora nelle botteghe, anche se già da molto
tempo si faceva il resto della spesa al supermercato: piccole scatole di detersivi, pasta,
minestre in busta e soprattutto dolciumi. Nel piccolo cortile sul retro c’era una vecchia cella
frigorifera verniciata di rosa.
Questi due negozi divennero in seguito – insieme alla casa di mia nonna – i luoghi centrali della
mia infanzia. Nel negozio del complesso residenziale Marco Polo trascorsi innumerevoli
pomeriggi dopo l’asilo o la scuola, mentre mia madre si occupava della contabilità o serviva i
clienti. Giocavo a nascondino con gli altri bambini oppure scivolavo giù per la collinetta degli
slittini che aveva eretto il comune. Quel complesso era più piccolo e tranquillo del nostro ed io
potevo muovermi liberamente e facevo facilmente amicizia. Dal negozio osservavo gli avventori
del caffè: casalinghe, uomini che tornavano dal lavoro e altri che bevevano la loro prima birra
già in tarda mattinata e che si facevano servire con essa anche un toast. Questi negozi
appartengono a un genere che scompare lentamente dalle città e che grazie agli orari di
apertura più lunghi, alla mescita di alcolici e al contatto personale, rappresentano un punto di
ritrovo importante per molta gente.
Mio padre aveva la responsabilità del panificio e della consegna dei prodotti da forno, di tutto il
resto si occupava mia madre. Quando avevo circa cinque anni, cominciò a portarmi con lui nei
suoi giri. Con il nostro furgone, attraversavamo gli ampi sobborghi e i paesini, ci fermavamo in
trattorie, bar e caffè, presso le bancarelle degli hot dog e nei piccoli negozi. Per questo
conoscevo la zona a nord del Danubio probabilmente meglio di qualsiasi altro bambino della
mia età, e trascorsi più tempo nei bar e nei caffè di quello che forse era opportuno. Mi piaceva
immensamente passare tutto quel tempo insieme a mio padre e mi sentivo molto adulta e presa
sul serio. Tuttavia, i giri per i locali avevano anche i loro lati spiacevoli.
“È una bambina così carina!” Questa frase l’ho sentita probabilmente mille volte. Non ne ho un
buon ricordo, sebbene mi lodassero e fossi così al centro dell’attenzione. Le persone che mi
pizzicavano le guance e mi compravano la cioccolata, erano degli estranei per me. Inoltre
odiavo essere spinta sotto i riflettori senza che l’avessi voluto io, perché non provavo altro che
una sensazione di imbarazzo.
In questo caso era mio padre che si faceva bello con me davanti ai clienti. Mio padre era un
uomo affabile, che amava fare scena, e sua figlia, con il suo vestitino stirato di fresco, era un
accessorio perfetto. Aveva amici dappertutto, così tanti che persino da bambina mi accorsi che
quelle persone non potevano essergli tutte veramente vicine. La maggior parte di loro si faceva
offrire una bevuta o prestare del denaro. Preso dal desiderio di essere apprezzato, mio padre
pagava volentieri.
In quelle birrerie di periferia, piene di fumo, me ne stavo seduta su uno sgabello e ascoltavo gli
adulti che si interessavano a me soltanto in un primo momento. Buona parte di loro erano
disoccupati o falliti che trascorrevano le loro giornate bevendo birra, vino e giocando a carte.
Molti avevano svolto una professione, un tempo, erano stati insegnanti o impiegati statali che
ad un certo punto, però, erano usciti dalla carreggiata. Oggi si chiamaburnout. Allora, in
periferia era la normalità.
Solo di rado qualcuno domandava cosa ci facevo in quei locali. La maggior parte lo accettava
come un dato di fatto ed era gentile con me in un modo esagerato. “La mia grande bambina,”
diceva mio padre con approvazione, accarezzandomi la guancia. Se qualcuno mi offriva una
bibita o dei dolciumi, allora si aspettava da me qualcosa in cambio: “Dai un bacetto allo zio. Dai
un bacetto alla zia.” Io mi rifiutavo di avere un così stretto contatto con degli estranei e ce
l’avevo con loro perché mi rubavano l’attenzione di mio padre che invece mi spettava. Questi
giri di consegne erano delle continue docce calde e fredde: un momento ero al centro
dell’attenzione, mio padre mi presentava orgoglioso alla compagnia e ricevevo una caramella;
un attimo dopo facevano tutti così poco caso a me che sarei potuta finire sotto un’auto e
nessuno se ne sarebbe accorto. Questo continuo oscillare tra attenzione e trascuratezza, in un
mondo superficiale, logorava la sicurezza in me stessa. Imparai a mettermi al centro
dell’attenzione e a restarci il più a lungo possibile. Ho capito soltanto oggi che quella tendenza a
stare sul palcoscenico, il sogno di diventare attrice che avevo maturato fin da piccola, non
nasceva da me stessa. Era un modo di imitare i miei estroversi genitori, e un metodo per
sopravvivere in un mondo dove gli adulti o mi ammiravano oppure non mi consideravano
affatto.
Poco dopo, questa continua altalena tra attenzione e disinteresse che tanto scalfiva la mia
sicurezza, penetrò anche nell’ambiente a me più vicino. Il mondo della mia prima infanzia
cominciò a mostrare lentamente delle crepe. All’inizio erano così sottili e impercettibili che
riuscivo ancora a ignorarle e ad addossarmi la colpa dei malumori in famiglia. Poi però le crepe
cominciarono ad allargarsi, fino a quando tutto il sistema crollò su se stesso. Mio padre si
accorse troppo tardi che aveva tirato la corda oltre misura e che mia madre aveva già deciso da
tempo di separarsi da lui. Mio padre continuava a vivere la sua vita grandiosa da re di periferia,
girava per i bar e acquistava di continuo auto imponenti: Mercedes o Cadillac, con le quali
voleva impressionare i suoi “amici”. I soldi necessari, li chiedeva in prestito. Persino quando mi
dava i soldi della mia paghetta, subito dopo me li richiedeva in prestito, per comprarsi le
sigarette o per andare a bere un caffè. Accese così tanti crediti sulla casa di mia nonna che fu
pignorata. A metà degli anni novanta, aveva accumulato talmente tanti debiti da mettere in
pericolo l’esistenza della famiglia. Mia madre convertì il debito e rilevò la bottega in
Pröbstelgasse e il negozio nel complesso residenziale Marco Polo. Ma la spaccatura tra loro
andava oltre la questione finanziaria. A un certo punto mia madre ne ebbe abbastanza di
quell’uomo che si divertiva volentieri, ma che non sapeva cosa fosse l’affidabilità.
Con la graduale separazione dei miei genitori, la mia vita cambiò completamente. Invece di
prendersi cura di me e di proteggermi, mi trascurarono. I miei genitori litigavano violentemente
per ore. A turno si chiudevano in camera, mentre l’altro continuava a infuriare nel soggiorno.
Quando, impaurita, provavo a chiedere cosa stesse succedendo, mi portavano in camera mia,
chiudevano la porta e continuavano a litigare. Mi sentivo prigioniera e non sapevo più cosa
pensare. Premendo il cuscino sulle orecchie, cercavo di non sentire i loro chiassosi diverbi e di
proiettarmi nella mia precedente, spensierata infanzia. Ci riuscivo solo raramente. Non capivo
perché mio padre, che di solito era così raggiante, avesse un aspetto irresoluto e smarrito e non
tirasse più fuori dalle maniche delle piccole sorprese per farmi contenta. La sua inesauribile
scorta di gelatine sembrava essere improvvisamente finita.
Una volta, dopo un violento litigio, mia madre se ne andò addirittura di casa e scomparve per
giorni. Voleva mostrare a mio padre come ci si sente a non avere notizie del proprio compagno;
per lui, infatti, passare una o due notti fuori casa non era una cosa straordinaria.
Io però ero troppo piccola per intuire cosa ci fosse dietro ed ebbi paura. A quell’età il senso del
tempo è completamente diverso da quello di un adulto, l’assenza di mia madre mi sembrò
infinita. Non sapevo se sarebbe mai ritornata. Si radicò in me un senso di abbandono, e di
rifiuto. E cominciò una fase della mia infanzia in cui non riuscivo più a trovare il mio posto e non
mi sentivo più amata. Poco a poco, da quella piccola persona sicura di sé che ero stata, mi
trasformai in una bambina insicura che smise di aver fiducia nel mondo che la circondava.
In questo difficile periodo cominciai ad andare alla scuola materna. Fu il momento nel quale il
condizionamento esterno da parte degli adulti, che da piccola facevo fatica ad accettare,
raggiunse il suo apice.
Mia madre mi aveva iscritto a una scuola materna privata che non era molto lontana dal nostro
complesso residenziale. Fin dall’inizio mi sentii incompresa e talmente poco accettata che
cominciai a odiare la scuola. Già il primo giorno, feci un’esperienza che gettò le basi per questo
sentimento. Ero fuori, in giardino, con gli altri bambini, quando vidi un tulipano che mi attrasse
molto. Mi chinai su di esso e con cautela lo tirai verso di me, per odorarlo. La maestra deve aver
creduto che volessi coglierlo. Con un gesto severo mi colpì sul dorso della mano. Io urlai
indignata: “Lo dico a mia madre!” Ma la sera dovetti costatare che mia madre non mi difendeva
più, dato che aveva delegato questa competenza a qualcun altro. Quando le raccontai
l’accaduto – convinta che avrebbe preso le mie difese, solidale con me, e che il giorno dopo
avrebbe rimproverato la maestra –, mia madre disse soltanto che alla scuola materna era così e
che si dovevano rispettare le regole. E soprattutto: “Io non mi immischio affatto in questa
faccenda, perché non c’ero.” Questa frase divenne la sua risposta standard, quando avevo dei
problemi con le maestre. E quando le raccontavo le angherie che subivo dagli altri bambini,
diceva lapidaria: “Allora devi difenderti.” Dovevo imparare a superare le difficoltà da sola. Il
periodo della scuola materna fu per me un tempo di angustie. Odiavo le regole rigide.
Detestavo dover riposare insieme agli altri bambini nel dormitorio, dopo il pranzo, sebbene non
fossi stanca. Le maestre svolgevano il proprio lavoro seguendo la solita routine, ma senza
interessarsi particolarmente a noi. Mentre ci sorvegliavano con la coda dell’occhio, leggevano
romanzi e riviste, spettegolavano e si laccavano le unghie.
Feci amicizia molto lentamente con gli altri bambini, in mezzo ai miei coetanei mi sentivo più
sola di prima.
“I fattori di rischio soprattutto nel caso dell’enuresi secondaria sono da ricollegarsi a un
sentimento di perdita inteso nel senso ampio del termine, come, per esempio quello sorto in
seguito a separazione, divorzio, decesso, nascita di un fratello, povertà estrema, delinquenza
dei genitori, deprivazione, disinteresse, scarso sostegno durante gli stadi della crescita”. Il
dizionario enciclopedico definisce così le cause di un problema con il quale lottai in quel
periodo. Da bambina precoce, che si era liberata presto dei pannolini, divenni una bambina che
bagnava il letto. L’enuresi notturna diventò uno stigma che mi condizionò la vita. Le macchie
umide notturne nel letto furono all’origine di incessanti rimproveri e derisioni.
Quando bagnai il letto per l’ennesima volta, mia madre reagì come era normale allora. Lo
ritenne un comportamento intenzionale, che si poteva correggere con la forza e le punizioni. Mi
dette uno sculaccione e mi chiese arrabbiata: “Perché mi fai questo?” S’infuriò, si disperò, non
sapeva più cosa fare. E io continuavo a farla a letto. Mia madre si procurò delle traverse di
caucciù e coprì il materasso. Fu un’esperienza umiliante. Dalle conversazioni delle amiche di
mia nonna sapevo che incerate e biancheria speciale erano accessori utili alle persone vecchie
e malate. Io invece volevo essere trattata come una bambina grande.
E tuttavia l’enuresi non cessava. Mia madre mi svegliava di notte per mettermi sulla tazza del
gabinetto. Se, nonostante ciò, bagnavo il letto, mi cambiava imprecando le lenzuola e il
pigiama. Qualche volta, la mattina, mi svegliavo asciutta e orgogliosa, ma mia madre frenava
subito la mia gioia: “È solo perché non ti ricordi che questa notte ho dovuto cambiarti di nuovo,”
sbraitava. “Guarda il pigiama che indossi.” Erano rimproveri ai quali io non sapevo cosa
ribattere. Mia madre mi puniva con disprezzo e sarcasmo. Quando espressi il desiderio di avere
della biancheria di Barbie, mi canzonò: tanto l’avrei bagnata comunque. Per la vergogna mi
sentii quasi sprofondare.
Infine cominciò a controllare la quantità di liquidi che assumevo al giorno. Io ero sempre stata
una bambina assetata e bevevo molto. Ma adesso il mio comportamento in tal senso fu
regolamentato con precisione. Durante la giornata mi davano pochi liquidi, la sera più niente.
Più mi proibivano di bere acqua e succhi di frutta, più la mia sete cresceva, fino a quando non
pensai più a nient’altro. Mia madre controllava e commentava ogni mio sorso e ogni volta che
andavo al gabinetto, ma solo quando eravamo sole. Cosa avrebbe pensato, altrimenti, la gente.
Alla scuola materna, l’enuresi acquisì una nuova dimensione. Ora me la facevo addosso anche
di giorno. I bambini mi prendevano in giro e le maestre li incitavano e, una volta su due, mi
facevano fare una figuraccia davanti a tutto il gruppo. Probabilmente pensavano che la
derisione mi avrebbe indotto a controllare meglio la vescica. Invece, la situazione peggiorava
con ogni nuova umiliazione. Andare in bagno e ottenere un bicchiere d’acqua divennero una
tortura. Mi ci costringevano quando non volevo e me li negavano quando ne avevo bisogno
urgente. Alla scuola materna, infatti, dovevamo chiedere il permesso quando volevamo andare
in bagno. Nel mio caso, questa domanda veniva commentata ogni volta: “Ci sei appena stata.
Perché devi tornarci di nuovo?” Invece mi obbligavano ad andare in bagno prima delle gite, dei
pasti, del riposo pomeridiano, e mi sorvegliavano. Una volta le maestre mi sospettarono di
averla fatta addosso e mi obbligarono addirittura a mostrare la mia biancheria davanti a tutti i
bambini.
Quando uscivamo, mia madre portava sempre un sacchetto con la biancheria di ricambio. Quel
fagotto di vestiti non faceva che accrescere la mia vergogna e la mia insicurezza. Gli adulti
davano per certo che mi sarei bagnata. E più lo davano per scontato e mi rimproveravano e mi
prendevano in giro per questo, più avevano ragione. Era un circolo vizioso, dal quale non riuscii
a uscire neanche durante la scuola elementare. Rimasi una bambina derisa, umiliata e
perennemente assetata che bagnava il letto.
Dopo due anni di litigi e alcuni tentativi di riconciliazione, mio padre se ne andò definitivamente
da casa. Avevo allora cinque anni e da quella bambina gioiosa che ero stata, mi ero trasformata
in una creatura insicura e chiusa, alla quale non piaceva più la sua vita e protestava in diversi
modi. Qualche volta mi isolavo, altre gridavo, vomitavo e mi venivano crisi di pianto per il dolore
di non essere compresa. Per settimane fui tormentata da una gastrite.
Mia madre, che pure era molto provata dalla separazione, mi trasmise il suo modo di accettare
la situazione. Pretese da me che stringessi i denti, proprio come faceva lei, che ingoiava il
dolore e l’insicurezza e andava avanti coraggiosamente. Accettava male che io non ne fossi in
grado, poiché ero solo una bambina. Quando, a suo parere, diventai troppo emotiva, allora
cominciò addirittura a reagire in modo aggressivo alle mie crisi. Mi rimproverava di
autocompatirmi e, a turno, mi allettava con delle ricompense oppure minacciava di punirmi se
non l’avessi fatta finita.
La mia rabbia per una situazione che non capivo, si rivolse poco a poco contro la persona che
era rimasta con me dopo l’allontanamento di mio padre: mia madre. Più di una volta mi
arrabbiai con lei a tal punto che decisi di andarmene. Misi un paio di cose dentro il sacchetto
che usavo per la ginnastica e la salutai. Ma mia madre sapeva che non sarei arrivata oltre la
porta e commentò il mio comportamento facendomi l’occhiolino e dicendo soltanto: “Okay,
stammi bene.” Un’altra volta, tolsi dalla mia stanza tutte le bambole che mi aveva regalato e le
allineai nel corridoio. Che si accorgesse pure che ero decisa a chiuderla fuori dal mio piccolo
regno, vale a dire la mia stanza. Tuttavia, naturalmente, queste manovre contro mia madre non
risolvevano il mio vero problema. Con la separazione dei miei genitori avevo perduto i punti fissi
del mio mondo e non potevo più fare affidamento sulle persone che, fino a quel momento,
c’erano sempre state per me.
La mancanza di rispetto di cui soffrivo, distrusse lentamente la mia autostima. Quando si pensa
alla violenza perpetrata sui bambini, ci si figura sistematicamente delle percosse che hanno
come risultato delle ferite corporali. Io non esperimentai niente di tutto questo nella mia infanzia.
Si trattò piuttosto di un misto di oppressione verbale e di occasionali schiaffi “vecchia maniera”,
che mi dimostravano che, essendo una bambina, ero quella più debole. Non erano la rabbia e il
freddo calcolo che spingevano mia madre a comportarsi così, ma piuttosto un’aggressione che
si accendeva, erompeva da lei come una fiammata e si spengeva altrettanto velocemente. Mi
schiaffeggiava quando era sotto pressione o quando avevo fatto qualcosa di sbagliato. Odiava
quando piagnucolavo, facevo domande o mettevo in discussione una delle sue spiegazioni:
anche questo mi valeva uno schiaffo.
In quegli anni e in quella zona non era una cosa insolita trattare così i bambini: al contrario, io
avevo una vita molto più “facile” di alcuni bambini del vicinato. Mi succedeva di continuo di
osservare le madri in cortile che urlavano contro i loro figli, li spingevano a terra e li picchiavano.
Questo mia madre non l’avrebbe mai fatto e il suo modo di schiaffeggiarmi occasionalmente
non incontrò mai l’incomprensione della gente. Persino quando mi schiaffeggiava in pubblico,
nessuno si immischiava. Per lo più, però, mia madre era troppo signora per esporsi anche solo
al rischio che qualcuno la osservasse durante un litigio. La violenza palese era una cosa per le
altre donne del nostro complesso residenziale. Mia madre, al contrario, mi esortava ad
asciugarmi le lacrime o a raffreddarmi la guancia prima di uscire da casa o scendere dalla
macchina.
Allo stesso tempo, cercava di alleggerirsi la coscienza facendomi dei regali. Lei e mio padre
facevano a gara, nel senso vero e proprio della parola, a chi mi comprava i vestiti più belli o, a
chi mi portava a fare le gite durante il fine settimana. Ma io non volevo dei regali. In quella fase
della mia vita avevo bisogno unicamente di qualcuno che mi desse un appoggio incondizionato
e amore. I miei genitori non erano in grado di farlo.
Un episodio accaduto nel periodo delle scuole elementari mostra in che misura, già allora,
avessi interiorizzato che non dovevo aspettarmi nessun aiuto dagli adulti. Avevo circa otto anni
e con la mia classe ero andata per una settimana in una colonia nella Stiria. Non ero una
bambina sportiva e non osavo fare i giochi scalmanati con i quali gli altri bambini passavano il
tempo. Ma al parco giochi volli fare almeno un tentativo.
Quando caddi dalla struttura sulla quale mi stavo arrampicando e sbattei a terra, sentii un
dolore violento attraversarmi il braccio. Feci per alzarmi, ma il braccio cedette e io caddi
all’indietro. Nelle mie orecchie, le risate allegre dei bambini che intorno a me scorrazzavano nel
parco giochi, risuonavano attutite. Avrei voluto gridare, le lacrime mi scorrevano sulle guance.
Ma non emisi un suono. Solo quando una compagna di scuola venne da me, la pregai
sottovoce, di chiamare la maestra. La bambina andò da lei. La maestra la rimandò da me a
riferirmi che se volevo qualcosa dovevo andare di persona.
Cercai di rialzarmi, ma non appena mi muovevo, sentivo di nuovo il dolore nel braccio.
Rimasi lì distesa, inerme. Solo un po’ di tempo dopo, la maestra di un’altra classe mi aiutò ad
alzarmi. Strinsi i denti, non piansi e non mi lamentai. Non volevo recare disturbo a nessuno. Più
tardi anche la mia maestra si accorse che c’era qualcosa che non andava. Suppose che,
cadendo, mi fossi provocata una forte contusione e mi permise di passare il pomeriggio nella
stanza della televisione.
Durante la notte rimasi sdraiata nel mio letto, nello stanzone dove dormivamo tutti insieme, e
per il dolore riuscivo a malapena a respirare. E tuttavia non chiesi aiuto a nessuno. Solo il
giorno dopo, sul tardi –– eravamo al giardino zoologico di Herberstein –, la mia maestra si
accorse che mi ero fatta male seriamente e mi portò dal dottore. Che mi mandò subito
all’ospedale di Graz. Il braccio era rotto.
Mia madre mi venne a prendere in clinica insieme al suo compagno. Il nuovo uomo nella sua
vita era un buon conoscente: il mio padrino. Non mi piaceva. Il viaggio fino a Vienna fu una vera
tortura. Per tre ore, il compagno di mia madre inveì perché a causa della mia goffaggine
avevano dovuto fare un viaggio così lungo. Mia madre cercò, sì, di alleggerire l’atmosfera, ma
non le riuscì e i rimproveri non ebbero fine. Io sedevo sul sedile posteriore e piangevo piano, tra
me e me. Mi vergognavo di essere caduta, e dei fastidi che arrecavo a tutti. Non disturbare. Non
fare tragedie. Non essere isterica. Le bambine grandi non piangono. Questi principi della mia
infanzia, ascoltati mille volte, mi avevano fatto sopportare il dolore del braccio fratturato per un
giorno e mezzo. Adesso, durante il viaggio in autostrada, tra le tirate del compagno di mia
madre, una voce interna li ripeteva nella mia testa.
Allora la mia maestra subì un provvedimento disciplinare perché non mi aveva portato subito
all’ospedale. Era vero, naturalmente, che era venuta meno ai suoi doveri di sorveglianza.
Tuttavia, io stessa avevo in gran parte contribuito a quella negligenza. Già allora la fiducia nel
mio modo di percepire le cose era così scarsa che nemmeno con un braccio fratturato avevo
pensato di poter chiedere aiuto.
Nel frattempo vedevo mio padre soltanto durante i fine settimana o quando, ogni tanto, mi
portava con lui nei suoi giri di consegne. Anche lui, dopo la separazione da mia madre, si era
innamorato di nuovo. La sua compagna era gentile, ma si teneva a distanza. Una volta mi disse
pensierosa: “Adesso so perché sei così difficile. I tuoi genitori non ti vogliono bene.” Io protestai
con forza, ma quella frase rimase impigliata nella mia anima ferita di bambina. Aveva forse
ragione? In fondo era una persona adulta e gli adulti avevano sempre ragione.
Per giorni, quel pensiero non mi abbandonò.
Quando avevo nove anni, cominciai a compensare lamia frustrazione con il cibo. Non ero mai
stata una bambina magra, neanche in precedenza, ed ero cresciuta in una famiglia dove il cibo
aveva un ruolo importante. Mia madre era quel tipo di donna che poteva mangiare quanto
voleva senza ingrassare di un grammo. Forse dipendeva da un’iperfunzione della tiroide oppure
dal suo carattere attivo: mangiava fette di pane con lo strutto, torte, arrosti e panini al prosciutto
senza ingrassare e non si stancava di sottolinearlo anche davanti agli altri: “Posso mangiare ciò
che voglio,” diceva con voce flautata, con una fetta di pane imburrato in mano. Da lei presi la
smodatezza nel mangiare, ma non la capacità di bruciare poi, da sola, le calorie.
Mio padre, invece, era così grasso che già da bambina provavo imbarazzo a farmi vedere
insieme a lui. La sua pancia era enorme e tesa come quella di una donna all’ottavo mese di
gravidanza. Quando stava sdraiato sul divano, il ventre si ergeva verso l’alto come una
montagna, e da piccola spesso ci bussavo sopra e domandavo: “Quando arriva il bebè?” Mio
padre ci rideva su, bonariamente. Sul suo piatto si accatastavano montagne di carne
accompagnata sempre da svariati canederli che nuotavano in un vero e proprio lago di salsa.
Divorava porzioni enormi e continuava a mangiare anche quando non aveva più fame da un
pezzo.
Quando, nei weekend, facevamo delle gite in famiglia – prima insieme a mia madre, poi con la
sua nuova compagna – tutto girava intorno al cibo. Mentre le altre famiglie facevano delle
escursioni in montagna, gite in bicicletta o andavano a visitare i musei, le nostre mete erano
culinarie. Andavamo in una nuova osteria, facevamo delle gite nelle trattorie di campagna, in un
castello, non per una visita storica guidata bensì per partecipare a un banchetto medievale:
mucchi di carne e canederli che ci spingevamo in bocca con le mani, e boccali pieni di birra:
questo era il tipo di gita che rispecchiava i gusti di mio padre.
Anche nei due negozi a Süssenbrunn e nel complesso residenziale Marco Polo, che mia madre
aveva rilevato dopo la separazione da mio padre, ero continuamente circondata dal cibo.
Quando mia madre mi veniva a prendere al doposcuola e mi portava con sé al negozio,
combattevo la noia con le ghiottonerie: un gelato, delle gelatine, un pezzo di cioccolata, un
cetriolo sottaceto. Mia madre per lo più cedeva alle mie richieste: era troppo occupata per fare
attenzione a tutto quello che ingurgitavo.
In quel periodo, però, cominciai a mangiare sistematicamente fino alla nausea. Mangiavo un
pacchetto intero di Bounty, ci bevevo una grossa bottiglia di Coca-cola fino a quando l’addome
si tendeva tanto da scoppiare. Non appena ero di nuovo in grado di mettere qualcosa in bocca,
ricominciavo a mangiare. Negli ultimi anni prima del mio rapimento ingrassai talmente che da
paffutella quale ero stata, diventai una bambina davvero grassa. Facevo sempre meno attività
sportiva, gli altri bambini mi canzonavano sempre di più e io compensavo la solitudine
continuando a mangiare. Quando festeggiai il mio decimo compleanno, pesavo quarantacinque
chili.
Mia madre ci metteva del suo per aumentare la mia frustrazione. “Mi piaci lo stesso, l’aspetto
non importa.” Oppure: “Quando una bambina è brutta, basta infilarle addosso un bel vestito.”
Quando mi mostravo ferita, mia madre rideva e diceva: “Non mi riferisco a te, tesoro. Non
essere così sensibile.” Sensibile: questa era la cosa peggiore, non si doveva esserlo. Ancora
oggi mi sorprendo del senso positivo con cui è usata la parola “sensibile”. Durante la mia
infanzia, era un insulto rivolto alle persone che sono troppo deboli per stare al mondo. Allora
avrei desiderato che mi fosse consentito essere più debole. In seguito, la durezza che mi era
stata imposta soprattutto da mia madre, mi ha probabilmente salvato la vita.
Circondata da dolciumi a non finire, trascorrevo ore da sola, davanti al televisore, oppure nella
mia stanza, con un libro in mano. Volevo fuggire da quella realtà, che non mi riservava
nient’altro che umiliazioni, in un altro mondo. A casa prendevamo tutti i canali televisivi e
nessuno faceva attenzione a cosa guardavo. Cambiavo i canali a caso, guardavo le
trasmissioni per bambini, i telegiornali e i film gialli che mi facevano paura sebbene ne
assorbissi i contenuti come una spugna. Nell’estate del 1997, i media si occuparono soprattutto
di un tema: nel Salzkammergut fu sgominata una banda di pedofili. Con orrore sentii in
televisione che sette uomini adulti, servendosi di piccole somme di denaro, avevano attirato un
numero imprecisato di ragazzini in una stanza arredata allo scopo, per abusare di loro e girare
dei film che vendevano poi in tutto il mondo. Il 24 gennaio 1998, un nuovo caso scosse l’Alta
Austria. Tramite una casella postale, erano stati distribuiti in tutto il mondo dei film che
mostravano gli abusi compiuti su bambine tra i cinque e i sette anni. In uno di questi film si
vedeva uno dei criminali attirare una bambina di sette anni, che abitava nel vicinato, nella sua
mansarda e lì abusarne violentemente.
Ancora di più mi colpirono i servizi giornalistici sugli omicidi di bambine che in quel periodo, in
Germania, avvenivano in serie. Per quel che posso ricordare, negli anni delle scuole elementari,
non passava quasi mai un mese senza che si avesse notizia di bambine rapite, violentate o
uccise. I telegiornali non tralasciavano quasi nessun dettaglio delle drammatiche ricerche e
delle indagini della polizia. E io ascoltavo di continuo i racconti sconvolgenti dei parenti: di come
le bambine erano sparite mentre giocavano all’aperto, oppure di come non erano più tornate da
scuola. Di come i genitori le avessero cercate disperati, fino a quando avevano avuto la terribile
certezza che non avrebbero più rivisto le loro bambine vive.
I casi di cui allora parlarono i media, erano così attuali che ne parlammo anche nella nostra
scuola.
Le maestre ci spiegarono come fare per proteggerci dalle violenze. Vedemmo dei film nei quali
le bambine subivano molestie dai fratelli maggiori o dove dei ragazzini imparavano a dire “No!”
al loro padre violento. E gli insegnanti ci ripetevano gli ammonimenti che anche a casa i genitori
facevano continuamente ai loro bambini. “Non andate mai con un estraneo! Non salite su
un’auto sconosciuta. Non accettate dolciumi! E cambiate lato della strada, se notate qualcosa di
strano.”
Se guardo oggi la lista dei casi che rientrano nel periodo in cui frequentavo le scuole
elementari, mi sconvolgo come allora:
Yvonne (dodici anni) fu uccisa a luglio del 1995 sul lago di Pinnow (in Brandeburgo) perché si
era opposta alla violenza sessuale di un uomo.
Annette (quindici anni) di Mardorf sul lago di Steinhude, nel 1995, dopo essere stata violentata
e uccisa, fu ritrovata nuda in un campo di mais. L’assassino non fu catturato.
Maria (sette anni) fu rapita a novembre del 1995 a Haldensleben (nella Sassonia-Anhalt),
violentata e gettata in uno stagno.
Elmedina (sei anni) fu rapita nel febbraio del 1996 a Siegen, violentata e soffocata.
Claudia (undici anni) fu rapita a maggio del 1996 a Grevenbroich, violentata e data alle fiamme.
Ulrike (tredici anni), l’11 giugno del 1996 non fece ritorno da una passeggiata con il calesse. Il
suo cadavere fu ritrovato due anni dopo.
Ramona (dieci anni) sparì il 15 agosto 1996 a Jena, in un centro commerciale. Il suo corpo fu
ritrovato a gennaio del 1997 nei pressi di Eisenach.
Natalie (sette anni) fu rapita mentre stava andando a scuola, violentata e uccisa il 20 settembre
1996 a Epfach in Alta Baviera da un uomo di ventinove anni.
Kim (dieci anni) di Varel in Frisia fu rapita, violentata e uccisa nel gennaio del 1997.
Anne-Katrin (otto anni) fu ritrovata uccisa il 9 giugno 1997 nelle vicinanze della sua casa, a
Seebeck, in Brandeburgo.
Loren (nove anni) fu violentata e assassinata nel luglio del 1997, nella cantina della sua casa a
Prenzlau, da un uomo di vent’anni.
Jennifer (undici anni), il 13 gennaio 1998, a Versmold nei pressi di Gütersloh, fu attirata in
un’auto da suo zio che la violentò e la strangolò.
Carla (dodici anni) fu aggredita il 12 gennaio 1998 a Wilhermsdorf presso Fürth mentre stava
andando a scuola, fu violentata e gettata priva di sensi in un laghetto. Morì dopo cinque giorni di
coma.
I casi di Jennifer e Carla mi commossero in modo particolare. Dopo l’arresto, lo zio di Jennifer
confessò che aveva avuto intenzione di abusare della nipote nella sua auto. Quando la
bambina si era difesa, l’aveva strangolata e aveva occultato il corpo nel bosco. Quei resoconti
mi toccavano da vicino. Gli psicologi intervistati allora dalla televisione consigliavano di non
opporsi alla violenza, per non mettere a repentaglio la propria vita. Ancora più spaventosi
furono i servizi televisivi sull’assassinio di Carla. Vedo ancora oggi davanti a me i reporter con i
microfoni davanti allo stagno di Wilhermsdorf, che raccontavano come, in base alla quantità di
terra smossa, fosse possibile costatare quanto la bambina si era difesa. La messa funebre fu
trasmessa in televisione. Io sedevo con gli occhi spalancati dal terrore davanti al teleschermo.
Tutte quelle bambine avevano la mia età. Solo una cosa mi tranquillizzava quando vedevo le
loro foto ai telegiornali: io non ero il tipo di bambina bionda e gracile che i colpevoli sembravano
preferire. Non avevo idea di quanto mi sbagliassi.
succedere qualcosa!” Scosse la testa.
Mio padre e io avevamo trascorso l’ultimo fine settimana di febbraio dell’anno 1998 in Ungheria,
dove, in un piccolo villaggio non lontano dalla frontiera, aveva comprato una seconda casa. Era
una vera e propria catapecchia, con l’intonaco che si sgretolava sulle pareti umide.Nel corso
degli anni mio padre l’aveva ristrutturata e arredata con dei bei mobili antichi così che, nel
frattempo, era diventata quasi accogliente. E tuttavia non amavo molto andare con lui laggiù. In
Ungheria mio padre aveva tanti amici che vedeva spesso e con i quali, grazie al cambio
conveniente, festeggiava sempre un po’ troppo. Nelle osterie e nei ristoranti dove andavamo la
sera, io ero l’unica bambina della compagnia, sedevo silenziosa in disparte e mi annoiavo.
Come le altre volte, anche quel fine settimana, ero andata con lui di malavoglia. Il tempo
passava lentamente e io mi arrabbiai perché ero ancora troppo piccola e non abbastanza
indipendente per disporne a modo mio. Anche quando la domenica andammo al vicino bagno
termale, il mio entusiasmo fu contenuto. Mi aggiravo di malumore per le terme, quando una
conoscente mi rivolse la parola: “Ti va di bere una bibita insieme a me?” Annuii e la seguii al
bar. Era un’attrice e viveva a Vienna. La ammiravo perché emanava una grande tranquillità e
sembrava così sicura di sé. Inoltre faceva proprio il lavoro che in segreto sognavo di fare
anch’io. Dopo un po’, presi fiato e dissi: “Sai, anche a me piacerebbe diventare un’attrice. Credi
che potrei riuscirci?”
Mi sorrise raggiante. “Certo che puoi riuscirci, Natascha! Diventerai una magnifica attrice, se lo
vuoi veramente!”
Il mio cuore fece un balzo. Ero certa che non mi avrebbe preso sul serio o che avrebbe riso di
me, come mi succedeva spesso. “Quando verrà il momento, ti aiuterò,” mi promise e mi cinse le
spalle con il braccio. Mentre tornavo in piscina, mi misi a saltellare allegramente, canticchiando
tra me: “Posso fare ogni cosa, se solo lo voglio e se credo in me stessa.” Mi sentivo così
leggera e spensierata come non mi era più successo da tanto tempo.
Tuttavia la mia euforia durò poco. Era già pomeriggio inoltrato, ma mio padre non manifestava
l’intenzione di andarsene dal bagno termale. E anche quando finalmente ritornammo a casa,
mio padre non si affrettò. Al contrario, volle riposarsi ancora un poco. Io guardavo
nervosamente l’orologio. Avevamo promesso a mia madre di essere a casa alle sette; il giorno
dopo, infatti, dovevo andare a scuola. Sapevo che se non fossimo arrivati puntuali a Vienna, ci
sarebbe stato un violento litigio. Mentre mio padre russava sul divano, il tempo passava
inesorabile. Quando finalmente mio padre si svegliò e ci mettemmo sulla strada del ritorno, era
già buio. Io me ne stavo seduta imbronciata sul sedile posteriore e non dicevo una parola. Non
saremmo arrivati in tempo, mia madre si sarebbe arrabbiata e tutte le cose belle che erano
accadute quel pomeriggio, sarebbero svanite di colpo. Come sempre mi sarei ritrovata tra due
fronti. Gli adulti rovinavano sempre tutto. Quando mio padre mi comprò della cioccolata a un
distributore di benzina, la trangugiai tutta in una volta.
Arrivammo al complesso residenziale del Rennbahn alle otto e mezzo, con due ore di ritardo.
“Scendi qui, corri a casa,” disse mio padre e mi dette un bacio. “Ti voglio bene,” mormorai come
sempre, quando lo salutavo. Poi attraversai il cortile buio fino alla nostra scala e aprii la porta. In
corridoio, accanto al telefono, trovai un biglietto di mia madre: “Sono al cinema, torno più tardi.”
Appoggiai la mia borsa per terra ed esitai un momento. Poi scrissi a mia madre un biglietto nel
quale le dicevo che l’avrei aspettata dalla nostra vicina, al piano di sotto. Quando, dopo un po’
di tempo, mi venne a prendere, era fuori di sé: “Dov’è tuo padre?” mi gridò.
“Non è salito con me, mi ha fatto scendere davanti all’entrata,” dissi piano. Non potevo farci
niente se eravamo tornati tardi e se mio padre non mi aveva accompagnato fino alla porta di
casa. E tuttavia mi sentivo colpevole.
“Oh santo cielo! Siete in ritardo di ore, io sto a casa e mi preoccupo. Come ha potuto
permettere che attraversassi da sola il cortile? In piena notte? Poteva succederti qualcosa! Ma
lascia che ti dica una cosa: tuo padre, tu non lo vedrai più. Sono così stufa e questa situazione
non la tollero più!”
Al momento della mia nascita, il 17 febbraio 1988, mia madre aveva trentotto anni e due figlie
già adulte. La mia prima sorellastra era nata quando mia madre aveva appena diciotto anni, la
seconda nacque poco più di un anno dopo. Era la fine degli anni sessanta. Mia madre, con le
due bambine piccole, era oberata di lavoro e poteva contare solo sulle sue forze: aveva
divorziato dal padre delle due bambine poco dopo la nascita della mia seconda sorellastra. Non
era stato facile per lei far fronte al mantenimento della sua piccola famiglia. Aveva dovuto
lottare per molte cose, aveva agito nei confronti di se stessa in modo pragmatico e con una
certa durezza e aveva fatto di tutto per provvedere alle figlie. Nella sua vita non c’era stato
posto per sentimentalismi e tentennamenti, per gli svaghi e le frivolezze. Adesso che aveva
trentotto anni e le bambine erano adulte, per la prima volta dopo tanto tempo era libera dai
doveri e dalle preoccupazioni dell’educazione dei figli. Proprio in quel momento mi annunciai.
Mia madre non si aspettava più una gravidanza.
La famiglia nella quale nacqui, era in realtà già sul punto di sciogliersi. Io mandai tutto all’aria: le
cose da bambini dovettero essere ritirate fuori e i ritmi di una giornata adattati a quelli di un
lattante. Anche se fui accolta con gioia e viziata da tutti come una piccola principessa, durante
l’infanzia mi sono sentita talvolta come l’ultima ruota del carro. All’inizio ho dovuto lottare per
ottenere il mio posto in un mondo in cui i ruoli erano già stati assegnati.
Quando nacqui, i miei genitori stavano insieme da tre anni. Si erano conosciuti tramite una
cliente di mia madre. Mia madre era una sarta qualificata e manteneva se stessa e le sue due
figlie cucendo e modificando i vestiti per le signore dei dintorni. Una delle sue clienti era una
signora di Süssenbrunn, una località nei pressi di Vienna, che insieme a suo marito e a suo
figlio gestiva un panificio e un piccolo negozio di alimentari. Ludwig Koch junior l’accompagnava
talvolta alla prova degli abiti e si tratteneva sempre più a lungo del necessario per chiacchierare
con mia madre. Lei si era subito innamorata del giovane, prestante panettiere che la faceva
ridere con le sue storie. Dopo qualche tempo, Ludwig Koch si fermò sempre più spesso da mia
madre e dalle due bambine, nella grande casa popolare nella periferia a nord di Vienna. Lì la
città si sfrangia in direzione della Piana della Morava e sembra che non riesca a decidere cosa
vuole diventare. È una zona costruita senza un piano, priva di un centro e di personalità, nella
quale tutto sembra possibile e dove regna il caso. Zone industriali e fabbriche sorgono tra
campi improduttivi, sui quali i cani del complesso residenziale scorrazzano in branco, tra l’erba
alta. Nel mezzo, i nuclei dei vecchi villaggi, lottano per conservare la loro identità, che si sfalda
lentamente, proprio come i colori delle casette in stile Biedermeier. Relitti di un tempo passato
che sono stati sostituiti da innumerevoli costruzioni popolari, frutto di un’utopica edilizia sociale
che aveva collocato i nuovi palazzi sui prati verdi con grande clamore, abbandonandoli poi a se
stessi. Io sono cresciuta in uno dei più grandi complessi residenziali di questo tipo.
Il conglomerato di abitazioni popolari sul Rennbahnnweg era stato progettato e realizzato negli
anni settanta. Era una visione urbanistica che si era trasformata in pietra e si prefiggeva di
creare un nuovo ambiente per l’uomo: famiglie del futuro felici e operose, sistemate in moderne
città satellite dalle linee chiare, fornite di centri commerciali e buoni collegamenti con Vienna.
A un primo sguardo l’esperimento sembrava riuscito. Il complesso consiste di
duemilaquattrocento appartamenti, dove abitano più di settemila persone. I cortili tra i blocchi
abitativi sono stati calcolati con generosità e sono ombreggiati da alti alberi; gli spazi destinati ai
giochi si alternano ad aree di cemento e grandi superfici a prato. L’osservatore riesce a
immaginare con chiarezza il plastico con le miniature di bambini che giocano e di madri con le
carrozzine, che gli urbanisti realizzarono con la convinzione di aver creato uno spazio adatto a
un tipo di convivenza sociale del tutto nuova. In confronto alle case in affitto in città, muffite e
inferiori allo standard, quegli appartamenti accatastati uno sopra l’altro in blocchi alti quindici
piani, erano ariosi e ben suddivisi, provvisti di balconi e forniti di bagni moderni.
Ma fin dall’inizio quel complesso residenziale era stato un ricettacolo di immigrati che
desideravano andare in città e che però non ci arrivavano veramente: operai provenienti dai
länder austriaci, dalla Bassa Austria, dal Burgenland e dalla Stiria. Poco a poco si aggiunsero
gli emigranti con i quali gli altri abitanti avevano quotidianamente piccole scaramucce per via
degli odori di cucina, dei bambini che giocavano e delle diverse opinioni sul volume che doveva
avere un suono. L’atmosfera nella zona divenne più aggressiva, il numero delle scritte
nazionaliste e xenofobe aumentò. Nel centro commerciale si trasferirono negozi a buon
mercato, sulle grandi piazze di fronte, già in pieno giorno, scorrazzavano ragazzi e disoccupati,
che affogavano la loro frustrazione nell’alcool.
Oggi il complesso residenziale è stato ristrutturato, i palazzi brillano di colori vivaci e la
metropolitana è stata finalmente completata. Ma quando io vi trascorsi la mia infanzia, il
“Rennbahnweg” era addirittura considerato come il classico esempio di un punto socialmente
critico. Era opinione diffusa che fosse pericoloso attraversare la zona di notte, ma anche di
giorno non era piacevole passare davanti ai gruppi di teppisti che ingannavano il tempo
bighellonando nei cortili e gridando allusioni dietro le donne. Mia madre attraversava i cortili e
saliva le scale sempre a passo svelto, con la mia mano stretta nella sua. Nonostante fosse una
donna molto risoluta e dalla risposta pronta, odiava le volgarità alle quali era esposta in
Rennbahnweg. Cercava di proteggermi come meglio poteva; mi spiegò perché non vedeva di
buon occhio che giocassi nel cortile e perché credeva che i vicini fossero volgari. Per me, che
ero una bambina, questo atteggiamento non era naturalmente condivisibile a un primo sguardo,
ma per lo più seguivo le direttive di mia madre.
Nonostante ciò, ricordo ancora con chiarezza che, da piccola, mi riproponevo in continuazione
di scendere in cortile a giocare. Mi preparavo per ore, riflettevo su cosa avrei detto agli altri
bambini, mi vestivo e mi cambiavo di nuovo. Sceglievo i giocattoli per la sabbiera e li rimettevo
via; pensavo a lungo a quale bambola avrei dovuto portare con me, per fare amicizia. Ma poi,
quando arrivavo davvero nel cortile, ci rimanevo soltanto pochi minuti: non riuscivo a superare
la sensazione di non appartenenza a quel posto. Avevo interiorizzato a tal punto
l’atteggiamento di rifiuto dei miei genitori che il mio stesso quartiere rimase per me un mondo
estraneo. Preferivo rifugiarmi nei miei sogni a occhi aperti, sdraiata sul mio letto, nella mia
camera. Quella stanza dipinta di rosa, con la moquette chiara e la tenda fantasia che aveva
cucito mia madre e che nessuno apriva neanche di giorno, mi avvolgeva e mi proteggeva. Qui
facevo grandi progetti e pensavo per ore a dove mi avrebbe condotto il mio cammino nella vita.
Lì, in quel complesso residenziale, questo lo sapevo, non volevo mettere radici.
Durante i primi mesi della mia vita fui al centro dell’attenzione della nostra famiglia. Le mie
sorelle si presero cura del nuovo bebè come se si esercitassero per il loro futuro. Una mi dava
da mangiare e mi cambiava i pannolini, l’altra mi portava in centro, avvolta in un telo portabebè
e passeggiava su e giù lungo le vie con i negozi, dove i passanti si fermavano ad ammirare il
mio ampio sorriso e i miei bei vestiti. Quando lo raccontavano a mia madre, lei era felice. Si
dedicava con passione al mio aspetto e fin da piccola mi agghindò con i vestiti più belli, che
cuciva per me la sera, fino a tardi. Sceglieva delle stoffe particolari, sfogliava le riviste di moda
cercando i cartamodelli più nuovi oppure mi comprava delle piccolezze nelle boutique. Ogni
cosa si intonava all’altra, persino le calzette. In un quartiere, nel quale molte donne si
trascinavano fino al supermercato con i bigodini in testa e la maggior parte degli uomini
indossava i pantaloni di nylon di una tuta da ginnastica, io ero vestita come una piccola
indossatrice. Questo dare un eccessivo risalto all’aspetto esteriore non era solo un modo per
distinguerci dall’ambiente in cui vivevamo; era anche la maniera di mia madre di dimostrarmi il
suo amore.
A causa della sua natura energica e risoluta, le riusciva difficile accettare i suoi sentimenti e
quelli degli altri. Non era il tipo di donna che prende continuamente in braccio il suo bambino e
lo sbaciucchia. Sia le lacrime, sia le esagerate manifestazioni di amore le davano sempre un po’
fastidio. Mia madre, che per via della precoce gravidanza era dovuta diventare adulta alla
svelta, nel corso del tempo si era formata una scorza dura. Lei stessa non si concedeva
nessuna “debolezza” e non la sopportava negli altri. Da bambina l’ho vista spesso superare un
raffreddore con la sola forza di volontà e la guardavo affascinata mentre prendeva le stoviglie
ancora calde fumanti dalla lavastoviglie senza esitare. “Un indiano non prova dolore” era il suo
credo: una certa durezza non nuoce e aiuta addirittura a stare al mondo.
Sotto questo aspetto mio padre era l’esatto contrario. Mi accoglieva a braccia aperte quando
desideravo accoccolarmi accanto a lui e si divertiva molto a giocare con me, quando era
sveglio. Nel periodo, infatti, in cui abitava ancora con noi, l’ho visto per lo più dormire. Mio padre
amava uscire la sera, e beveva volentieri e in abbondanza con i suoi amici. Era pertanto poco
adatto alla sua professione. Aveva rilevato il panificio di suo padre senza mai entusiasmarsi per
quel mestiere. Ma la sofferenza più grande era per lui doversi alzare presto. Fino a mezzanotte
andava in giro per i bar e quando la sveglia suonava alla due del mattino, era quasi impossibile
svegliarlo. Dopo aver consegnato il pane, rimaneva ore sdraiato a russare sul divano. Il ventre
enorme e rotondo, si alzava e si abbassava imponente davanti ai miei occhi affascinati di
bambina. Giocavo con quel grande uomo addormentato, gli mettevo accanto gli orsacchiotti, lo
adornavo con nastri e fiocchi, gli mettevo delle cuffiette e lo smalto sulle unghie. Quando il
pomeriggio si risvegliava, mi faceva volteggiare in aria e, come per magia, tirava fuori dalle
maniche delle piccole sorprese. Poi se ne andava di nuovo in giro per i bar e i caffè della città.
In quel periodo, il mio punto di riferimento più importante divenne mia nonna. Insieme a lei, che
gestiva con mio padre il panificio, mi sentivo a casa, al sicuro. Abitava solo a pochi minuti d’auto
da casa nostra e tuttavia in un altro mondo. Süssenbrunn è uno di quegli antichi villaggi alla
periferia nord di Vienna con un carattere rurale che la città, in costante avvicinamento, non era
riuscita a deteriorare. Le antiche villette con il giardino, dove venivano ancora coltivati gli
ortaggi, costeggiavano le tranquille vie laterali. La casa di mia nonna, dove al piano terra si
trovavano anche una piccola bottega di generi alimentari e il panificio, era ancora esattamente
come ai tempi della monarchia.
Mia nonna era originaria della Wachau, una zona pittoresca della valle del Danubio, dove, su
assolati pendii terrazzati, viene coltivata la vite. I suoi genitori erano viticoltori e, com’era
consuetudine a quei tempi, mia nonna, fin da piccola, aveva dovuto dare una mano alla fattoria.
Parlava piena di malinconia e nostalgia della sua giovinezza in quella regione che, negli anni
cinquanta, i film con Hans Moser avevano raffigurato come un luogo ameno e idilliaco E questo
nonostante la vita di mia nonna, in quella campagna pittoresca, fosse stata incentrata tutta sul
lavoro, lavoro, e ancora lavoro. Quando, sul traghetto che trasportava la gente da una sponda
all’altra del Danubio, conobbe un panettiere di Spitz, colse l’occasione per fuggire da quella vita
che sembrava già segnata e si sposò. Ludwig Koch senior aveva ventiquattro anni più di lei ed
è difficile immaginare che sia stato solo l’amore a indurla al matrimonio. Ma per tutta la sua vita
mia nonna parlò con grande affetto di suo marito, che io non ho mai conosciuto. Morì poco
prima della mia nascita.
Nonostante tutti gli anni trascorsi in città, mia nonna rimase una donna di campagna, un po’
stravagante. Indossava delle gonne di lana e, sopra, dei grembiuli a fiori; portava i capelli
arricciati ed emanava un odore di cucina e di lozione antireumatica che mi avvolgeva quando
premevo il viso sulle sue gonne. Mi piaceva addirittura quella leggera esalazione di alcool che
sempre la circondava.Essendo figlia di un viticoltore, beveva a ogni pasto un gran bicchiere di
vino, come fosse acqua, senza poi mai mostrare il benché minimo accenno di ubriachezza.
Rimase fedele alle sue abitudini, cucinava su una vecchia stufa a legna e puliva le pentole con
un’antiquata spazzola di metallo. Curava i suoi fiori con particolare dedizione. Nel grande cortile
sul retro della casa, sulle mattonelle di graniglia, c’erano tantissimi vasi di terracotta e di legno,
e un vecchio tino dalla forma allungata, che in primavera e in estate si trasformavano in piccole
isole di fiori viola, gialli, bianchi e rosa. Nell’orto adiacente maturavano albicocche, ciliegie,
prugne e ribes a volontà. Il contrasto con il nostro complesso residenziale in Rennbahnweg non
avrebbe potuto essere più grande.
Nei primi anni della mia vita, mia nonna rappresentò il luogo al quale sentivo di appartenere.
Dormivo spesso da lei, mi lasciavo viziare con la cioccolata e mi rannicchiavo accanto a lei sul
divano. Di pomeriggio andavo a trovare un’amica che abitava lì e i cui genitori avevano una
piccola piscina in giardino; andavo in bicicletta con gli altri bambini sulla strada che attraversava
il villaggio ed esploravo curiosa un ambiente dove ci potevamo muovere liberamente. Quando
in seguito, i miei genitori, aprirono un negozio nelle vicinanze, qualche volta facevo in bicicletta
quel paio di minuti che mi separavano da casa di mia nonna per farle una sorpresa. Ricordo
ancora che spesso era sotto il casco asciugacapelli e non mi sentiva suonare e bussare. Allora
scavalcavo il recinto, mi introducevo in casa di soppiatto, passando dal retro, e mi divertivo a
spaventarla. Con i bigodini in testa mi correva dietro per la cucina, ridendo – “Aspetta solo che ti
acchiappi!” – e per “punizione” mi assegnava un lavoro in giardino. Amavo cogliere le ciliegie
insieme a lei oppure staccare con attenzione dagli arbusti i tralci carichi di ribes.
Mia nonna mi regalò non soltanto un pezzo d’infanzia spensierata e protetta, ma imparai da lei
anche come ci si possa creare degli spazi in un mondo che non ammette sentimenti. Quando
andavo a trovarla, la accompagnavo quasi ogni giorno al piccolo cimitero che si trova un po’
fuori dal paese, in mezzo a vasti campi. La tomba di mio nonno con la sua pietra nera, lucente,
era posta in fondo, in prossimità di un sentiero che era stato da poco coperto di ghiaia, accanto
alle mura del cimitero. In estate, il sole brucia sulle tombe e a parte qualche auto sporadica che
passa sulla strada principale, si sentono soltanto il frinire dei grilli e gli stormi di uccelli sopra i
campi. Mia nonna posava i fiori freschi sulla tomba e piangeva piano, tra sé. Quando ero
piccola, cercavo sempre di consolarla: “Non piangere, nonna. Nonno ti vuol vedere ridere!” In
seguito, quando frequentavo già le scuole elementari, ho capito che le donne della mia famiglia,
che nella vita di tutti i giorni non volevano mostrare debolezze, avevano bisogno di un posto
dove poter dare libero sfogo ai propri sentimenti.
Quando fui più grande, i pomeriggi a casa delle amiche di mia nonna, che spesso si univano a
noi durante le visite al cimitero, cominciarono ad annoiarmi. Da piccola mi era piaciuto farmi
rimpinzare di dolci da quelle vecchie signore e rispondere alle loro numerose domande. Ma a
un certo punto non ebbi più voglia di stare seduta in quegli antiquati salotti con i mobili scuri e le
tovaglie di pizzo, dove non mi era permesso toccare niente, mentre le signore si vantavano dei
loro nipoti. Allora mia nonna se l’era presa tanto per questo mio allontanamento. “Vuol dire che
mi cercherò un’altra nipote,” mi comunicò un giorno. Rimasi profondamente ferita quando
cominciò davvero a regalare gelati e dolciumi a un’altra bambina che veniva regolarmente in
negozio.
Questo dissapore fu dimenticato in fretta, ma da quel momento in poi le mie visite a
Süssenbrunn si fecero più rare. Mia madre aveva comunque un rapporto teso con sua suocera,
e quindi non le dispiacque che non restassi più così spesso a dormire da lei. Sebbene il nostro
rapporto – come accade alla maggior parte dei nipoti e delle nonne –, nel periodo delle scuole
elementari divenne meno intenso, mia nonna rappresentò sempre per me la roccia alla quale
aggrapparmi nella tempesta. Perché mi permise di fare scorta di un vitale senso di sicurezza e
protezione, di cui a casa sentivo invece la mancanza.
Tre anni prima della mia nascita, i miei genitori aprirono un piccolo negozio di generi alimentari
con unaStüberl– un piccolo caffè annesso – nel complesso residenziale Marco Polo, a circa
quindici minuti d’auto dal Rennbahnweg. Nel 1988 rilevarono anche una bottega in
Pröbstelgasse, a Süssenbrunn, lontana soltanto poche centinaia di metri dalla casa di mia
nonna, lungo la via principale del paese. Al piano terra di un palazzo d’angolo rosa antico,
dietro una porta antiquata e un bancone risalente agli anni sessanta, i miei genitori vendevano
prodotti di pasticceria, specialità gastronomiche, giornali e riviste speciali per i camionisti che lì,
sulla strada radiale di Vienna, facevano un’ultima sosta. Sugli scaffali erano accatastati i piccoli
oggetti di uso quotidiano che si acquistavano ancora nelle botteghe, anche se già da molto
tempo si faceva il resto della spesa al supermercato: piccole scatole di detersivi, pasta,
minestre in busta e soprattutto dolciumi. Nel piccolo cortile sul retro c’era una vecchia cella
frigorifera verniciata di rosa.
Questi due negozi divennero in seguito – insieme alla casa di mia nonna – i luoghi centrali della
mia infanzia. Nel negozio del complesso residenziale Marco Polo trascorsi innumerevoli
pomeriggi dopo l’asilo o la scuola, mentre mia madre si occupava della contabilità o serviva i
clienti. Giocavo a nascondino con gli altri bambini oppure scivolavo giù per la collinetta degli
slittini che aveva eretto il comune. Quel complesso era più piccolo e tranquillo del nostro ed io
potevo muovermi liberamente e facevo facilmente amicizia. Dal negozio osservavo gli avventori
del caffè: casalinghe, uomini che tornavano dal lavoro e altri che bevevano la loro prima birra
già in tarda mattinata e che si facevano servire con essa anche un toast. Questi negozi
appartengono a un genere che scompare lentamente dalle città e che grazie agli orari di
apertura più lunghi, alla mescita di alcolici e al contatto personale, rappresentano un punto di
ritrovo importante per molta gente.
Mio padre aveva la responsabilità del panificio e della consegna dei prodotti da forno, di tutto il
resto si occupava mia madre. Quando avevo circa cinque anni, cominciò a portarmi con lui nei
suoi giri. Con il nostro furgone, attraversavamo gli ampi sobborghi e i paesini, ci fermavamo in
trattorie, bar e caffè, presso le bancarelle degli hot dog e nei piccoli negozi. Per questo
conoscevo la zona a nord del Danubio probabilmente meglio di qualsiasi altro bambino della
mia età, e trascorsi più tempo nei bar e nei caffè di quello che forse era opportuno. Mi piaceva
immensamente passare tutto quel tempo insieme a mio padre e mi sentivo molto adulta e presa
sul serio. Tuttavia, i giri per i locali avevano anche i loro lati spiacevoli.
“È una bambina così carina!” Questa frase l’ho sentita probabilmente mille volte. Non ne ho un
buon ricordo, sebbene mi lodassero e fossi così al centro dell’attenzione. Le persone che mi
pizzicavano le guance e mi compravano la cioccolata, erano degli estranei per me. Inoltre
odiavo essere spinta sotto i riflettori senza che l’avessi voluto io, perché non provavo altro che
una sensazione di imbarazzo.
In questo caso era mio padre che si faceva bello con me davanti ai clienti. Mio padre era un
uomo affabile, che amava fare scena, e sua figlia, con il suo vestitino stirato di fresco, era un
accessorio perfetto. Aveva amici dappertutto, così tanti che persino da bambina mi accorsi che
quelle persone non potevano essergli tutte veramente vicine. La maggior parte di loro si faceva
offrire una bevuta o prestare del denaro. Preso dal desiderio di essere apprezzato, mio padre
pagava volentieri.
In quelle birrerie di periferia, piene di fumo, me ne stavo seduta su uno sgabello e ascoltavo gli
adulti che si interessavano a me soltanto in un primo momento. Buona parte di loro erano
disoccupati o falliti che trascorrevano le loro giornate bevendo birra, vino e giocando a carte.
Molti avevano svolto una professione, un tempo, erano stati insegnanti o impiegati statali che
ad un certo punto, però, erano usciti dalla carreggiata. Oggi si chiamaburnout. Allora, in
periferia era la normalità.
Solo di rado qualcuno domandava cosa ci facevo in quei locali. La maggior parte lo accettava
come un dato di fatto ed era gentile con me in un modo esagerato. “La mia grande bambina,”
diceva mio padre con approvazione, accarezzandomi la guancia. Se qualcuno mi offriva una
bibita o dei dolciumi, allora si aspettava da me qualcosa in cambio: “Dai un bacetto allo zio. Dai
un bacetto alla zia.” Io mi rifiutavo di avere un così stretto contatto con degli estranei e ce
l’avevo con loro perché mi rubavano l’attenzione di mio padre che invece mi spettava. Questi
giri di consegne erano delle continue docce calde e fredde: un momento ero al centro
dell’attenzione, mio padre mi presentava orgoglioso alla compagnia e ricevevo una caramella;
un attimo dopo facevano tutti così poco caso a me che sarei potuta finire sotto un’auto e
nessuno se ne sarebbe accorto. Questo continuo oscillare tra attenzione e trascuratezza, in un
mondo superficiale, logorava la sicurezza in me stessa. Imparai a mettermi al centro
dell’attenzione e a restarci il più a lungo possibile. Ho capito soltanto oggi che quella tendenza a
stare sul palcoscenico, il sogno di diventare attrice che avevo maturato fin da piccola, non
nasceva da me stessa. Era un modo di imitare i miei estroversi genitori, e un metodo per
sopravvivere in un mondo dove gli adulti o mi ammiravano oppure non mi consideravano
affatto.
Poco dopo, questa continua altalena tra attenzione e disinteresse che tanto scalfiva la mia
sicurezza, penetrò anche nell’ambiente a me più vicino. Il mondo della mia prima infanzia
cominciò a mostrare lentamente delle crepe. All’inizio erano così sottili e impercettibili che
riuscivo ancora a ignorarle e ad addossarmi la colpa dei malumori in famiglia. Poi però le crepe
cominciarono ad allargarsi, fino a quando tutto il sistema crollò su se stesso. Mio padre si
accorse troppo tardi che aveva tirato la corda oltre misura e che mia madre aveva già deciso da
tempo di separarsi da lui. Mio padre continuava a vivere la sua vita grandiosa da re di periferia,
girava per i bar e acquistava di continuo auto imponenti: Mercedes o Cadillac, con le quali
voleva impressionare i suoi “amici”. I soldi necessari, li chiedeva in prestito. Persino quando mi
dava i soldi della mia paghetta, subito dopo me li richiedeva in prestito, per comprarsi le
sigarette o per andare a bere un caffè. Accese così tanti crediti sulla casa di mia nonna che fu
pignorata. A metà degli anni novanta, aveva accumulato talmente tanti debiti da mettere in
pericolo l’esistenza della famiglia. Mia madre convertì il debito e rilevò la bottega in
Pröbstelgasse e il negozio nel complesso residenziale Marco Polo. Ma la spaccatura tra loro
andava oltre la questione finanziaria. A un certo punto mia madre ne ebbe abbastanza di
quell’uomo che si divertiva volentieri, ma che non sapeva cosa fosse l’affidabilità.
Con la graduale separazione dei miei genitori, la mia vita cambiò completamente. Invece di
prendersi cura di me e di proteggermi, mi trascurarono. I miei genitori litigavano violentemente
per ore. A turno si chiudevano in camera, mentre l’altro continuava a infuriare nel soggiorno.
Quando, impaurita, provavo a chiedere cosa stesse succedendo, mi portavano in camera mia,
chiudevano la porta e continuavano a litigare. Mi sentivo prigioniera e non sapevo più cosa
pensare. Premendo il cuscino sulle orecchie, cercavo di non sentire i loro chiassosi diverbi e di
proiettarmi nella mia precedente, spensierata infanzia. Ci riuscivo solo raramente. Non capivo
perché mio padre, che di solito era così raggiante, avesse un aspetto irresoluto e smarrito e non
tirasse più fuori dalle maniche delle piccole sorprese per farmi contenta. La sua inesauribile
scorta di gelatine sembrava essere improvvisamente finita.
Una volta, dopo un violento litigio, mia madre se ne andò addirittura di casa e scomparve per
giorni. Voleva mostrare a mio padre come ci si sente a non avere notizie del proprio compagno;
per lui, infatti, passare una o due notti fuori casa non era una cosa straordinaria.
Io però ero troppo piccola per intuire cosa ci fosse dietro ed ebbi paura. A quell’età il senso del
tempo è completamente diverso da quello di un adulto, l’assenza di mia madre mi sembrò
infinita. Non sapevo se sarebbe mai ritornata. Si radicò in me un senso di abbandono, e di
rifiuto. E cominciò una fase della mia infanzia in cui non riuscivo più a trovare il mio posto e non
mi sentivo più amata. Poco a poco, da quella piccola persona sicura di sé che ero stata, mi
trasformai in una bambina insicura che smise di aver fiducia nel mondo che la circondava.
In questo difficile periodo cominciai ad andare alla scuola materna. Fu il momento nel quale il
condizionamento esterno da parte degli adulti, che da piccola facevo fatica ad accettare,
raggiunse il suo apice.
Mia madre mi aveva iscritto a una scuola materna privata che non era molto lontana dal nostro
complesso residenziale. Fin dall’inizio mi sentii incompresa e talmente poco accettata che
cominciai a odiare la scuola. Già il primo giorno, feci un’esperienza che gettò le basi per questo
sentimento. Ero fuori, in giardino, con gli altri bambini, quando vidi un tulipano che mi attrasse
molto. Mi chinai su di esso e con cautela lo tirai verso di me, per odorarlo. La maestra deve aver
creduto che volessi coglierlo. Con un gesto severo mi colpì sul dorso della mano. Io urlai
indignata: “Lo dico a mia madre!” Ma la sera dovetti costatare che mia madre non mi difendeva
più, dato che aveva delegato questa competenza a qualcun altro. Quando le raccontai
l’accaduto – convinta che avrebbe preso le mie difese, solidale con me, e che il giorno dopo
avrebbe rimproverato la maestra –, mia madre disse soltanto che alla scuola materna era così e
che si dovevano rispettare le regole. E soprattutto: “Io non mi immischio affatto in questa
faccenda, perché non c’ero.” Questa frase divenne la sua risposta standard, quando avevo dei
problemi con le maestre. E quando le raccontavo le angherie che subivo dagli altri bambini,
diceva lapidaria: “Allora devi difenderti.” Dovevo imparare a superare le difficoltà da sola. Il
periodo della scuola materna fu per me un tempo di angustie. Odiavo le regole rigide.
Detestavo dover riposare insieme agli altri bambini nel dormitorio, dopo il pranzo, sebbene non
fossi stanca. Le maestre svolgevano il proprio lavoro seguendo la solita routine, ma senza
interessarsi particolarmente a noi. Mentre ci sorvegliavano con la coda dell’occhio, leggevano
romanzi e riviste, spettegolavano e si laccavano le unghie.
Feci amicizia molto lentamente con gli altri bambini, in mezzo ai miei coetanei mi sentivo più
sola di prima.
“I fattori di rischio soprattutto nel caso dell’enuresi secondaria sono da ricollegarsi a un
sentimento di perdita inteso nel senso ampio del termine, come, per esempio quello sorto in
seguito a separazione, divorzio, decesso, nascita di un fratello, povertà estrema, delinquenza
dei genitori, deprivazione, disinteresse, scarso sostegno durante gli stadi della crescita”. Il
dizionario enciclopedico definisce così le cause di un problema con il quale lottai in quel
periodo. Da bambina precoce, che si era liberata presto dei pannolini, divenni una bambina che
bagnava il letto. L’enuresi notturna diventò uno stigma che mi condizionò la vita. Le macchie
umide notturne nel letto furono all’origine di incessanti rimproveri e derisioni.
Quando bagnai il letto per l’ennesima volta, mia madre reagì come era normale allora. Lo
ritenne un comportamento intenzionale, che si poteva correggere con la forza e le punizioni. Mi
dette uno sculaccione e mi chiese arrabbiata: “Perché mi fai questo?” S’infuriò, si disperò, non
sapeva più cosa fare. E io continuavo a farla a letto. Mia madre si procurò delle traverse di
caucciù e coprì il materasso. Fu un’esperienza umiliante. Dalle conversazioni delle amiche di
mia nonna sapevo che incerate e biancheria speciale erano accessori utili alle persone vecchie
e malate. Io invece volevo essere trattata come una bambina grande.
E tuttavia l’enuresi non cessava. Mia madre mi svegliava di notte per mettermi sulla tazza del
gabinetto. Se, nonostante ciò, bagnavo il letto, mi cambiava imprecando le lenzuola e il
pigiama. Qualche volta, la mattina, mi svegliavo asciutta e orgogliosa, ma mia madre frenava
subito la mia gioia: “È solo perché non ti ricordi che questa notte ho dovuto cambiarti di nuovo,”
sbraitava. “Guarda il pigiama che indossi.” Erano rimproveri ai quali io non sapevo cosa
ribattere. Mia madre mi puniva con disprezzo e sarcasmo. Quando espressi il desiderio di avere
della biancheria di Barbie, mi canzonò: tanto l’avrei bagnata comunque. Per la vergogna mi
sentii quasi sprofondare.
Infine cominciò a controllare la quantità di liquidi che assumevo al giorno. Io ero sempre stata
una bambina assetata e bevevo molto. Ma adesso il mio comportamento in tal senso fu
regolamentato con precisione. Durante la giornata mi davano pochi liquidi, la sera più niente.
Più mi proibivano di bere acqua e succhi di frutta, più la mia sete cresceva, fino a quando non
pensai più a nient’altro. Mia madre controllava e commentava ogni mio sorso e ogni volta che
andavo al gabinetto, ma solo quando eravamo sole. Cosa avrebbe pensato, altrimenti, la gente.
Alla scuola materna, l’enuresi acquisì una nuova dimensione. Ora me la facevo addosso anche
di giorno. I bambini mi prendevano in giro e le maestre li incitavano e, una volta su due, mi
facevano fare una figuraccia davanti a tutto il gruppo. Probabilmente pensavano che la
derisione mi avrebbe indotto a controllare meglio la vescica. Invece, la situazione peggiorava
con ogni nuova umiliazione. Andare in bagno e ottenere un bicchiere d’acqua divennero una
tortura. Mi ci costringevano quando non volevo e me li negavano quando ne avevo bisogno
urgente. Alla scuola materna, infatti, dovevamo chiedere il permesso quando volevamo andare
in bagno. Nel mio caso, questa domanda veniva commentata ogni volta: “Ci sei appena stata.
Perché devi tornarci di nuovo?” Invece mi obbligavano ad andare in bagno prima delle gite, dei
pasti, del riposo pomeridiano, e mi sorvegliavano. Una volta le maestre mi sospettarono di
averla fatta addosso e mi obbligarono addirittura a mostrare la mia biancheria davanti a tutti i
bambini.
Quando uscivamo, mia madre portava sempre un sacchetto con la biancheria di ricambio. Quel
fagotto di vestiti non faceva che accrescere la mia vergogna e la mia insicurezza. Gli adulti
davano per certo che mi sarei bagnata. E più lo davano per scontato e mi rimproveravano e mi
prendevano in giro per questo, più avevano ragione. Era un circolo vizioso, dal quale non riuscii
a uscire neanche durante la scuola elementare. Rimasi una bambina derisa, umiliata e
perennemente assetata che bagnava il letto.
Dopo due anni di litigi e alcuni tentativi di riconciliazione, mio padre se ne andò definitivamente
da casa. Avevo allora cinque anni e da quella bambina gioiosa che ero stata, mi ero trasformata
in una creatura insicura e chiusa, alla quale non piaceva più la sua vita e protestava in diversi
modi. Qualche volta mi isolavo, altre gridavo, vomitavo e mi venivano crisi di pianto per il dolore
di non essere compresa. Per settimane fui tormentata da una gastrite.
Mia madre, che pure era molto provata dalla separazione, mi trasmise il suo modo di accettare
la situazione. Pretese da me che stringessi i denti, proprio come faceva lei, che ingoiava il
dolore e l’insicurezza e andava avanti coraggiosamente. Accettava male che io non ne fossi in
grado, poiché ero solo una bambina. Quando, a suo parere, diventai troppo emotiva, allora
cominciò addirittura a reagire in modo aggressivo alle mie crisi. Mi rimproverava di
autocompatirmi e, a turno, mi allettava con delle ricompense oppure minacciava di punirmi se
non l’avessi fatta finita.
La mia rabbia per una situazione che non capivo, si rivolse poco a poco contro la persona che
era rimasta con me dopo l’allontanamento di mio padre: mia madre. Più di una volta mi
arrabbiai con lei a tal punto che decisi di andarmene. Misi un paio di cose dentro il sacchetto
che usavo per la ginnastica e la salutai. Ma mia madre sapeva che non sarei arrivata oltre la
porta e commentò il mio comportamento facendomi l’occhiolino e dicendo soltanto: “Okay,
stammi bene.” Un’altra volta, tolsi dalla mia stanza tutte le bambole che mi aveva regalato e le
allineai nel corridoio. Che si accorgesse pure che ero decisa a chiuderla fuori dal mio piccolo
regno, vale a dire la mia stanza. Tuttavia, naturalmente, queste manovre contro mia madre non
risolvevano il mio vero problema. Con la separazione dei miei genitori avevo perduto i punti fissi
del mio mondo e non potevo più fare affidamento sulle persone che, fino a quel momento,
c’erano sempre state per me.
La mancanza di rispetto di cui soffrivo, distrusse lentamente la mia autostima. Quando si pensa
alla violenza perpetrata sui bambini, ci si figura sistematicamente delle percosse che hanno
come risultato delle ferite corporali. Io non esperimentai niente di tutto questo nella mia infanzia.
Si trattò piuttosto di un misto di oppressione verbale e di occasionali schiaffi “vecchia maniera”,
che mi dimostravano che, essendo una bambina, ero quella più debole. Non erano la rabbia e il
freddo calcolo che spingevano mia madre a comportarsi così, ma piuttosto un’aggressione che
si accendeva, erompeva da lei come una fiammata e si spengeva altrettanto velocemente. Mi
schiaffeggiava quando era sotto pressione o quando avevo fatto qualcosa di sbagliato. Odiava
quando piagnucolavo, facevo domande o mettevo in discussione una delle sue spiegazioni:
anche questo mi valeva uno schiaffo.
In quegli anni e in quella zona non era una cosa insolita trattare così i bambini: al contrario, io
avevo una vita molto più “facile” di alcuni bambini del vicinato. Mi succedeva di continuo di
osservare le madri in cortile che urlavano contro i loro figli, li spingevano a terra e li picchiavano.
Questo mia madre non l’avrebbe mai fatto e il suo modo di schiaffeggiarmi occasionalmente
non incontrò mai l’incomprensione della gente. Persino quando mi schiaffeggiava in pubblico,
nessuno si immischiava. Per lo più, però, mia madre era troppo signora per esporsi anche solo
al rischio che qualcuno la osservasse durante un litigio. La violenza palese era una cosa per le
altre donne del nostro complesso residenziale. Mia madre, al contrario, mi esortava ad
asciugarmi le lacrime o a raffreddarmi la guancia prima di uscire da casa o scendere dalla
macchina.
Allo stesso tempo, cercava di alleggerirsi la coscienza facendomi dei regali. Lei e mio padre
facevano a gara, nel senso vero e proprio della parola, a chi mi comprava i vestiti più belli o, a
chi mi portava a fare le gite durante il fine settimana. Ma io non volevo dei regali. In quella fase
della mia vita avevo bisogno unicamente di qualcuno che mi desse un appoggio incondizionato
e amore. I miei genitori non erano in grado di farlo.
Un episodio accaduto nel periodo delle scuole elementari mostra in che misura, già allora,
avessi interiorizzato che non dovevo aspettarmi nessun aiuto dagli adulti. Avevo circa otto anni
e con la mia classe ero andata per una settimana in una colonia nella Stiria. Non ero una
bambina sportiva e non osavo fare i giochi scalmanati con i quali gli altri bambini passavano il
tempo. Ma al parco giochi volli fare almeno un tentativo.
Quando caddi dalla struttura sulla quale mi stavo arrampicando e sbattei a terra, sentii un
dolore violento attraversarmi il braccio. Feci per alzarmi, ma il braccio cedette e io caddi
all’indietro. Nelle mie orecchie, le risate allegre dei bambini che intorno a me scorrazzavano nel
parco giochi, risuonavano attutite. Avrei voluto gridare, le lacrime mi scorrevano sulle guance.
Ma non emisi un suono. Solo quando una compagna di scuola venne da me, la pregai
sottovoce, di chiamare la maestra. La bambina andò da lei. La maestra la rimandò da me a
riferirmi che se volevo qualcosa dovevo andare di persona.
Cercai di rialzarmi, ma non appena mi muovevo, sentivo di nuovo il dolore nel braccio.
Rimasi lì distesa, inerme. Solo un po’ di tempo dopo, la maestra di un’altra classe mi aiutò ad
alzarmi. Strinsi i denti, non piansi e non mi lamentai. Non volevo recare disturbo a nessuno. Più
tardi anche la mia maestra si accorse che c’era qualcosa che non andava. Suppose che,
cadendo, mi fossi provocata una forte contusione e mi permise di passare il pomeriggio nella
stanza della televisione.
Durante la notte rimasi sdraiata nel mio letto, nello stanzone dove dormivamo tutti insieme, e
per il dolore riuscivo a malapena a respirare. E tuttavia non chiesi aiuto a nessuno. Solo il
giorno dopo, sul tardi –– eravamo al giardino zoologico di Herberstein –, la mia maestra si
accorse che mi ero fatta male seriamente e mi portò dal dottore. Che mi mandò subito
all’ospedale di Graz. Il braccio era rotto.
Mia madre mi venne a prendere in clinica insieme al suo compagno. Il nuovo uomo nella sua
vita era un buon conoscente: il mio padrino. Non mi piaceva. Il viaggio fino a Vienna fu una vera
tortura. Per tre ore, il compagno di mia madre inveì perché a causa della mia goffaggine
avevano dovuto fare un viaggio così lungo. Mia madre cercò, sì, di alleggerire l’atmosfera, ma
non le riuscì e i rimproveri non ebbero fine. Io sedevo sul sedile posteriore e piangevo piano, tra
me e me. Mi vergognavo di essere caduta, e dei fastidi che arrecavo a tutti. Non disturbare. Non
fare tragedie. Non essere isterica. Le bambine grandi non piangono. Questi principi della mia
infanzia, ascoltati mille volte, mi avevano fatto sopportare il dolore del braccio fratturato per un
giorno e mezzo. Adesso, durante il viaggio in autostrada, tra le tirate del compagno di mia
madre, una voce interna li ripeteva nella mia testa.
Allora la mia maestra subì un provvedimento disciplinare perché non mi aveva portato subito
all’ospedale. Era vero, naturalmente, che era venuta meno ai suoi doveri di sorveglianza.
Tuttavia, io stessa avevo in gran parte contribuito a quella negligenza. Già allora la fiducia nel
mio modo di percepire le cose era così scarsa che nemmeno con un braccio fratturato avevo
pensato di poter chiedere aiuto.
Nel frattempo vedevo mio padre soltanto durante i fine settimana o quando, ogni tanto, mi
portava con lui nei suoi giri di consegne. Anche lui, dopo la separazione da mia madre, si era
innamorato di nuovo. La sua compagna era gentile, ma si teneva a distanza. Una volta mi disse
pensierosa: “Adesso so perché sei così difficile. I tuoi genitori non ti vogliono bene.” Io protestai
con forza, ma quella frase rimase impigliata nella mia anima ferita di bambina. Aveva forse
ragione? In fondo era una persona adulta e gli adulti avevano sempre ragione.
Per giorni, quel pensiero non mi abbandonò.
Quando avevo nove anni, cominciai a compensare lamia frustrazione con il cibo. Non ero mai
stata una bambina magra, neanche in precedenza, ed ero cresciuta in una famiglia dove il cibo
aveva un ruolo importante. Mia madre era quel tipo di donna che poteva mangiare quanto
voleva senza ingrassare di un grammo. Forse dipendeva da un’iperfunzione della tiroide oppure
dal suo carattere attivo: mangiava fette di pane con lo strutto, torte, arrosti e panini al prosciutto
senza ingrassare e non si stancava di sottolinearlo anche davanti agli altri: “Posso mangiare ciò
che voglio,” diceva con voce flautata, con una fetta di pane imburrato in mano. Da lei presi la
smodatezza nel mangiare, ma non la capacità di bruciare poi, da sola, le calorie.
Mio padre, invece, era così grasso che già da bambina provavo imbarazzo a farmi vedere
insieme a lui. La sua pancia era enorme e tesa come quella di una donna all’ottavo mese di
gravidanza. Quando stava sdraiato sul divano, il ventre si ergeva verso l’alto come una
montagna, e da piccola spesso ci bussavo sopra e domandavo: “Quando arriva il bebè?” Mio
padre ci rideva su, bonariamente. Sul suo piatto si accatastavano montagne di carne
accompagnata sempre da svariati canederli che nuotavano in un vero e proprio lago di salsa.
Divorava porzioni enormi e continuava a mangiare anche quando non aveva più fame da un
pezzo.
Quando, nei weekend, facevamo delle gite in famiglia – prima insieme a mia madre, poi con la
sua nuova compagna – tutto girava intorno al cibo. Mentre le altre famiglie facevano delle
escursioni in montagna, gite in bicicletta o andavano a visitare i musei, le nostre mete erano
culinarie. Andavamo in una nuova osteria, facevamo delle gite nelle trattorie di campagna, in un
castello, non per una visita storica guidata bensì per partecipare a un banchetto medievale:
mucchi di carne e canederli che ci spingevamo in bocca con le mani, e boccali pieni di birra:
questo era il tipo di gita che rispecchiava i gusti di mio padre.
Anche nei due negozi a Süssenbrunn e nel complesso residenziale Marco Polo, che mia madre
aveva rilevato dopo la separazione da mio padre, ero continuamente circondata dal cibo.
Quando mia madre mi veniva a prendere al doposcuola e mi portava con sé al negozio,
combattevo la noia con le ghiottonerie: un gelato, delle gelatine, un pezzo di cioccolata, un
cetriolo sottaceto. Mia madre per lo più cedeva alle mie richieste: era troppo occupata per fare
attenzione a tutto quello che ingurgitavo.
In quel periodo, però, cominciai a mangiare sistematicamente fino alla nausea. Mangiavo un
pacchetto intero di Bounty, ci bevevo una grossa bottiglia di Coca-cola fino a quando l’addome
si tendeva tanto da scoppiare. Non appena ero di nuovo in grado di mettere qualcosa in bocca,
ricominciavo a mangiare. Negli ultimi anni prima del mio rapimento ingrassai talmente che da
paffutella quale ero stata, diventai una bambina davvero grassa. Facevo sempre meno attività
sportiva, gli altri bambini mi canzonavano sempre di più e io compensavo la solitudine
continuando a mangiare. Quando festeggiai il mio decimo compleanno, pesavo quarantacinque
chili.
Mia madre ci metteva del suo per aumentare la mia frustrazione. “Mi piaci lo stesso, l’aspetto
non importa.” Oppure: “Quando una bambina è brutta, basta infilarle addosso un bel vestito.”
Quando mi mostravo ferita, mia madre rideva e diceva: “Non mi riferisco a te, tesoro. Non
essere così sensibile.” Sensibile: questa era la cosa peggiore, non si doveva esserlo. Ancora
oggi mi sorprendo del senso positivo con cui è usata la parola “sensibile”. Durante la mia
infanzia, era un insulto rivolto alle persone che sono troppo deboli per stare al mondo. Allora
avrei desiderato che mi fosse consentito essere più debole. In seguito, la durezza che mi era
stata imposta soprattutto da mia madre, mi ha probabilmente salvato la vita.
Circondata da dolciumi a non finire, trascorrevo ore da sola, davanti al televisore, oppure nella
mia stanza, con un libro in mano. Volevo fuggire da quella realtà, che non mi riservava
nient’altro che umiliazioni, in un altro mondo. A casa prendevamo tutti i canali televisivi e
nessuno faceva attenzione a cosa guardavo. Cambiavo i canali a caso, guardavo le
trasmissioni per bambini, i telegiornali e i film gialli che mi facevano paura sebbene ne
assorbissi i contenuti come una spugna. Nell’estate del 1997, i media si occuparono soprattutto
di un tema: nel Salzkammergut fu sgominata una banda di pedofili. Con orrore sentii in
televisione che sette uomini adulti, servendosi di piccole somme di denaro, avevano attirato un
numero imprecisato di ragazzini in una stanza arredata allo scopo, per abusare di loro e girare
dei film che vendevano poi in tutto il mondo. Il 24 gennaio 1998, un nuovo caso scosse l’Alta
Austria. Tramite una casella postale, erano stati distribuiti in tutto il mondo dei film che
mostravano gli abusi compiuti su bambine tra i cinque e i sette anni. In uno di questi film si
vedeva uno dei criminali attirare una bambina di sette anni, che abitava nel vicinato, nella sua
mansarda e lì abusarne violentemente.
Ancora di più mi colpirono i servizi giornalistici sugli omicidi di bambine che in quel periodo, in
Germania, avvenivano in serie. Per quel che posso ricordare, negli anni delle scuole elementari,
non passava quasi mai un mese senza che si avesse notizia di bambine rapite, violentate o
uccise. I telegiornali non tralasciavano quasi nessun dettaglio delle drammatiche ricerche e
delle indagini della polizia. E io ascoltavo di continuo i racconti sconvolgenti dei parenti: di come
le bambine erano sparite mentre giocavano all’aperto, oppure di come non erano più tornate da
scuola. Di come i genitori le avessero cercate disperati, fino a quando avevano avuto la terribile
certezza che non avrebbero più rivisto le loro bambine vive.
I casi di cui allora parlarono i media, erano così attuali che ne parlammo anche nella nostra
scuola.
Le maestre ci spiegarono come fare per proteggerci dalle violenze. Vedemmo dei film nei quali
le bambine subivano molestie dai fratelli maggiori o dove dei ragazzini imparavano a dire “No!”
al loro padre violento. E gli insegnanti ci ripetevano gli ammonimenti che anche a casa i genitori
facevano continuamente ai loro bambini. “Non andate mai con un estraneo! Non salite su
un’auto sconosciuta. Non accettate dolciumi! E cambiate lato della strada, se notate qualcosa di
strano.”
Se guardo oggi la lista dei casi che rientrano nel periodo in cui frequentavo le scuole
elementari, mi sconvolgo come allora:
Yvonne (dodici anni) fu uccisa a luglio del 1995 sul lago di Pinnow (in Brandeburgo) perché si
era opposta alla violenza sessuale di un uomo.
Annette (quindici anni) di Mardorf sul lago di Steinhude, nel 1995, dopo essere stata violentata
e uccisa, fu ritrovata nuda in un campo di mais. L’assassino non fu catturato.
Maria (sette anni) fu rapita a novembre del 1995 a Haldensleben (nella Sassonia-Anhalt),
violentata e gettata in uno stagno.
Elmedina (sei anni) fu rapita nel febbraio del 1996 a Siegen, violentata e soffocata.
Claudia (undici anni) fu rapita a maggio del 1996 a Grevenbroich, violentata e data alle fiamme.
Ulrike (tredici anni), l’11 giugno del 1996 non fece ritorno da una passeggiata con il calesse. Il
suo cadavere fu ritrovato due anni dopo.
Ramona (dieci anni) sparì il 15 agosto 1996 a Jena, in un centro commerciale. Il suo corpo fu
ritrovato a gennaio del 1997 nei pressi di Eisenach.
Natalie (sette anni) fu rapita mentre stava andando a scuola, violentata e uccisa il 20 settembre
1996 a Epfach in Alta Baviera da un uomo di ventinove anni.
Kim (dieci anni) di Varel in Frisia fu rapita, violentata e uccisa nel gennaio del 1997.
Anne-Katrin (otto anni) fu ritrovata uccisa il 9 giugno 1997 nelle vicinanze della sua casa, a
Seebeck, in Brandeburgo.
Loren (nove anni) fu violentata e assassinata nel luglio del 1997, nella cantina della sua casa a
Prenzlau, da un uomo di vent’anni.
Jennifer (undici anni), il 13 gennaio 1998, a Versmold nei pressi di Gütersloh, fu attirata in
un’auto da suo zio che la violentò e la strangolò.
Carla (dodici anni) fu aggredita il 12 gennaio 1998 a Wilhermsdorf presso Fürth mentre stava
andando a scuola, fu violentata e gettata priva di sensi in un laghetto. Morì dopo cinque giorni di
coma.
I casi di Jennifer e Carla mi commossero in modo particolare. Dopo l’arresto, lo zio di Jennifer
confessò che aveva avuto intenzione di abusare della nipote nella sua auto. Quando la
bambina si era difesa, l’aveva strangolata e aveva occultato il corpo nel bosco. Quei resoconti
mi toccavano da vicino. Gli psicologi intervistati allora dalla televisione consigliavano di non
opporsi alla violenza, per non mettere a repentaglio la propria vita. Ancora più spaventosi
furono i servizi televisivi sull’assassinio di Carla. Vedo ancora oggi davanti a me i reporter con i
microfoni davanti allo stagno di Wilhermsdorf, che raccontavano come, in base alla quantità di
terra smossa, fosse possibile costatare quanto la bambina si era difesa. La messa funebre fu
trasmessa in televisione. Io sedevo con gli occhi spalancati dal terrore davanti al teleschermo.
Tutte quelle bambine avevano la mia età. Solo una cosa mi tranquillizzava quando vedevo le
loro foto ai telegiornali: io non ero il tipo di bambina bionda e gracile che i colpevoli sembravano
preferire. Non avevo idea di quanto mi sbagliassi.
interessante e intenso, mi ispira dalla recensione! avete il pdf? oppure andrò in bilioteca...
RispondiEliminaWow, che libro... Mi ispira parecchio!
RispondiEliminaAvete il pdf?
Credo che vi manderò direttamente la mail :)
Marta.