Salve a tutti lettori di Bookcret,
oggi vorrei lasciarvi un altro assaggio di lettura, di un libro che recensirò a breve. Se riesco anche domani. Il romanzo appartiene alla saga erotica, Inside Out Trilogy, edita da Mondadori da quest'anno. Il volume si intitola Una parte di me di Lisa Renee Jones, ed è il secondo romanzo della saga. Per ragioni di spazio e lunghezza del post mi trovo meglio a pubblicare recensione e primo capitolo su due post differenti, che in seguito saranno correlati. Abbiamo deciso da poco di inserire insieme alla recensione un breve scritto tratto da libro per far si che possiate farvi un'idea tutta vostra del romanzo e decidere, se intraprenderne la lettura o meno.
Titolo: Una parte di me
Autore: Lisa Renee Jones
Editore: Mondadori
Collana: Omnibus
Traduttore: Albanese T.
N. pagine: 292
I Capitolo:
Diario 8, brano 1
Venerdì, 27 aprile 2012
Ero immersa nel buio, un’assenza totale di luce che mi faceva tremare da capo a piedi. Anzi, non era il buio a farmi tremare. Era lui. Pur non vedendolo, sentivo la sua presenza. Oh, sì, lo sentivo eccome. In ogni cellula del mio corpo, in ogni terminazione nervosa. Mi braccava. Reclamava il mio possesso, anche se non mi aveva ancora toccata. Io ero alla sua mercé, nuda e in ginocchio, al centro di un morbido tappeto di lana. Lacci stretti mi tenevano i polpacci attaccati alle cosce, mentre un’altra serie di lacci mi legava il petto, costringendomi le braccia dietro la schiena. Era un dolore agrodolce, erotico, e anche se mi sentivo esposta e vulnerabile, ormai ho capito che queste situazioni mi eccitano come non avrei mai creduto possibile. È davvero assurdo che sia terrorizzata all’idea dei limiti che ogni volta mi farà superare e al tempo stesso frema di eccitazione. Ma ero spaventata mentre stavo inginocchiata lì, al buio. Spaventata dallo scarso controllo sulle mie stesse reazioni fisiche, dal fatto che lui avesse il controllo di tutto, e io di niente. E da quanto sentissi la necessità del suo potere su di me. Adesso, mentre scrivo, non riconosco quella parte di me, ma quando sono con lui divento la persona che vuole farmi essere. Divento la sua schiava volenterosa, anche se ormai so di essere solo una comparsa nei suoi giochi. Lui non mi apparterrà mai come io appartengo a lui. Non lo dominerò mai come lui fa con me. Io rispetto le sue regole senza mai sapere come cambieranno, o chi farà parte del nuovo gioco in cui si è trasformato ognuno dei nostri incontri. E ieri sera, quando un faro di colpo si è acceso su di me, quando lui è uscito dal buio per pararmisi davanti, l’uomo che aveva di fianco mi ha fatto sussultare. Lo detesto, e lui lo sa, eppure l’ha invitato a spartirmi con lui. Avrei voluto protestare. Avrei dovuto protestare. Ma lì, in quella stanza, non ero Rebecca. Ero solo sua. A volte, nella luce del mattino, quando lui non può toccarmi, quando siamo lontani, penso di voler solo essere me stessa, essere di nuovo Rebecca. L’unico problema è che non ricordo più chi sono veramente. Non sono più certa di conoscermi. Chi è Rebecca Mason?
1
Mi sento soffocare nel buio pesto creato dall’inattesa interruzione della corrente nel magazzino in cui mi trovo alla ricerca di indizi per rintracciare Rebecca. Mi sembra di essere piombata in un film dell’orrore, di quelli che odio con tutto il cuore, e subito mi immagino nei panni della ragazza che fa tutte le mosse sbagliate e finisce massacrata. Io, Sara McMillan, sono una persona razionale, e devo liquidare queste paure assurde. Questo è solo uno degli sporadici blackout che San Francisco ha dovuto affrontare negli ultimi mesi, e la cosa peggiore che mi può capitare è che salti fuori un topo.
Ma non è forse quello che pensa anche la ragazza del film poco prima di venire uccisa? “È solo saltata la corrente. È solo un topo.” È già stata una mossa stupida venire qui da sola così tardi, dunque cerco di non farne altre. Dall’incontro precedente, so che l’addetto del deposito è un tipo che fa venire i brividi, ma tento di scacciare quel pensiero. Sono stata troppo ansiosa di fare qualcosa per trovare Rebecca, e troppo ansiosa di distrarmi dal silenzio di Chris dopo lo scambio di SMS di stamattina, quando gli ho confessato che sentivo la sua mancanza. Temo che questa gita fuori città per un evento di beneficenza gli abbia dato il tempo di capire che lui, invece, non sente la mia. D’altra parte, ieri sera ha avuto il coraggio di svelarmi uno dei suoi segreti più torbidi, e io ho fatto proprio quello che aveva previsto, quello che avevo giurato di non fare: l’ho respinto. “Sono scappata” aggiungo tra me, pensando alle parole che Chris aveva usato più volte prevedendo il mio comportamento.
Un altro tonfo infrange il lugubre silenzio e sono ufficialmente terrorizzata da qualcosa di più spaventoso del silenzio di Chris. Mi sforzo di identificare quel suono, invano. Devo ammetterlo, sono stata proprio una cretina a venire qui da sola. E anche se mi piace pensare di non comportarmi spesso da stupida, questo episodio è la dimostrazione che, quando succede, faccio le cose in grande.
Non oso muovermi, tantomeno respirare, eppure so che gli ansimi rochi e soffocati che sento sono i miei. Mi impongo di non fare rumore, ma non funziona. Ho una stretta al petto, e stento a far entrare l’aria nei polmoni. Ho bisogno d’aria. Ne ho un bisogno disperato. Penso che sto andando in iperventilazione. Sì, deve essere così. Ricordo una sensazione identica, come di essere fuori dal mio corpo, quando cinque anni fa un medico uscì dalla stanza d’ospedale di mia madre per annunciarmi la sua
morte. Pur se consapevole di ciò che mi sta succedendo, continuo ad ansimare come una pazza. Non c’è dubbio che in questo modo tradirò la mia presenza, e non è possibile che non sia in grado di controllarmi.
A un certo punto mi ritrovo in piedi, ma non ho memoria di essermi alzata. Dalle mani mi cadono dei fogli che non ricordavo di aver preso. Il panico monta dentro di me suggerendomi di urlare e scappare. La sensazione è così forte e reale che faccio un passo in avanti, ma un altro rumore mi blocca. Il mio sguardo corre verso la porta, dove non vedo che oscurità. Nient’altro che questo buco buio e profondo che minaccia di inghiottirmi. Un altro tonfo. Che razza di suono è? Ancora un altro rumore, che sembra un passo strascicato, rimbomba più vicino alla porta. Sento una scarica di adrenalina, non mi soffermo a pensare, agisco.
Attraverso la stanza sfrecciando in una direzione che mi sembra libera da ostacoli. Porta, porta, porta! Mi serve la porta. Dov’è quella maledetta porta? Le mie dita continuano ad annaspare nel vuoto, finché non sento il freddo acciaio e riesco a chiuderla con un colpo secco, prima di esalare un sospiro di sollievo. Spingo i palmi contro la superficie. E adesso? E adesso?! Devo girare la chiave. Peccato che sia impossibile. La cruda realtà mi frana addosso. La serratura è fuori e, mio Dio, chiunque sia in corridoio potrebbe chiudermi dentro. A meno che... e se nel frattempo la persona di cui avevo percepito la presenza nel corridoio fosse riuscita a entrare?
Questo pensiero terrificante mi spinge a girarmi e ad appiattirmi contro la porta. Ricordo che ho il telefono nella tasca della giacca e lo cerco a tentoni. Non vedo niente. E, a quanto pare, non riesco nemmeno a essere lucida. Perché non ho pensato prima al telefono? Lo prendo, ma mi scivola e cade a terra. Trafelata, mi butto in ginocchio per cercarlo, grazie al cielo le mie mani tastano la sua plastica scivolosa, ma per l’agitazione non riesco a sbloccare la tastiera.
Mi rialzo, temendo di essere pugnalata a morte mentre cerco di comporre il numero, e stavolta niente fermerà la mia fuga. Correre potrebbe essere un’altra mossa idiota, ma a questo punto anche non farlo sembra poco intelligente. Riapro il box e davanti a me c’è solo oscurità, ma non importa. Mi metto a correre, pregando di non andare a sbattere contro la persona che è qui dentro con me e di non inciampare in questo buco nero. Voglio solo uscire di qui. Fuori. Fuori. Fuori. Non riesco a pensare ad altro. È questo che mi spinge in avanti, dritta verso l’uscita. Sono in preda a un’esplosione di paura e di adrenalina che ha sfaldato ogni pensiero logico e razionale su cui potevo contare qualche attimo fa.
Cerco la luce della strada, ma la porta d’ingresso ora è chiusa, e la colpisco con una forza che mi fa sbattere i denti. Mi sono morsa la lingua e sento in bocca il sapore ferroso del sangue, ma questo non frena la mia fuga. Cerco a tastoni la maniglia ed esalo un sospiro di sollievo quando questa cede e la porta si apre.
In un nanosecondo sono fuori, la luce fioca dei lampioni e la fresca aria serale di San Francisco sono una manna dal cielo dopo quel buio soffocante. Schizzo verso la mia
auto, ogni muscolo in tensione. Ho il terrore di avere qualcuno alle calcagna ma non voglio sprecare secondi preziosi per verificarlo. Stringo in mano le chiavi fino a conficcarmele nella pelle del palmo Cerco freneticamente il telecomando per aprire la portiera. Il tempo sembra sospeso mentre lotto contro l’impulso di girarmi. Salgo a bordo.
Certa che qualcuno stia per colpirmi alla schiena, chiudo la portiera e faccio scattare la sicura. Fuori dal finestrino non vedo nessuno, ma mi aspetto di sentire da un momento all’altro un rumore di vetri infranti. Le mie mani tremano così tanto che con una devo tenere ferma l’altra per inserire la chiave nell’accensione. Quando finalmente ci riesco, metto in moto e inserisco la retromarcia. Gli pneumatici stridono e il mio cuore rimbomba. Metto la prima poi inchiodo di colpo e la brusca frenata mi fa balzare in avanti. Il suono del mio respiro pesante riempie l’inquietante silenzio dell’abitacolo mentre fisso la porta aperta dell’edificio, senza vedere niente di spaventoso o spettacolare. È solo che... È questo posto. Ci sono solamente io, non sembra esserci nessun altro in circolazione.
Non importa. Più resto seduta qui, più mi sento esposta, vulnerabile, un bersaglio. Premo il pedale dell’acceleratore. Devo uscire da questo parcheggio, subito.
Sono diretta verso la superstrada, le mani strette sul volante, quando mi rendo conto che il box è rimasto aperto. Ho dimenticato di chiuderlo e ora me ne sto andando. Entro in una stazione di servizio e fermo la macchina. Resto lì seduta. Forse per un minuto, due, dieci. Non saprei dirlo. Non riesco a formulare pensieri coerenti. Lascio cadere la testa sul volante e tento di concentrarmi. Il deposito. I segreti di Rebecca, la sua vita. La sua morte. Alzo la testa di scatto. No. Non è morta. Non è morta... eppure, dentro di me so che in quel box c’è un suo segreto che qualcuno vuole impedirmi di scoprire.
«Devo tornare a chiuderlo» mormoro. Potrei chiamare la polizia e farmi accompagnare. Certo non mi arresteranno perché ho paura del buio. Magari scoppieranno a ridere, magari saranno infastiditi, ma stavolta non intendo correre rischi.
Il mio telefono squilla dal sedile, dove non ricordavo di averlo gettato, facendomi sussultare. “Santo cielo” mi rimprovero “ripigliati, Sara.”
Lancio un’occhiata al numero. Chris. Il petto mi brucia per l’emozione. Tra noi ci sono tante cose che non vanno, e altrettante sono le ragioni per cui non dovremmo stare insieme. Eppure, nonostante questo, o forse proprio per questo, non ho mai avuto così bisogno di sentire la voce di qualcuno in tutta la mia vita.
«Sara» mormora quando rispondo, e il mio nome è una nota vellutata di perfezione virile che colma il vuoto profondo della mia anima come solo lui è in grado di fare.
«Chris.» Mi trema la voce perché, mio malgrado, ho le lacrime agli occhi. Come sono passata dal vivere gli ultimi anni senza farmi toccare da nulla, all’esatto contrario nel giro di pochi giorni? «Vorrei... vorrei che fossi qui.»
«Ci sono, piccola» dice, e io credo, o forse spero, di sentire una traccia di commozione nelle sue parole. «Sono davanti alla tua porta. Vieni ad aprire.»
Sbatto le palpebre, confusa. «Pensavo che fossi a Los Angeles per l’evento di beneficenza.»
«Infatti, e domattina devo tornarci, ma avevo bisogno di vederti. Fammi entrare.»
Sono sconvolta. Ho rimuginato sul suo silenzio per tutto il giorno. Temevo che volesse tagliarmi fuori, come ho fatto io con lui ieri sera. «Sei tornato solo per vedermi?»
«Sì. Sono tornato solo per vederti.» Sembra avere un’esitazione. «Hai intenzione di lasciarmi fuori?»
L’emozione che cerco di reprimere mi scoppia dentro, e il bruciore agli occhi minaccia di trasformarsi in una crisi di pianto. È tornato per vedermi, ha preso un volo, si è fatto in quattro nonostante la mia reazione alla sua confessione di ieri sera, al club. «Non sono a casa.» La mia voce è quasi impercettibile. «Non ci sono, ma voglio tornarci. Potresti venire qui, per favore?»
«Qui dove?» chiede lui, con un’apprensione simile a quella che sento io.
«A pochi isolati di distanza. In una stazione di servizio vicino al deposito di cui ti ho parlato.» Non riesco a pronunciare il nome di Rebecca, non so perché.
«Arrivo subito.»
Sto per dargli le indicazioni, ma ha già riattaccato.
Ilaria di
Bookcret, quello che i libri non dicono
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